DIRITTI UMANI libertà religiosa negata

DI MALE IN PEGGIO

In barba alla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo,
la libertà religiosa
è sempre più calpestata,
specialmente in Asia, dove
le minoranze cristiane sono
le più esposte a repressioni
e persecuzioni.
Presentiamo alcuni casi.

Oltre 410 milioni di cattolici
soffrono limitazioni alla libertà
religiosa nel mondo.
Nei paesi islamici i cristiani sono sistematicamente
discriminati e posti
in condizione di inferiorità sociale,
quando non sono oggetto di massacri
e pulizie da parte di milizie islamiche:
in quelli con regimi comunisti
continuano a subire persecuzioni
e repressioni; negli stati a maggioranza
buddista e induista la situazione
non è affatto migliore.
L’Asia, soprattutto, si rivela il continente
in cui, anche nel 2001, la libertà
religiosa è stata maggiormente
negata: lo testimoniano i rapporti annuali
su tale argomento del Dipartimento
di stato americano, Amnesty
Inteational, Aiuto alle chiese che
soffrono e altri organismi inteazionali
in difesa dei diritti umani.
Gli esempi che riportiamo non sono
i peggiori, ma bastano a dare un’idea
di un problema sempre più grave
e di cui si parla sempre meno. Dove
il diritto alla libertà religiosa non
è rispettato, anche gli altri diritti fondamentali
vengono calpestati.

MYANMAR: proibito… cantare
Nell’ex Birmania è presente circa
un milione di cristiani, di cui 400 mila
cattolici, su una popolazione di
quasi 46 milioni di abitanti.
Dal 1996 il regime militare birmano
non concede licenze di costruzione
per edifici di culto e, dal luglio
2001, è in vigore un ordine governativo
per cui «le comunità cristiane
non possono riunirsi in luoghi di culto
costruiti meno di un secolo fa».
Da allora sono state chiuse oltre 80
chiese nella capitale Rangoon; altre
20 a Shwe Pyi Tar; a Haling Tai Yar,
invece, sono stati chiusi tutti gli edifici
di culto: i cristiani hanno il permesso
di riunirsi privatamente, ma
con l’ordine di non cantare.
A 5 ministri cristiani del culto è
stato ordinato di lasciare il paese; altri
17 hanno scelto la latitanza. È ancora
in carcere la pastora battista
Gracie, arrestata il 13 febbraio 2001
e inteata nel campo militare di
Haka con l’accusa di aver dato rifugio
a separatisti di etnia chin: il tribunale
le ha inflitto una condanna a
due anni di lavori forzati. Stessa condanna
è stata inflitta al fratello maggiore,
accusato dello stesso reato.
Per i fedeli del luogo, però, tali accuse
sono infondate e mirano a ridurre
la libertà religiosa.
In Myanmar è da anni in corso una
guerra civile contro vari gruppi etnici
separatisti e una spietata repressione
contro l’opposizione. A volte la
tensione politica sfocia in scontri a
sfondo religioso, soprattutto tra buddisti
e musulmani, provocando vittime
e distruzioni di case e moschee.
Nei confronti della minoranza islamica
(3,3%, contro il 69% buddista),
il governo persegue una politica
particolarmente repressiva, confinando
i musulmani in determinate
aree del paese e limitandone la libertà
di movimento. Nel corso del
2001, nello stato di Arakan, il governo
ha provveduto a distruggere 10
moschee e a programmare l’abbattimento
di altre 30.

BHUTAN:
cambiare religione… o paese

L’8 aprile 2001, domenica delle
palme, la polizia bhutanese schedò i
fedeli radunati davanti ai luoghi di
culto; molti pastori protestanti furono
arrestati e sottoposti a interrogatori
e minacce di detenzione. Altri fedeli
fuggirono per paura di essere identificati.
Il prezzo più salato lo
pagò il pastore Yakub, arrestato per
15 giorni e sottoposto a percosse affinché
abiurasse.
La campagna persecutoria è scattata
nel 2000, con l’invio a impiegati
pubblici e privati di speciali moduli
da compilare, in cui si chiedeva di
sottoscrivere «norme e regole che sovrintendono
la pratica della religione
»; la distribuzione dei moduli era
accompagnata da minacce ai cristiani:
«Abbandonate la vostra religione
o lasciate il paese».
Il governo del Bhutan, naturalmente,
nega schedature e ultimatum
e afferma che nel paese ognuno è libero
di professare e praticare la propria
fede. Ma la testimonianza dei
cristiani conferma che i non buddisti
soffrono discriminazioni politiche
e sociali e la persecuzione contro i
cristiani è ora estesa e sistematica, villaggio
per villaggio; in alcune città i
cristiani sono malmenati e non possono
riunirsi se non in case private;
non hanno promozioni sul lavoro;
subiscono licenziamenti immotivati,
la revoca di licenze commerciali,
vengono loro negati i benefici dell’assistenza
pubblica.
Su 1,8 milioni di abitanti, il 70,1%
della popolazione del Bhutan è costituita
da buddisti lamaisti, 24%
indù, 5% musulmani e 0,33% cristiani.
Il Bhutan è l’unico regno buddista
nel mondo: l’inno nazionale è
dedicato a Budda; il buddismo è religione
di stato; molti uffici pubblici
sono situati all’interno di monasteri
buddisti. Non ha una costituzione
che garantisce i diritti dei cittadini.

LAOS:
una chiesa da spazzare via

«Tutti i cittadini hanno diritto e libertà
di credere o non credere nelle
religioni» recita l’art. 30 della Costituzione
del Laos, quasi a sancire l’indifferenza
dello stato verso la religione,
anche se l’art. 9 afferma che «lo
stato rispetta e protegge tutte le attività
legali dei buddisti e dei fedeli
delle altre religioni; mobilita e incoraggia
monaci e novizi buddisti, così
come i preti di altre religioni, a partecipare
alle attività che sono di beneficio
al paese e al popolo… Sono
proibiti tutti gli atti che creano divisione
di religioni e classi di persone».
Tale conclusione, piuttosto vaga, è
fatta apposta per giustificare le restrizioni
all’esercizio della libertà religiosa.
L’art. 66 del Codice criminale
«proibisce a qualsiasi individuo di
organizzare o prendere parte a incontri
per creare disordine sociale».
Nel 1998, citando tale articolo, l’ambasciatore
laotiano in Usa spiegava
la filosofia del regime, affermando
che il governo «si oppone fermamente
all’abuso della libertà di religione
per promuovere il dissenso
politico e disordine interno».
Tale politica di «prevenzione» si
traduce in repressione, specialmente
contro la chiesa cattolica. I permessi
per costruire nuove chiese, per
esempio, sono dati solo in quei posti
dove già c’è stata una chiesa cattolica;
per qualsiasi tipo di riunione deve
essere richiesto un permesso speciale
dalle autorità locali a cui va presentata
anche la lista completa dei
partecipanti.
Vari testimoni riferiscono che a subire
maggiormente la repressione è
«la popolazione rurale nel nord del
paese». In diversi villaggi «le autorità
locali hanno esercitato una grande
pressione sulla gente in modo da
prevenire ogni possibile conversione
al cattolicesimo. A tale scopo ci
sono stati numerosi arresti di sacerdoti
e operatori pastorali. Sembra
che il governo usi ogni mezzo per evitare
la crescita del cattolicesimo».
Anche le altre confessioni cristiane
sono nel mirino del regime.
La repressione contro le comunità
cristiane, si è intensificata negli
ultimi anni ’90. Nel mirino ci sono
soprattutto i cristiani, presenti principalmente
tra le etnie minoritarie
hmong e khmu. In alcuni villaggi,
oltre alla rinuncia scritta al cristianesimo,
le autorità forzano i cristiani
a seguire riti animisti, che includono
sacrifici degli animali, bere il
loro sangue e parlare agli spiriti.
Ma anche in quella lao, maggioritaria,
non si fanno eccezioni: tra il
2000 e il 2001, il governo laotiano
ha arrestato e imprigionato oltre
550 cristiani hmong e lao e ha chiuso
in varie province oltre 65 chiese
cristiane e istituti religiosi. Il rapporto
del Dipartimento di stato americano
afferma che nel 2001 vari
cristiani lao «sono stati arrestati, detenuti,
minacciati con la perdita del
lavoro nel governo, fisicamente impediti
dalle forze di sicurezza di
partecipare alle celebrazioni delle
principali festività religiose».
Un caso esemplare: otto leaders
cristiani passarono il mese di giugno
2001 in prigione, perché si erano rifiutati
di firmare un documento in
cui rinunciavano alla fede cristiana.
Fu un mese di torture: venivano regolarmente
trascinati nel cortile della
prigione e «invitati» a firmare tale
rinuncia con una pistola puntata alla
testa. Al momento del rilascio, tre
di essi non erano più neanche in grado
di camminare.
Una trentina di cristiani sono ancora
in carcere, alcuni dei quali da oltre
due anni, per la maggior parte, in
totale isolamento. Altri vengono regolarmente
picchiati.
Il governo comunista del Laos
sembra impegnato a spazzare via la
chiesa dal paese. Impressioni confermate
dai membri della burocrazia
laotiana, in disaccordo con la persecuzione
dei cristiani, riportate dal Telegraph
di Bangkok nel luglio 2001:
«Il Politburo e le maggiori autorità
hanno ripetutamente espresso l’intenzione
di liberare il paese da ciò
che è sprezzantemente descritta come
una fede aliena».

NEPAL: i nipotini… di Mao
Il Codice penale nepalese sanziona
con la detenzione fino a tre anni
chi esercita qualsiasi forma di proselitismo
nei confronti di cittadini
indù. Tale sanzione è sfruttata dagli
estremisti induisti per accusare i
membri di una confessione diversa,
provocandone l’immediato arresto.
Ne hanno fatto le spese il missionario
protestante norvegese Trond
Berg e tre cittadini nepalesi: arrestati
nell’ottobre 2000 con l’accusa di aver
cercato di convertire con denaro
un indù, sono stati rilasciati dopo
quattro mesi, perché al processo non
si sono presentati gli accusatori.
Dal 1996 il Nepal respira un pesante
clima di tensione politica e sociale,
provocata dalla campagna dei
ribelli maoisti per rovesciare la monarchia
costituzionale e istituire una
repubblica comunista. Nella seconda
metà del 2001, numerose stragi
hanno mietuto centinaia di vittime
tra forze dell’ordine e terroristi.
Nel mirino maoista ci sono soprattutto
le scuole private, molte delle
quali hanno ricevuto lettere intimidatorie,
minacce e distruzioni. Dal
2000 hanno già chiuso 150 istituti. La
soppressione del sistema scolastico
privato danneggerebbe un milione di
studenti e 75 mila insegnanti.
Le scuole cattoliche del Nepal occidentale
sono state particolarmente
colpite, ma continuano a lottare
per rimanere aperte. Tali pressioni e
rappresaglie vengono da organizzazioni
politiche filo-cinesi, che si oppongono
alla presenza della chiesa
cattolica nel paese.

TURKMENISTAN:
ritorno alle… catacombe

Quella di Shagildy Atakov è una
storia esemplare di ciò che sta capitando
nel paese. Convertito alla chiesa
battista, 39 anni, moglie e quattro
figli, nel dicembre 1998 Atakov fu incarcerato
e pestato a sangue, fino a
perdere temporaneamente la vista.
Condannato per frode a due anni
di lavoro forzato, in appello la sentenza
fu commutata a quattro anni di
carcere e una multa pari a 12 mila euro.
Nessuno dubita che la sua condanna
sia stata una punizione per la
sua conversione al cristianesimo.
Rifiutatosi di rinunciare alla sua fede
e giurare fedeltà al presidente
Niyazov, Atakov fu sottoposto a maltrattamenti
e vessazioni; ricoverato
all’ospedale per un attacco cardiaco
(2000), fu subito rispedito al campo
di lavoro, poi in cella di isolamento in
un carcere di massima sicurezza.
Per un certo periodo, anche moglie
e figli furono messi agli arresti
domiciliari in un villaggio ai confini
con l’Iran e subirono varie pressioni
dai funzionari di sicurezza, affinché
si convertissero all’islam.
Il caso Atakov ha suscitato scalpore
a livello mondiale. Perfino il Parlamento
europeo e l’Organizzazione
per la sicurezza e la cooperazione in
Europa (Osce) si sono interessati del
suo caso. Ed è, forse, grazie alla pressione
internazionale che Atakov è
stato rilasciato nel febbraio 2002, prima
che scontasse l’intera pena. Ma,
privo di documenti d’identità, egli si
trova ancora sotto sorveglianza.
Casi come quelli di Atakov ne segnalano
a bizzeffe gli organismi in difesa
dei diritti umani. Fin dall’indipendenza
(1991), in Turkmenistan
c’è un crescendo di attacchi contro i
gruppi religiosi minoritari, tanto da
fae il più repressivo dei paesi dell’ex
Unione Sovietica in materia di libertà
religiosa.
Tale diritto è garantito dalla Costituzione
solo sulla carta. Secondo la
legge turkmena, ogni gruppo religioso
deve essere registrato; per ottenere
tale registrazione deve provare di
essere composto da almeno 500 persone
di età superiore ai 18 anni e residenti
nella stessa città. Tali requisiti
fanno sì che nessun gruppo, tranne
i musulmani sunniti (87% dei 4
milioni e mezzo di turkmeni) e la
chiesa ortodossa russa (6,4%), possa
ottenere il riconoscimento legale. I
cattolici (5 mila) e le altre chiese cristiane
hanno comunità di poche decine
di fedeli. Inoltre, col vento che
tira, i cristiani di origine turkmena sono
riluttanti a inserire i loro nomi in
un documento pubblico, rivelando
la loro conversione. Il passaggio dall’islam
al cristianesimo è malvisto dallo
stato e dalla società.
Le comunità religiose non riconosciute,
pur presenti nel paese, non
possono radunarsi, fare proselitismo
o distribuire materiale religioso. Non
è consentito neppure di incontrarsi
in case private: se vengono scoperti,
e lo sono spesso, dato lo zelo della polizia
di sicurezza, i partecipanti sono
soggetti a multe e arresti amministrativi
e accuse penali, che si traducono
in carcerazioni, torture, deportazioni
ed espulsioni, sequestri e distruzioni
di proprietà. L’accanimento
si riversa soprattutto sui leaders dei
gruppi cristiani, per spezzae la resistenza
e forzarli a rinunciare alla fede
o a lasciare il paese.
La chiesa cattolica è autorizzata a
celebrare le funzioni e a svolgere attività
religiose solo sul territorio della
nunziatura apostolica, coperto da
immunità diplomatica.
Ma anche gli unici due gruppi religiosi
riconosciuti dallo stato sono
soggetti a controllo, i musulmani soprattutto.
Per impedire l’ingresso di
movimenti islamici stranieri, il governo
usa vari modi: vieta la distribuzione
di materiale religioso islamico
pubblicato fuori del paese; paga
lo stipendio al clero islamico e
vieta l’insegnamento a certi imam;
chiude scuole coraniche; seleziona e
riduce al minimo i partecipanti al
pellegrinaggio annuale alla Mecca.
La ragione della politica di crescente
repressione della libertà religiosa
è spiegata chiaramente dall’ex
ministro degli esteri turkmeno,
Boris Shikhmuradov, in dissidio col
regime e per questo rifugiatosi a
Mosca: «Il presidente Niyazov
prende personalmente tutte le decisioni
su ogni aspetto della vita del
paese, incluse le questioni religiose,
sebbene egli non abbia alcuna idea
di cos’è la religione. Egli non
tollera alcun dissenso e si serve dei
servizi segreti e polizia di
sicurezza per controllare
il paese».

Dati e fatti riportati sono desunti da varie
fonti, non citate per non appesantire la
lettura, ma consultabili via internet:
– Rapporto 2002 sulla libertà religiosa nel
mondo (Aiuto alla chiesa che soffre)
www.alleanzacattolica.org
– Inteational Religious Freedom Report
for 2002 (Dipartimento di stato Usa)
www.state.gov/g/drl/rls/irf/2002
– Amnesty Inteational (www.amnesty.it)
– Keston News Service (www.keston.org)
– Human Rights Watch (www.hrw.org)

Benedetto Bellesi

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