I NOSTRI VICINI DI CASA

Per prepararsi a diventare diacono, un’avventura missionaria…«fuori porta». Che, ribaltando dubbi e pregiudizi, spinge a una condivisione senza sconti.

Raccontare i miei tre mesi in
Albania non è facile: specialmente
se penso ai «luoghi
comuni» sugli albanesi, cui sono legate
le nostre menti. Poi, quando si
parla di «missione», non si pensa ad
un luogo vicino geograficamente…
Quindi i pregiudizi da superare sono
tanti. È lo sforzo che bisogna fare
anche per incontrare l’Albania
nella sua verità. Una terra così vicina
e così lontana da noi.
Dopo aver trascorso due anni in
una parrocchia di Brescia con molti
immigrati, ho desiderato «vedere
» una loro nazione di provenienza.
E sono andato in Albania.
Sono partito per compiere un’esperienza
forte, in vista della mia ordinazione
diaconale: imparare che
nella vita è importante sentirsi piccoli,
non sempre con le soluzioni in
tasca. Ma non immaginavo che vivere
in un luogo di cui conoscevo la
lingua solo in modo rudimentale e
dove non potevo adottare nessuna
«strategia» pastorale… mi avrebbe
aiutato a guardare con più umiltà al
dono del diaconato.

ALBANIA SCONOSCIUTA
È il giorno della partenza. Mi attende
un lungo viaggio in camion da
Brescia a Bari, l’attraversata dell’Adriatico
in traghetto e l’arrivo a Durazzo,
finalmente in Albania! Ma è
solo l’inizio.
Dopo due giorni per sbrigare le
pratiche doganali (altro che la burocrazia
italiana!), mi metto in viaggio
per la diocesi di Rrëshen, dove
vivrò. La diocesi si trova nel nord
del paese e confina con la Macedonia.
Gli spostamenti sono lunghi,
perché le strade sono pessime ed è
necessaria molta attenzione per evitare
le capre e gli asini che si incontrano
lungo il tragitto.
La gente saluta con entusiasmo e
i bambini si aggrappano con facilità
al camion, per vedere cosa trasporta.
Sembra che mi aspettino da tanto.
E forse è vero: per troppo tempo
ci siamo dimenticati di questi
«vicini di casa», e loro sono lì, come
per dirci: «Finalmente!».
Dopo tre giorni di viaggio, arrivo
a destinazione. Una sosta a Rrëshen
per la scorta d’acqua (di potabile ce
n’è ben poca!), il saluto a padre Cristoforo,
amministratore apostolico
(uno dei soli tre preti nella diocesi)
e sono a Fanë, la meta finale. È un
villaggio nascosto fra le montagne,
raggiungibile con una strada sterrata,
che offre però paesaggi stupendi.
Pochi minuti per ambientarsi e,
subito, sono sommerso da una folla
di bambini, che accorrono per vedere
il nuovo arrivato. In quei volti,
in quel desiderio di conoscere e
accogliere, in quelle mani sporche
(segno del lavoro a cui sono sottoposti
i più piccoli)… c’è l’Albania
sconosciuta.
Intanto gli amici, che mi hanno
accompagnato in camion, ripartono
per l’Italia. Io mi ritrovo «solo».
Alcune suore mi danno la carica e
non c’è troppo tempo per i convenevoli:
la gente e i giovani aspettano.
E, siccome la voce della donna
non è sempre ben accolta, una suora
subito mi catapulta in mezzo a loro,
accompagnato da un giovane,
per la lingua.
Ho poco a disposizione, se non la
bibbia, unico libro tradotto in albanese,
e con questa faccio tutto: catechesi,
incontri sulla vita, giochi, visite
alle famiglie. A volte lo stupore
mi blocca: i giovani fanno ore di
cammino per venire ad ascoltarmi,
per parlare con me; poi, digiuni, ritornano
al villaggio. Nessuno ha mai
parlato loro della dignità della vita,
come il vangelo insegna… ed è della
vita, vissuta in grande e con riferimenti
a Dio, che scoprono di avere
bisogno.
Il regime comunista albanese aveva
cancellato ogni traccia di umanità
nelle persone. La maggioranza dei
giovani incontrati non aveva mai
sentito parlare di Dio prima del
1990: per loro Dio è «una scoperta
recente»! Ma se succede (magari attraverso
la testimonianza di un missionario),
non riescono più a fae a
meno.
L’amore di Dio, manifestato nella
condivisione di vita, entra nel loro
cuore indurito e fa quasi toccare
con mano che deve esserci Qualcuno
più grande e veramente buono.

IMPARANDO AD AMARE
Chi fa sperimentare questa presenza?
Certo, i missionari. Ve ne sono
in Albania? Nelle città, dove tutto
è più o meno comodo, anche la
presenza religiosa è considerevole;
ma nelle diocesi intee, dove manca
acqua, la corrente elettrica c’è solo
7/8 ore al giorno e la vita è «schiava
» delle tradizioni… la presenza religiosa
è rarissima. A Rrëshen, su un
territorio di 4 mila kmq, dal 1991 vi
sono tre solo missionari vincenziani,
alcune suore e… basta. Le condizioni
locali invitano chiunque ad andarsene.
Durante la mia permanenza ho
visto molti religiosi venire, guardare
e andarsene: troppo difficile restare.
Ho percorso in lungo e in largo
la diocesi con un padre vincenziano;
nel guardare la gente lontana
da Rrëshen (dove la chiesa cattolica
non è arrivata), ci domandavamo:
«Qui chi annuncerà Gesù Cristo?».
Una domanda che tuttora mi pongo
ogni volta che prendo in mano la
bibbia.
Prima di lasciare una di queste
zone «inesplorate» e ritornare alla
missione, abbiamo fermato la jeep
sul ciglio della strada; dopo aver appeso
una corona del rosario ad un
albero, abbiamo pregato ricordando
le parole di Gesù: «Ci sono altre
pecore che non sono di questo ovile;
anche queste io devo condurre».
Sì, anche questi fratelli hanno il diritto
di sentire la vicinanza del Signore.
I giorni vissuti a Fanë sono paragonabili
(per intensità) a quelli degli
«esercizi spirituali»: ti segnano
«dentro» e ti spingono a cambiare
vita. Ogni giorno era un esercizio di
disponibilità verso i bambini e ragazzi
che, sin dal mattino, bivaccavano
al cancello della missione in attesa
di un abbraccio, una parola. Era
difficile accontentare tutti, ma
non impossibile: bastava un po’ di
entusiasmo. A volte, di fronte al loro
carattere difficile, veniva voglia
di essere altrettanto scontrosi; ma
scattava «l’esercizio» di amare senza
contraccambio, richiesto dal Signore.
Ma è stato pure arricchente gustare
l’ospitalità delle famiglie nelle
loro povere case: ti davano l’unica
sedia e loro, seduti per terra, aspettavano
una parola diversa. Spendevano
i pochi soldi che avevano, per
comprarti una bibita (dato che l’acqua
è poco affidabile); venivano a
prenderti alla missione e ti riportavano.
Ne nasceva pure una passeggiata,
cui si aggregavano decine di
ragazzi. Poi facevano a gara per invitarti
a casa loro.

CON I GIOVANI
Ho svolto il mio servizio quasi esclusivamente
fra i giovani, ed è attraverso
loro che ho incontrato il
volto dell’Albania che spesso non ci
giunge: quello di gente accogliente,
desiderosa di sapere e sperimentare
sentimenti di amicizia vera, di capire
che la vita (anche quella di un
albanese!) è una vocazione.
Ricordo i ragazzi che stanno facendo
un cammino propedeutico al
seminario: vedendo i padri e le suore,
hanno sentito il desiderio di imitarli,
anche se la strada è lunga. Il
cammino consiste nel far loro compiere
un’esperienza di Gesù nella
preghiera e, soprattutto, nella disponibilità
al servizio gratuito verso
i coetanei: un compito difficile, anche
per la povertà dei mezzi a disposizione.
In qualcuno di loro Dio
ha seminato il germe della vocazione.
Ora tocca a noi aiutarli a farlo
crescere con il nostro amore.
Forse questo, più che una testimonianza,
è uno sfogo. Ritengo che
sia anche necessario gridare dai tetti
che vi sono fratelli vicini a noi, bisognosi
di aiuto; che non sono come
li immaginiamo, perché esiste
anche un’Albania diversa dai «soliti
fatti negativi». È tempo di pensare
che l’amaro non fa distinzioni,
ma richiede solo una grande disponibilità.
Se può essere più facile aiutare
una nazione lontana (perché
non ci tocca più di tanto), interessarsi
ad una vicina può chiederci un
coinvolgimento maggiore, soprattutto
per eliminare pregiudizi e stereotipi.
Provate a dire che avete aiutato…
un albanese e poi osservate la reazione
dell’interlocutore; provate a
dire che partite in missione per l’Albania
e avrete reazioni curiose.
Ame questo non importa. Ho incontrato
Dio in Albania e Lui
sta cercando di parlare al cuore della
gente; ma chiede anche la nostra
disponibilità per manifestare il suo
amore verso chi, fino a ieri, ha conosciuto
quasi solo repressione e
violenza.
Se abbiamo la coscienza di essere
stati amati gratuitamente, non possiamo
esimerci dal fare altrettanto.
Questo l’ho scoperto grazie anche agli
albanesi. Ora ad essi
offro, anche se piccolo, il
mio amore.

Roberto Ferranti

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