Cari missionari

I conti della pace

Riflettendo sulla lettera «Armi e bandiere» (Missioni Consolata dicembre 2009), e senza entrare nel merito dell’opportunità o meno dell’acquisto degli F-35, ho pensato di mettere a disposizione la mia competenza professionale (faccio il contabile) per chiarire un po’ la questione dei posti di lavoro che verrebbero creati dall’assemblaggio a Cameri dei suddetti aerei: 300 posti a fronte di un investimento complessivo stimato in 15 miliardi di euro. Facendo la divisione risulta che ogni posto di lavoro verrebbe a costare allo Stato (cioè ai contribuenti) 50 milioni di euro. Ipotizzando che il lavoro per la produzione dei caccia si protragga per un ventennio, è possibile fare un confronto con il costo di un posto di lavoro «pacifico» per lo stesso periodo di tempo Dunque, calcolando (ad abundantiam) in 50 mila euro il costo del lavoro medio annuo (comprensivo di stipendio, imposte e contributi) di un operaio specializzato, o impiegato, o insegnante ecc., e moltiplican- dolo per venti, si ottiene un costo totale per vent’anni di 1 milione di euro, vale a dire un cinquantesimo del costo per ogni unità lavorativa nel programma F-35. Detto in altri termini, con quel che costa un posto di lavoro nello stabilimento di Cameri, si possono creare 50 posti di lavoro nelle industrie civili, nel commercio, nella sanità, nella scuola. In totale 15.000 posti di lavoro invece di 400. Riservati 300 di questi posti di lavoro “pacifici” ai mancati lavoratori di Cameri – al Sig. Pietro perché possa pagare le rate del mutuo, all’Ing. Giorgio appena divenuto papà, al Dott. Giuseppe perché possa mantenere la famiglia, ecc. – con i costi rimanenti si petrebbe permettere a 14.700 altre persone attualmente disoccupate di provvedere agli stessi bisogni.
Tengo a precisare, a scanso di equivoci, che l’abissale differenza nel costo dei posti di lavoro (50 a 1, come detto), non dipende assolutamente da un’altrettanto grande differenza nelle retribuzioni dei lavoratori. Il fatto è che nel programma F-35 l’incidenza del costo del lavoro è minima, il grosso dei costi essendo costituito dalle spese per lo sviluppo (o l’acquisto dagli Usa) delle sofisticatissime tecnologie del nuovo caccia.
Viceversa, il costo per creare un posto di lavoro nell’istruzione o nella sanità equivale in pratica alla sola retribuzione lorda del lavoratore in quanto non si tratterebbe di costruire nuove scuole ed ospedali (che pure costerebbero assai meno dei cacciabombardieri) ma solo di assegnare personale aggiuntivo alle strutture già esistenti, quasi tutte sofferenti per carenza di organico (si veda per la scuola la riforma Gelmini).
Se poi si volessero investire i 15 miliardi di euro nell’edilizia popolare, calcolando in 100 mila euro il costo di costruzione di un dignitoso appartamento, risulta che se ne potrebbero costruire ben 150 mila! A quante persone si darebbe lavoro costruendo 150 mila alloggi? E a quante si darebbe un tetto?

Giorgio Parodi
Asti

Anche la «ragioneria della pace» può essere utile a chiarire i vari aspetti di un problema complesso come quello degli armamenti. Ringraziamo il lettore che ha provato a dare fondamento economico a una discussione che si era finora mantenuta su un piano prettamente etico .

Grazie Antonella

Carissimi amici,
Gesù dice che non c’è amore più grande che dare la vita per coloro che si amano. Così vi racconto di una giovane madre, che ho aiutato a crescere da quando aveva otto anni.
Ho ricevuto tre messaggini dal Kenya. Il primo era del 2 dicembre scorso: «Ho bisogno di preghiere, sono malata. La settimana scorsa mi han detto che ho un cancro del sangue. Sono incinta di sette mesi. Per favore, domanda a Dio che mi dia ancora tre mesi». Il secondo, del 9 febbraio di quest’anno, era scritto dal marito: «Sembra che la fine sia vicina. Dio è stato buono. Abbiamo una bellissima figlia nell’incubatore. I dottori qui non possono fare di più». L’hanno chiamata Olivia. L’11 febbraio è arrivato il terzo: «Mi dispiace. Il Signore ha chiamato Seya questa mattina». In questi tre messaggini si sintetizza il grandissimo atto di amore di Antonella Seya, giovane mamma turkana che avrebbe compiuto 28 anni il prossimo settembre.
Antonella ha dato la sua vita per la figlia che portava in grembo. Non ha scelto l’aborto, che certamente le hanno proposto. Ha dato tutto. Un grandissimo dono, da chi non aveva altro che la sua vita da donare.
Antonella, piccola donna africana, la tua morte non ha fatto notizia, neanche nel tuo paese, il Kenya. Con l’appoggio di molti amici avevo investito tanto su di te, per aiutarti a diventare un’infermiera. Economicamente è stato un povero investimento davvero, visto che hai lavorato solo per pochi anni. Ma sono fiero di te, perché hai dato una grandissima prova d’amore. Sei stata l’investimento più bello che abbia mai fatto.
Approfitto di queste poche righe per ringraziare tutti coloro che han letto la storia pubblicata sulla rivista dello scorso dicembre, «Colei-che-ride non ride più», e hanno dato una mano. Il vostro aiuto è investito specialmente in educazione, perché con l’educazione si combatte la povertà e si rendono persone soggetto del proprio riscatto. Se poi, donando un po’ di affetto, si aiutano anche delle persone a fare delle scelte d’amore, allora l’investimento è davvero perfetto. Grazie di cuore. Se altri vogliono unirsi e dare una mano a far studiare tanti ragazzi e giovani, sono i benvenuti, perché questo servizio ha tempi lunghi e i bisogni sono tanti. Grazie, asante sana (kiswahili), ace olen (samburu).

p. Gigi Anataloni
Torino

I missionari alla Rai: spegnete il gossip,
riaccendete l’informazione

La Federazione Stampa Missionaria Italiana (Fesmi), che raduna una quarantina di testate per un totale di 500mila copie mensili, interviene contro l’intenzione della Rai di chiudere 5 sedi estere.

A meno di clamorosi ripensamenti, la Rai sta per chiudere cinque sedi di corrispondenza nel mondo: Beirut, Il Cairo, Nairobi, New Delhi e Buenos Aires. Cinque su quindici in totale. Stiamo parlando di entrambe le sedi africane, dell’unica in America Latina e di quella in un paese così importante, non solo politicamente ed economicamente, come l’India, oltre che di quella di un paese-simbolo come il Libano.
Se andasse in porto, sarebbe una decisione grave, contraddittoria e miope. In una parola: controproducente.
Come Federazione della Stampa Missionaria Italiana, la condanniamo con forza, auspicando che la dirigenza Rai torni sui suoi passi, anche alla luce delle proteste non solo nostre, ma di molte altre realtà della società civile che in queste ore si stanno levando.
L’ipotesi di chiudere un terzo delle sedi di corrispondenza nel mondo è grave, perché va a colpire il Sud del mondo, quella parte di pianeta già oggi marginale nel circuito informativo italiano. È grave perché ispirata a criteri economicisti che, come tali, dovrebbero essere estranei a un «servizio pubblico» che voglia qualificarsi davvero come tale. Se un problema di compatibilità economica esiste, non è spegnendo l’informazione sul mondo che si risolve ma, semmai, vigilando sugli esosi compensi alle «star» del piccolo schermo o sugli sprechi cui la Rai ci abituato da troppo tempo.
È una decisione contraddittoria, perché la sede di Nairobi è stata aperta – anche per effetto di un tenace «pressing» delle riviste missionarie – soltanto due anni fa.
Ancora: qual è il senso della chiusura di una sede come l’Egitto, cruciale per monitorare l’area mediterranea e, in parte, il mondo islamico? Che senso avrebbe abbandonare oggi l’India, da tutti indicata come uno dei paesi-chiave del presente e del futuro? Appare chiaro che siamo di fronte a una scelta – se attuata – per nulla lungimirante e, alla distanza, destinata a ricadute negative. Controproducente, appunto. Il contrario di quell’efficienza che tanto viene sbandierata.
Contro la deriva di un’informazione Tv sempre più avvitata su stessa, ci eravamo pronunciati nel febbraio 2006 con l’appello «Notizie, non gossip», pubblicato da tutte le riviste della Fesmi: chiedevamo alla Rai una risposta alla scarsità di notizie da intere aree del mondo. Nel maggio 2007, dopo l’apertura della sede di Nairobi, avevamo salutato con favore l’evento: «Se la Rai ha aperto una sede in Africa, molto lo si deve alla mobilitazione del mondo missionario», aveva detto in quell’occasione Enzo Nucci, corrispondente Rai da Nairobi. Speravamo fosse l’inizio di un impegno serio. Per dar voce a popoli, culture, paesi senza voce. Purtroppo – duole constatarlo – non è andata così.
Con tutta evidenza, il problema dei tagli delle sedi estere è solo la punta di un iceberg: la questione riguarda la sensibilità complessiva per i fatti del mondo, le vicende dei continenti solo apparentemente «lontani». Non vorremmo che la scelta di dismettere le sedi straniere confermasse una volontà di ritirarsi nel guscio di un’informazione che per baricentro abbia l’Italia o l’Europa.
Un servizio pubblico che voglia dirsi realmente tale dovrebbe puntare a rendere i suoi telespettatori autentici «cittadini del mondo». Non è certo questa la strada. Chiediamo ai vertici di Viale Mazzini un tempestivo e radicale ripensamento.

FESMI (Federazione Stampa
Missionaria Italiana)

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