Uno sguardo alla psicologia del perdono
Saper dire: «Ti perdono» è il traguardo finale di un percorso fatto di piccoli successi e sofferenza. La «purificazione» del passato, con la conseguente liberazione dalla rabbia e dal risentimento è il premio finale che spetta a chi, nell’oggi, sceglie questa via per gestire i suoi conflitti, verso una vera e matura riconciliazione.
«Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdonarci reciprocamente le nostre balordaggini è la prima legge di natura».
(Voltaire)
«Il perdono è l’oamento dei forti».
(Mahatma Gandhi)
«Perdonare e dimenticare vuol dire gettare dalla finestra una preziosa esperienza già fatta».
(Schopenhauer)
«Non c’è pace senza giustizia; non c’è giustizia senza perdono».
(Giovanni Paolo II)
Sono molti i pensatori e i filosofi che nel corso dei secoli hanno fatto affermazioni sul perdono. Di fronte a comportamenti aggressivi di cui le cronache ci foiscono sempre più numerosi esempi sembrerebbe che questo termine sia obsoleto e ormai fuori moda.
Eppure l’esperienza della «rottura» è propria di ciascuno di noi: se le grandi atrocità ci pongono spesso in atteggiamento da spettatori, le sottili rivincite, le piccole vendette e le disattenzioni non casuali sono all’ordine del giorno nel nostro interagire quotidiano.
Possiamo imbatterci in un percorso di progressive incomprensioni che ingenera in noi un malessere diffuso, oppure essere oggetto di un attacco diretto da parte di qualcuno: il risultato è sempre una rottura che si genera al nostro interno, una ferita che provoca sofferenza. Il rapporto con l’altro è disturbato, interrotto, bloccato; la pace è perduta.
Da alcuni anni ho iniziato ad indagare se la parola «perdono» fosse da leggersi esclusivamente in chiave religiosa, oppure se appartenesse anche all’ambito della psicologia. La ricerca che ne è scaturita mi ha portato a scoperte interessanti sull’argomento.
Il perdono può essere definito come quel percorso che permette a chi è stato vittima di una violenza di non mantenere aperta la ferita ricevuta, ma di recuperare la fiducia nel valore della relazione con l’altro che l’offesa aveva distrutto.
Si parla di percorso in quanto è un processo di cambiamento che richiede un processo di riconversione che può durare a lungo nel tempo. Solo il tempo infatti può modulare il suo passaggio da un puro atto di volontà al coinvolgimento della emotività e di un modo nuovo di comportarci con noi stessi e con gli altri. Non va dimenticato che in una visione globale dell’uomo le sue componenti fisica, cognitiva, emotiva, comportamentale e trascendente influiscono tutte sul suo equilibrio di vita: se c’è da operare una ristrutturazione, essa sarà duratura solo se investe e coinvolge tutti questi aspetti.
Quando si usa il termine «vittima» ci vengono alla mente i grandi crimini perpetrati ai danni dell’umanità. Ciò è assolutamente corretto, ma a questa immagine va affiancata qualsiasi situazione in cui una carenza di attenzione e di amore, volontaria o accidentale, produce una sofferenza. Questo passaggio fa sì che noi stessi impersoniamo in momenti diversi tanto il ruolo di vittime che di aggressori: solo l’empatia e il tentativo di capire chi ci ha feriti ci rendono capaci di perdonare.
Molte volte l’altro non ha veramente l’intenzione di farci del male, ma siamo noi ad attribuirgli questa intenzionalità trasformandolo in un nemico da cui difenderci. Proiettiamo cioè qualche nostra paura o ansia sull’altro e creiamo senza accorgercene una situazione di tensione.
Quando si subisce un torto, soprattutto se l’entità del danno subito è grande, succede che si rompe il rapporto di fiducia con l’altro o più in generale verso la vita. Ma allora, come essere fiduciosi di fronte a situazioni che ci feriscono e ci portano a difenderci?
Il più delle volte la situazione di sofferenza in cui ci veniamo a trovare sfocia in un processo di generalizzazione, cioè pensiamo che tutte le persone che hanno le caratteristiche di chi ci ha offeso ci potrebbero a loro volta ferire («tutti gli stranieri…», «tutti gli uomini fanno così…», «tutti i giovani non…»). La delusione e la sofferenza vissute all’interno di una relazione per noi significativa hanno provocato l’innalzamento delle nostre difese e il crollo della nostra capacità di fidarci degli altri, di chiunque si tratti.
Fuori e dentro di sé
L’irrigidimento interno e il ricorso a dei meccanismi per difenderci chiudono la nostra attitudine a condividere con gli altri emozioni e stati d’animo, e senza essercene accorti, ci troviamo a coabitare con un nemico interno: l’odio. L’odio, come l’amore, è un sentimento molto forte che ha il potere di legarci indissolubilmente a una persona, facendo sì che l’aggressore rimanga presente nei ricordi, nei pensieri, nei progetti di chi è stato offeso.
Il percorso del perdono implica proprio la liberazione da questo nemico interno (l’odio declinato nelle sue varie accezioni: rabbia, rancore, delusione, tristezza, vendetta,…) per portarci a una situazione di rinnovata libertà.
Dal punto di vista etimologico perdonare significa «dare in dono». Il perdono è di fatto un dono perfetto che agisce come una doppia liberazione sia dell’offensore, che non è più identificato con la sua offesa, sia dell’offeso, liberato dal suo rancore.
La psicologia modea sta iniziando ad interessarsi al perdono in quanto esso ha la capacità di attenuare il risentimento e il rancore provocando su chi perdona un effetto catartico. Questa liberazione interiore permette di reinvestire le energie prima bloccate dalla rabbia in attività e stati emotivi costruttivi. La rabbia infatti catalizza molte delle nostre energie psichiche e ci rende poveri di energie da investire in nuovi rapporti e relazioni soddisfacenti.
In un recente convegno, Carlos Sluzki (2007, Torino), indicava il perdono come un percorso costruttore di senso per la gestione dei conflitti.
Alla luce di una propensione delle persone a condurre fuori o dentro di sé le cause dei fatti che capitano loro, Sluzki attribuiva ai due gruppi una diversa tendenza a provare sentimenti di vergogna o di umiliazione di fronte alle offese ricevute.
Ci sono persone che propendono a «intealizzare», cioè a guardare i propri pensieri e i sentimenti provocati da qualche offesa cercando dentro di sé la motivazione di quanto accaduto. Questo stile conduce a individuare in se stessi elementi scatenanti la situazione.
L’altro gruppo di persone invece propende a «estealizzare», cioè a condurre fuori di sé le cause di ciò che di spiacevole è accaduto, attribuendolo a chi gli sta attorno.
Questo meccanismo, chiamato di «attribuzione causale», lega lo stile individuale di una persona a una specifica modalità di rielaborare la rabbia: nel caso di coloro che tendono a guardarsi dentro si produce il sentimento della vergogna, mentre nel caso di coloro che cercano le cause fuori da sé, quello di umiliazione. Vergognarsi è vedere se stessi attraverso gli occhi dell’altro che ci ha offesi, è guardarsi con occhi sostanzialmente negativi: ci si chiude in se stessi coabitando col proprio senso di colpa. L’umiliazione invece è il senso di essere stati trattati ingiustamente che porta a rivolgere verso l’esterno il risentimento che si cova dentro con spirito vendicativo, che trova il suo motivo d’essere nell’umiliazione subita.
È evidente che entrambi i percorsi non contribuiscono a ristabilire un equilibrio armonico della persona che, da un lato nasconde dentro di sé i sentimenti di colpa suscitati dall’aggressore, dall’altro individua le modalità con cui rivalersi sull’altro facendogliela pagare.
Il perdono è la terza via, strada per riappacificarsi con il proprio passato e rendersi nuovamente disponibile all’esperienza attuale.
Solo nel qui e ora siamo in grado di gustare appieno l’esistenza della vita, con le giornie e le sofferenze che di essa fanno parte. Per vivere in pienezza il presente però, è fondamentale riuscire ad attribuire al passato il giusto significato. Occorre talvolta una revisione critica di fatti e avvenimenti della nostra storia, tenendo aperta la possibilità di perdonare e di perdonarci.
Non va dimenticato infatti che il «dono» del perdono può essere rivolto a chiunque: possiamo perdonare persone conosciute, ma anche ignote oppure non più in vita. Chiunque sia il destinatario di questo nostro dono, scopriremo però che i primi beneficiari del nostro atto siamo noi stessi, ricevendone in cambio preziosi frutti di pace e di serenità. C’è dunque una doppia azione tanto su chi perdona che su chi è perdonato.
La motivazione che spinge verso questo cammino può essere di tipo altruistico, spinti da un atto di bontà o dalla ricerca del risanamento per l’altro. Ma la scelta del perdono vale anche a partire da un atto di volontà, con una spinta di tipo razionale per migliorare la qualità della nostra vita attraverso la rielaborazione della rabbia.
In questo senso il perdono si configura come un processo terapeutico che libera il singolo dalla dipendenza dall’odio, restituendogli la capacità e la possibilità di sperimentarsi in modo costruttivo e libero in nuove esperienze.
Va sottolineato come il perdono, pur strettamente legato alla capacità di riallacciare rapporti, non implica tuttavia la necessità di riconciliarsi con chi è stato per noi offensore. La riconciliazione con l’altro ci porta a riavvicinarci a chi ci ha feriti, ma questo si può fare solo quando il rancore dentro di noi si sia acquietato. È un passaggio successivo, per il quale dobbiamo aspettare e cogliere il momento opportuno, sapendo rispettare i nostri tempi interni, che sono legati a molteplici fattori, non ultimo la profondità della ferita che ci è stata inferta.
Chi perdonare?
Se guardiamo attorno a noi, gli ambienti che necessitano la scelta della via del perdono come modalità relazionale sono molti: dal campo internazionale, fino a quello della famiglia e della relazione nella coppia. De Beni (2002, Brescia) in un convegno su «Dono e Perdono» parla dell’amore (definito «straordinaria esperienza di accoglienza») come del dono che, fin da bambini, dovremmo ricevere per forgiarci a diventare adulti «capaci di riconoscerlo, reinventarlo e metterlo a disposizione dell’altro». Afferma anche che «il dramma di tanti conflitti, anche nella scuola di oggi, è la mancanza di amore per i giovani: guidati da una professionalità neutrale e distaccata, si dimentica non la cultura, ma la cultura dell’essere accolti. E se ci dimentichiamo di questo i giovani non impareranno né geografia né storia… ma cercheranno di accaparrarsi quello spazio che gli è stato negato, e lo esprimeranno magari nel modo sbagliato».
Le brusche interruzioni con cui le piccole e grandi violenze spezzano il circuito dell’amore (e con esso l’equilibrio e il benessere psichico delle persone) possono essere ricucite solo con il perdono. Esso ci permette di:
– superare il passato senza rimanee schiavi o prigionieri
– liberarsi dalle emozioni negative, quali rabbia e rancori
– ristabilire la fiducia nella vita e nel genere umano
– ripristinare l’equilibrio psicologico destabilizzato dalla violenza.
Vorrei concludere citando il mondo dell’infanzia e i meccanismi evolutivi dei bambini. Ne «Il mondo incantato» di Bettelheim (1975), parlando del valore delle fiabe tradizionali nella crescita dei più piccini, l’autore constata che la magnanimità e il perdono difficilmente appartengono alle trame delle fiabe per l’infanzia, sottolineando come ciò sia assolutamente positivo per una sana crescita del bambino. Egli ha bisogno di sapere con chiarezza cosa sia buono e cosa sia cattivo, in modo da formarsi una capacità di giudizio morale che ancora non possiede. Per questo motivo i personaggi delle fiabe sono unidimensionali (o malvagi o eroici), ma non si situano mai in una via di mezzo. Essi sono dei simboli che aiutano il bambino a riconoscere le sue stesse emozioni (che lo investono sia sotto forma di gioia che di rabbia) senza considerarle distruttive per se stesso.
Nel mondo adulto spesso rischiamo di comportarci come i bambini (senza però esserlo!): l’adulto infatti ha già compreso e sperimentato la coesistenza degli opposti, come una stessa persona possa avere aspetti sia buoni che criticabili, così come sa che nella sua vita si alteeranno situazioni in cui sarà vittima e altre in cui creerà vittime.
A noi in quanto adulti, viene richiesta una visione dell’uomo dove non ci siano «streghe cattive e fate buone», bensì uomini e donne con sentimenti ed emozioni contrastanti, talvolta anche distruttivi. La strategia del perdono, che parte dalla «decisione» di intraprendere un cammino di liberazione interiore, ci insegna a guardare all’uomo nella sua unitarietà e ci spiana la strada verso la libertà.
Maria Nosengo