Quando disobbedire

Continua il viaggio alla scoperta della pace e della non violenza nelle più grandi religioni del mondo. Per il cristianesimo, tra le innumerevoli figure più rappresentative, abbiamo scelto don Lorenzo Milani. Profeta controcorrente, di fronte alle violenze che si commettono in guerra, pronunciò una frase rivoluzionaria: «L’obbedienza ormai non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni». Incompreso e osteggiato in vita, a quasi 40 anni dalla scomparsa, la sua voce è più attuale che mai

Da secoli, millenni, Dio è strattonato (quasi avesse braccia da tirare) di qua e di là per avallare questa o quella guerra fratricida.
Per questo abominio inventato dall’avidità e dall’aggressività umane si sono trovate sempre giustificazioni «nobili», fino ad arrivare alla manipolazione semantica odiea: «guerra preventiva», «guerra umanitaria», «guerra tecnologica», peace keeping che camuffa il war keeping, «intervento chirurgico», e così via. L’ipocrisia si spreca e il sangue scorre a fiumi.
«Beati i miti, perché erediteranno la terra… Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Il Sermone della montagna di Gesù, riportato in Matteo 5, 1-12, non lascia spazio a interpretazioni: tra le beatitudini non si trova alcuna esaltazione della violenza o della guerra.
Ma c’è chi, di queste, ha fatto un mestiere: soldati, mercenari, body-guards, contractors della sicurezza privata in paesi con situazioni belliche, terroristi al soldo di quella o quell’altra organizzazione. E i cappellani militari.

N el febbraio del 1965 fece scalpore la lettera scritta da un prete, don Lorenzo Milani (Firenze 1923-1967), quasi integralista nel suo costante e continuo riferirsi all’insegnamento del suo Maestro:
«Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi, però, avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.
E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente, anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre, se le giustificherete alla luce del vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se sono uomini che per le loro idee pagano di persona.
Certo, ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.
Non voglio in questa lettera riferirmi al vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.
Art. 11: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli… Art. 52: La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.
Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri, dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che, obbedendo, resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile?
Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?
Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta a volta detto la verità in faccia ai vostri “superiori“, sfidando la prigione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla…
Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l’ha fatto. Più maturo, condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?
Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi, secondo l’esempio e il comandamento del Signore, è “estraneo al comandamento cristiano dell’amore” allora non sapete di che Spirito siete! Che lingua parlate? Come potremo intendervi, se usate le parole senza pesarle? Se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!
Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di giustizia, libertà, verità.
Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, la verità e l’errore, la morte di un aggressore e quella della sua vittima.
Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano»2.

Q uanto siano al di là del tempo cronologico e sempre attuali le parole e le azioni del priore di Barbiana, questa lettera lo dimostra in modo piuttosto evidente. Alcuni passaggi, in particolare, ci possono far riflettere sulla presenza dei nostri militari in Iraq, dove svolgono azioni di guerra (come ha rivelato il video girato dalla troupe di Rai News 24 a Nassiriya e recentemente mandato in onda), in palese violazione dell’art.11 della nostra Costituzione. E, a meno di non voler credere che lo «scontro di civiltà», costruito a tavolino dalle multinazionali del petrolio e della guerra, abbia esteso i confini dell’Italia fino al Medio Oriente, in un discutibile concetto di «patria globalizzata»: qui l’amor patrio e la sicurezza nazionale c’entrano per nulla.
Come un tempo, la Patria è una nozione che allarga e restringe i propri confini: nel primo caso, quando si tratta di dar giustificazioni etico-politiche a guerre inique e lesive del diritto altrui; nel secondo, quando rifiuta di accogliere popolazioni devastate da queste stesse guerre o dalla povertà creata da uno «stile di vita» che non si vuole mettere in discussione.

Don Milani e la pace

Una pace che affonda solide radici in quei vangeli che Lorenzo, rampollo di una famiglia di ebrei laici, borghesi e coltissimi, ha imparato ad amare fino a scegliere la strada della conversione (era stato battezzato a 10 anni, per risparmiargli le discriminazioni razziali fasciste), del sacerdozio e della dedizione agli ultimi.
Ce ne parla il professor Bruno Becchi, storico e presidente del Centro di Studi milaniani di Vicchio Mugello, nonché autore del saggio Lassù a Barbiana, ieri e oggi 3.
«A don Lorenzo erano particolarmente cari alcuni temi, da lui ritenuti di importanza fondamentale, e che si possono sintetizzare in tre sostantivi: la chiesa, la scuola, la pace. Si tratta di tre grandi questioni che hanno un minimo comune denominatore: l’uomo con le sue prospettive di vita presente e futura.
La riflessione sul tema della pace si concentra soprattutto nell’ultimo segmento della breve esistenza del priore di Barbiana. Al riguardo c’è subito da sottolineare un aspetto che nell’immediato non può non apparire singolare: don Milani usa pochissimo il termine “pace” e praticamente mai l’espressione “educazione alla pace”. Il vocabolo “educazione” ha nel suo etimo il significato di “aiutare l’individuo a crescere intellettualmente e moralmente” E se per “morale” noi intendiamo il presupposto che presiede al comportamento dell’uomo in relazione al concetto di bene e di male, è chiaro che di fronte al dilemma “guerra-pace” un’educazione degna di essere considerata tale non potrà che indurre a scegliere la seconda delle due opzioni. “Educare alla pace” è dunque una sorta di ripetizione, una tautologia, usando un termine del lessico filosofico.
Un altro aspetto da sottolineare, parlando di don Milani e la pace, è che questa non assuma mai in lui il carattere di un concetto astratto, bensì quello di un fine da perseguire. Pertanto lavorare per la pace significa per il priore di Barbiana adoperarsi per individuare gli strumenti, affinché si possano creare le condizioni per un mondo senza conflitti. E ciò partendo dalla piena consapevolezza – per utilizzare le parole di don Milani – che le guerre sono il frutto non solo degli ordini di qualche ufficiale paranoico, ma anche dell’obbedienza di chi quegli ordini accetta passivamente».

In un brano della Lettera ai giudici si legge: «A Norimberga e a Gerusalemme sono stati condannati uomini che avevano obbedito. L’umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c’è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Buona parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell’una né nell’altra non sono che un’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’obbedienza cieca». È un passaggio forte…
«Sì, è un passaggio forte, ma di importanza fondamentale. Infatti la Risposta ai cappellani militari e la Lettera ai giudici – i due scritti in cui più organicamente don Milani affronta il problema della pace – sono documenti non tanto sull’obiezione di coscienza, quanto sull’obbedienza e sulla responsabilità individuale. Io non posso uccidere una persona perché me l’ha ordinato qualcuno, sia esso anche un superiore, e pensare al tempo stesso di sottrarmi al peso della responsabilità.
Ci sono studi importanti sul rapporto tra obbedienza e responsabilità: penso al Fromm di Fuga dalla libertà o alla Arendt de La banalità del male, per citare due nomi fra gli studiosi più significativi che si sono occupati del tema.
Ma torniamo a don Milani, per dire che il richiamo costante al primato della coscienza e al principio della responsabilità individuale assume in lui uno spiccato valore pacifista. Prima di compiere qualunque atto di rilevanza morale l’individuo deve sempre interrogare la propria coscienza e, nel caso di un credente, tener conto della legge di Dio. Ma affinché il richiamo alla responsabilità individuale e alla coscienza non finisca per rimanere un’indicazione puramente astratta, la persona deve essere in grado di rispondere in concreto a tale richiamo. In termini milaniani, l’individuo deve essere sovrano nelle proprie scelte. Ed ecco il ruolo fondamentale rivestito dalla scuola, quale strumento privilegiato – per i poveri, esclusivo – di educazione. È infatti soprattutto grazie ad essa che si potrà sviluppare nell’individuo la capacità di compiere scelte consapevoli.
Pertanto di fronte al binomio “guerra-pace” una persona, cosciente del potenziale di sofferenza e morte di cui la prima dispone, non potrà che optare per il secondo corno del dilemma. Riuscire ad emancipare uomini e donne dalla condizione di sudditi e farli diventare realmente sovrani significa fare di loro dei convinti assertori di un mondo di pace».
Attualmente siamo in un contesto di guerre inteazionali, definite umanitarie, di civiltà. È chiaro che non possiamo chiedere a don Lorenzo, morto nel 1967, che cosa pensi del conflitto in Iraq, ma qualche insegnamento possiamo desumerlo. Anche oggi ci sono i cappellani militari, e lo stesso Bush, che si definisce cristiano, ha dichiarato che questa guerra è nel nome di Dio…
«Premesso che non sarebbe storicamente corretto “far prendere posizione” su un problema specifico e attuale a una persona morta ormai quasi 40 anni fa, quindi in un contesto assai diverso, non possiamo non ricordare che don Milani sul problema della responsabilità in un contesto di guerra è stato di una chiarezza indiscutibile. Ha scritto nella Lettera ai giudici che chiunque contribuisca in qualche modo a un atto di guerra non potrà chiamarsi fuori rispetto alle responsabilità. A maggior ragione “il cristiano non potrà partecipare [ad un conflitto] nemmeno come cuciniere” perché anche in questo modo se ne farebbe promotore. Ma anche allargando il campo all’intero mondo cattolico, come non ricordare il capitolo 5° della costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano ii, significativamente intitolato “La promozione della pace e la comunità dei popoli”, o l’enciclica Pacem in terris di Giovanni xxiii. Questa, a mio avviso, mostra due importanti elementi: a) si rivolge non solo ai cristiani, ma “a tutti gli uomini di buona volontà”; b) afferma che “non esistono guerre giuste”. Non c’è dubbio che le tesi presenti nei documenti conciliari e in quello giovanneo siano ancor oggi di grande attualità».

Dunque, sembra di capire che, se i cattolici vogliono attenersi alle direttive emanate dalle encicliche papali, non possono che scegliere la pace e ripudiare la guerra.
«Certo. Storicamente dovremmo ricordare anche la definizione della prima guerra mondiale come “inutile strage” fatta da papa Benedetto xv. L’incompatibilità netta tra guerra e messaggio evangelico, ancor prima che nei documenti ecclesiastici, è presente ovviamente nelle scritture bibliche, sia vetero che neotestamentarie. Ma don Milani non si limita a questo, sostanzia le sue posizioni sul tema della pace anche di una componente civile, facendo esplicito riferimento naturalmente all’art. 11 della Costituzione italiana».

Sulla base di quanto fin qui sostenuto, verrebbe da aggiungere che l’Italia si trova in guerra contro l’Iraq nonostante la Costituzione lo vieti e, da paese che in più occasioni ha rivendicato le proprie radici cristiane, nonostante gli insegnamenti di Cristo e le encicliche papali.
«Direi di sì. Don Milani si spinse fino a proporre un nuovo e originale concetto di patria, in contrapposizione a quello storicamente consolidato, la cui difesa o velleità di espansione sono state fonte di inenarrabili sequele di lutti e sofferenze. Un concetto di natura trasversale, che pone confini tra diseredati e oppressi da una parte e privilegiati e oppressori dall’altra. Altro che principio di “esportazione della democrazia”».

Molti attualmente avvertono una sorta di involuzione rispetto ai decenni passati: gli stessi concetti di «patria» e di «eroe» sono stati rispolverati ad uso e consumo dei sostenitori delle «guerre umanitarie». Lei cosa ne pensa?
«Credo che si sia ritornati a un’idea di patria assai anacronistica rispetto alla visione di don Milani che, a 40 anni di distanza, mostra ancora tutta la sua lungimiranza».

Chi sono ora, secondo lei, gli eredi ideali di don Milani?
«Anche a questo riguardo, sarei molto cauto ad attribuire eredi a don Milani. Egli mi appare una figura che fuoriesce da qualunque catalogazione in ambiti più o meno ristretti. Molti sono coloro che, tra uomini di chiesa, di scuola, del mondo del lavoro, della società in genere, attraverso la lettura dei suoi scritti e lo studio del suo pensiero e della sua opera, hanno ricevuto qualcosa in eredità da don Lorenzo. A prescindere da “questioni di successione” o meno, se, proprio le devo fare qualche nome tra coloro che oggi si distinguono in molti campi che sono stati di interesse di don Milani, mi vengono in mente, così su due piedi, padre Alex Zanotelli, monsignor Luigi Bettazzi e il mio carissimo amico don Renzo Rossi, per 30 anni missionario nelle favelas del Brasile nel periodo della dittatura militare. In effetti, a guardarmi intorno, oggi, mi sembra di non vedee molte di persone carismatiche ed esemplari nel campo della politica o in quello sociale, spirituale o culturale in genere. Il panorama mi appare assai sconfortante, soprattutto ora che sono rimasto “orfano” del prof. Giorgio Spini, un maestro di storia, di fede, di vita. Parlando di panorama sconfortante, però, mi rendo conto di fare un torto a tutte quelle persone (sacerdoti, medici, insegnanti, gente comune), che in mezzo a inenarrabili difficoltà e grandissimi rischi hanno scelto di dedicarsi completamente agli altri in qualche landa sperduta del nostro pianeta. Persone alle quali, invece, va tutta la mia ammirazione».

Angela Lano

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