Una penna per la democrazia

Marco Bello

 

Arrestato 126 volte, fondatore di uno dei giornali più vecchi e rispettati dell’Africa francofona, Pius Njawe è da sempre attivista per la libertà di stampa a livello internazionale. Ci spiega l’evoluzione democratica del continente e confida le speranze per il futuro.

Camerunese, giornalista ed editore, Pius Njawe è uno dei più grandi difensori della libertà di stampa e diritto all’informazione sul continente africano. Nel ’79 ha fondato a Douala il settimanale Le Messager, (Il Messaggero), più tardi divenuto quotidiano. È stato arrestato 126 volte a causa delle sue pubblicazioni non gradite al potere; talvolta ha passato mesi in prigione, con pesanti conseguenze sulla sua salute.
Oggi è direttore generale del Free Media Group, società editrice del Messager, che sviluppa anche un’edizione elettronica (www.lemessager.net) e possiede un’agenzia di comunicazione: Cameroun communications incorporated. Il gruppo ha creato una stazione radio, Freedom FM, che è stata chiusa per due anni dal governo del Camerun e recentemente ha riottenuto il permesso di trasmettere. Peccato che tutti questi mesi di sigillo in ambiente umido abbiano deteriorato la maggior parte delle attrezzature e ne rendano impossibile l’operatività.
Njawe è anche il presidente dell’Unione editori della stampa dell’Africa Centrale, dopo aver creato l’Organizzazione camerunese per la libertà della stampa, ed è membro del Comitato per la libertà di stampa dell’Associazione mondiale dei giornali. È stato per 7 anni, due mandati, membro del gruppo consultivo dell’Unesco per la libertà di stampa, e membro della giuria del Premio mondiale per la libertà di stampa dell’Unesco «Guillermo Cano» (giornalista colombiano assassinato).

Si parla molto di libertà di stampa in Africa. Ma a che punto siamo?
La libertà di stampa ha conosciuto un’evoluzione positiva in Africa, grazie al vento dell’est, che ha soffiato anche un po’ da noi alla fine degli anni ’80. Negli stati anglofoni, c’è sempre stata libertà; non dico totale, ma esistevano già giornali con certa tradizione di indipendenza. In Africa francofona c’è stata una corrente, negli anni ’80, con Le Messager in Camerun, seguito a metà della decade da Sud Hebdo (oggi quotidiano) a Dakar, creato in Senegal da un gruppo di giovani giornalisti che volevano cambiare qualcosa. In Benin La Gazzette du Golfe e AST in Niger avevano uno spirito simile.
Questi 4 giornali hanno resistito alla repressione nei loro paesi rispettivi, il che ha creato una certa solidarietà tra di loro. Ogni volta che uno era attaccato, gli altri si sentivano implicati e si attivavano. È stata un’esperienza formidabile che ci ha aiutato a resistere. Poi le cose si sono evolute con l’avvento del multipartitismo in certi paesi dove il monolitismo era la regola.
La stampa è stata un po’ all’avanguardia della democratizzazione in molti paesi francofoni, cioè ha preceduto il pluralismo politico: una specie di esploratore per tutti gli attori dell’alternanza politica nel continente. E continua, in molti paesi come il mio, a essere il vero contropotere, di fronte al fallimento dei partiti di opposizione.
Malgrado il multipartitismo iniziato nei primi anni ’90, abbiamo conosciuto un’ondata di repressione cieca contro questa stampa, che talvolta ha impedito di rubare, di uccidere. In Camerun la «censura preventiva» è rimasta in vigore fino al ’96. Prima occorreva sottoporre ogni edizione del giornale a un censore, in un ufficio amministrativo: era lui a decidere, da solo quello che 15 milioni di camerunesi avrebbero letto: noi lo soprannominammo il «super redattore capo». Il giornale era pubblicato a volte con parti o intere pagine in bianco. Le Messager ne ha particolarmente sofferto. Senza contare gli arresti e attentati alla mia vita: ci sono stati così tanti episodi.

Oggi la situazione è evoluta.
Sul piano politico c’è una comunità internazionale che osserva: il principio dell’aiuto sottoposto ai criteri di democrazia ha portato a qualche progresso; poi la straordinaria evoluzione della tecnologia per l’informazione e comunicazione: prima il fax, poi internet. Questi mezzi hanno ridotto a nulla l’azione della censura, perché, malgrado ciò, la gente riusciva ad avere le informazioni che si volevano bloccare. In Camerun tale pratica è stata mantenuta a lungo per punire anche economicamente chi pubblicava informazioni non gradite, con il sequestro, ad esempio, di intere edizioni.
Dopo la soppressione della censura preventiva, il governo ha iniziato a comprare il mondo politico. Per conservare il potere, il regime di Paul Biya ha moltiplicato i partiti politici satelliti per soffocare quelli veri di opposizione, metterli in imbarazzo e mostrarli inaffidabili.
La strategia è la seguente: se un certo partito non scende a patti, se ne crea un altro che invece lo fa. Nascono così molti piccoli partiti e si mostra all’opinione pubblica che almeno 10 partiti stanno dalla parte del potere; mentre l’altro lo si dice radicale e che non vuole dialogare. Si demonizza il partito vero.
Lo stesso avviene con la stampa: dato che Le Messager da fastidio, si moltiplicano i giornali che lo contraddicono ogni volta che dà una informazione scomoda. Così si rafforza il quotidiano governativo, anche se la gente, ormai, non gli crede più. Con questi imbrogli il regime riesce a superare le tempeste e consolidare le posizioni.
Oggi questo potere non ha più bisogno dei partiti e giornali satelliti che ha creato, poiché l’opposizione è quasi inesistente e tutti si sono trovati un posto intorno alla tavola. Non ci sono più contestazioni; la gente non scende più in strada, neppure quando gli studenti vengono massacrati. Il regime ha portato il paese a una specie di unanimismo che chiamo il «monolitismo multipartitico». Abbiamo decine di partiti politici, ma tutti allineati. Non si oppongono agli abusi, non difendono la causa democratica di ieri. Il potere non ha più bisogno di loro.
Tutti hanno interesse a consolidare la propria posizione attorno alla maggioranza presidenziale; e per raggiungere tale scopo occorre avere un mezzo di comunicazione: i giornali di cui il potere non ha più bisogno, si mettono al servizio dei differenti clan. Tutto questo rende fragile la stampa e la relativa professione: anche i giornali seri non sono più presi come tali.

E i giornalisti?
I giornalisti finiscono per adottare il sistema: ciò favorisce la corruzione generalizzata anche nella professione giornalistica. Non è tipico solo del Camerun, ma di buona parte dei paesi africani, dove, con un po’ di soldi, si possono comprare articoli per distruggere o abbellire l’immagine di qualcuno.
Quando uno cerca di distinguersi, diventa il bersaglio di tutti gli altri e viene demonizzato con ogni sorta di titoli. È questa la battaglia che stiamo combattendo.

Le organizzazioni per la libertà di stampa quale ruolo possono giocare nel sostegno ai media realmente indipendenti?
Potrebbero fare un lavoro straordinario. Purtroppo a livello nazionale, dato il contesto che ho descritto, è difficile cambiare, perché ognuno crede di non aver niente da imparare da nessuno. Con l’Associazione mondiale dei giornali (Amg) abbiamo tentato di organizzare seminari in materia di gestione dell’impresa di stampa, con l’obiettivo di rinforzare le basi economiche dei media. Ha funzionato per certi paesi, ma non per il Camerun. La maniera in cui si arriva alla professione spesso non è lineare e ciò spiega la non predisposizione a migliorare: se ci si arriva per giocare sporco è chiaro che non si è pronti a progredire.
Credo che il lavoro fatto da Reporter senza frontiere, Amg e Commettee to protect journalists sia da moltiplicare. Ma la bonifica della professione, in tutti i sensi, passa innanzitutto dai professionisti stessi: essi devono prendere coscienza che quelli che vengono a distruggere sono di passaggio e, quando avranno raggiunto i loro obiettivi, se ne andranno.
Parlo delle persone che credono in questo mestiere. Ne esistono. Ma sfortunatamente sono sopraffatti da avventurieri in cerca di un salario o che hanno conti da regolare.

Lei è stato arrestato 126 volte a causa dei suoi scritti…
L’ultimo arresto avvenne in agosto 2002. Trovavo da Londra, dove avevo seguito dei corsi di diritto umanitario. Mi arrestarono all’aeroporto di Douala, mi ritirarono i documenti, ma dopo 6 ore fui rilasciato.
L’ultima volta che venni sbattuto in prigione fu nel 1998, colpevole di aver rivelato un leggero malore cardiaco del presidente Paul Biya.
Fui condannato a due anni di reclusione, ma ci fu un gran movimento internazionale di protesta sul mio caso e la corte d’appello fu costretta a dimezzare la pena. La pressione estea era così forte che, dopo 10 mesi sono stato liberato. Il presidente mi ha concesso una grazia da me non chiesta e, per paura che non volessi uscire di prigione, mandò l’esercito a sloggiarmi.
Alla fine avevano capito che la mia reclusione era per loro controproducente. Ma vi sono arrivati tardi, quando erano già stati fatti molti danni inutili. Ma questo non ha cambiato nulla nel mio comportamento, nelle mie preoccupazioni e nella mia determinazione, poiché nulla è cambiato nella situazione del Camerun.
Se l’avermi incarcerato avesse migliorato le cose che denunciavo, sarebbe servito a qualcosa; se parlo di malgoverno, corruzione, furto… è perché le cose continuano allo stesso modo. Il fatto di arrestarmi non smentisce quello che denuncio, al contrario, distrugge la loro immagine di fronte all’opinione pubblica nazionale e internazionale.

È sempre lo stesso potere che vi ha arrestato?
Sì, e rimarrà in carica almeno fino al 2011! (Segue una grassa risata).

Oggi com’è cambiata la repressione?
È diventata più sofisticata: quella fiscale ha rimpiazzato la repressione fisica. Le azioni, che prima erano esercitate dall’amministrazione, sono state trasferite ai giudici dei tribunali. Si fanno simulacri di processi, sapendo che la giustizia è sul libro paga del potere esecutivo. Quando si è accusati di un delitto di diritto comune, in realtà si mira a reprimere il lavoro di giornalista. Non viene utilizzata la legge sulla stampa, che è già molto brutta. È stata soppressa la censura, ma si sono aperti altri fronti: per esempio, chiunque pensi di essere stato diffamato ha la possibilità di far sequestrare un giornale; è stato prolungato da sei mesi a tre anni il periodo di prescrizione, cioè il tempo che intercorre tra la pubblicazione di un articolo e la possibilità di denuncia.

A livello mondiale, cosa pensa del movimento che si oppone al neoliberismo e si appoggia sui diritti umani. Può avere un futuro e influenzare certe dinamiche in Africa?
È un movimento che bisogna incoraggiare e contribuire a sviluppare, anche se è minoritario da noi. È una lotta nobile contro il liberismo cieco e selvaggio, perché conduce alla distruzione totale dell’Africa. Chi lo persegue cerca solo di proteggersi contro i poveri o contro popoli che ha impoverito. È un’ingiustizia. Non si può ridurre un continente allo stato in cui è ridotta l’Africa e venire a dire che occorre liberalizzare.
Il movimento deve essere appoggiato da tutte le forze che credono in una giustizia mondiale; occorre lottare contro chi vuole monopolizzare tutto: ci impone il prezzo di acquisto delle materie prime, le trasforma altrove e ci riporta i prodotti finiti con relativo prezzo da lui fissato. Dobbiamo avere la libertà di vendere il nostro cotone a prezzi che scegliamo noi, calcolando gli investimenti in tempo e sofferenza per produrlo.

Pensa che la società civile in Africa sia abbastanza matura per questa lotta?
La società civile è qualcosa di molto importante, ma che deve prendere corpo e consolidarsi nei nostri paesi. In Camerun essa è gestita dagli uomini politici, che da un giorno all’altro decidono chi ne fa parte. Una società civile si definisce da sola: si tratta di gente che agisce e partecipa al consolidamento del progresso di un paese. In Africa, oggi, essa esiste, ma manca di organizzazione. È costituita da individualità, ma devono mettersi insieme per costituire dei veri contro-poteri, imparare a interpellare quando è necessario, a esigere di poter dire la propria opinione nelle decisioni che riguardano la sorte della comunità.
A questo dobbiamo lavorare oggi. In diverse parti dell’Africa ci sono embrioni di società civile che si mettono in piedi. Bisogna lavorare per rinforzarli, migliorare le loro capacità di discussione, i mezzi d’incontro, per facilitare gli scambi di idee e poter parlare di cose importanti per l’avvenire dei loro popoli.

Cosa vorrebbe dire ai dirigenti occidentali sullo sviluppo dell’Africa?
Se vogliono aiutarla, la facciano uscire dal circolo vizioso del debito. L’Africa non è debitrice di fronte all’Occidente; al contrario, sono i paesi ricchi debitori di questo continente. Se vogliono veramente aiutarla, ammettano questa realtà. Dopo di che, ammettano anche che l’Africa rigurgita di risorse per svilupparsi da sola e la smettano con quell’aiuto-trappola che serve a mantenerla al servizio dell’Occidente. La si aiuti a sviluppare le sue proprie potenzialità, a sfruttare le sue ricchezze sul suolo africano. Mandino gente che sappia trasmettere onestamente la tecnologia propria, per fare dell’Africa un continente sviluppato a partire dalle sue risorse. La maggior parte delle ricchezze dei vostri paesi vengono dal nostro continente: perché non possiamo far di tali ricchezze dei mezzi di sviluppo delle nostre popolazioni?

L’Africa ha mezzi sufficienti per svilupparsi: occorre orientarla per meglio servirsi delle proprie risorse, invece di mantenere certi nostri capi che, per restare al potere, prendono le nostre ricchezze e le offrono all’Occidente. Sotto questo aspetto, è meglio che l’Occidente non ci aiuti, ma lasci che ce la sbrighiamo da soli.
Voglio pure dire che anche l’africano deve riflettere su come svilupparsi e costruire il suo futuro sul fondamento dei propri valori e risorse. Stiamo organizzando l’Istituzione Nelson Mandela, con lo scopo di suscitare ai quattro angoli del continente le capacità umane, raccoglierle in sinergie al fine di trasformare sul posto le materie prime africane in prodotti locali.
Sono il responsabile della comunicazione di questo gruppo ancora in embrione; ma miriamo alla creazione di istituti regionali per le tecnologie, dove dei giovani possano ricevere la necessaria formazione. Il presidente Mandela ha accettato di essere padrino dell’iniziativa. Mi auguro che i paesi occidentali, istituzioni internazionali, quelle di Bretton Woods, portino il loro sostegno a questa idea, per renderla sempre più concreta e rispondente alla realtà africana.

 

Marco Bello

 

 

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