Quando la psichiatria percorre altre stradeStorie ed esperienze torinesi

Le strutture di salute mentale sono troppo spesso scollegate dalla cittadinanza.
Ciò favorisce l’espulsione e l’indifferenza. E, nel contempo, deprime la solidarietà.
Per questo, a Torino, un gruppo di operatori ha tentato di agire concretamente
per far cambiare l’«immaginario collettivo» della follia.
E, nonostante le inevitabili difficoltà, i risultati non sono mancati…

Questa è la storia di un progetto che potremmo chiamare «Il Kiosko, il Cafè Neruda e altre meraviglie». La nascita del progetto. Un bel giorno di alcuni anni fa con due amici psichiatri, Tiraferri e Braccia, si discuteva sulla necessità di aprire nuovi sbocchi ad una psichiatria, la nostra perlomeno, in debito d’ossigeno, priva di creatività e massacrata dalla drastica riduzione delle risorse legata alla crisi del «welfare state».
Ci dicevamo che quello a cui assistevamo era un sistema che, 20 anni dopo la chiusura dei manicomi, aveva prodotto una «trans-istituzionalizzazione»: la creazione di queste piccole strutture «bonsai», gli ambulatori della salute mentale, sortiva come unico effetto un atteggiamento di delega rispetto alla gestione del benessere psichico. Non si era quindi riusciti ad attuare quella saldatura con la comunità locale che era negli intenti, così di fatto gli ambulatori di salute mentale risultavano (e risultano tuttora) ancora troppo scollegati dalla cittadinanza, rendendo difficile il lavoro di prevenzione e di inclusione. Ne sono derivati una cronicizzazione di comportamenti passivi e richiedenti, nonché uno scollamento dal tessuto sociale, elementi che hanno favorito atteggiamenti espulsivi o di indifferenza, perdendo due formidabili fattori spontanei di terapia: la solidarietà ed il senso di appartenenza.
Quello che ci proponevamo era quindi di favorire un processo di riconoscimento e supporto alle reti informali della solidarietà primaria (amici, vicini, parenti) e secondaria ( volontariato, associazionismo, etc.), favorendo la costituzione di una comunità «competente», ovvero in grado di attivare le proprie risorse e capacità di fronte ai problemi che si trova ad affrontare, in questo caso nel campo della salute mentale. Con un gruppetto di infermieri nel 1998 abbiamo organizzato una festa di quartiere presso la polisportiva Centrocampo di via Petrella. Al termine dell’evento, abbiamo organizzato un corso di informazione che, nel marzo del 1999, ha portato alla nascita dell’associazione Vol.p.i. (Volontari psichiatrici insieme).
Il cornordinamento tra volontari ed operatori ha permesso una serie di iniziative (uscite serali, mercati per vendere le opere prodotte al Centro diuo, soggiorni estivi), ma nel tempo alcune fortunate occasioni ci hanno consentito di sviluppare un percorso più articolato, partito da queste riflessioni:
1. quando la persona colpita da malattia psichiatrica è in fase di compenso clinico, occorre dargli la possibilità di fare esperienza della e nella vita, mentre troppo spesso la malattia lo porta ad un isolamento sociale ed affettivo;
2. è necessario riattivare il sentimento dell’identità collettiva veicolandola con la riscoperta del piacere dell’aggregazione intorno a obiettivi condivisi e di cui sentirsi tutti protagonisti;
3. è fondamentale lavorare sul pregiudizio rispetto alla malattia mentale, favorendo la mescolanza e la prossimità che portano allo scambio di identità;
4. occorre ritrovare un ruolo sociale attraverso una vera riabilitazione che consiste, all’interno di strutture specialistiche, nell’apprendere nuove abilità o nel recuperare quelle perse con l’insorgere della malattia, per poterle poi trasferire all’esterno come competenze lavorative.
A quel punto è nato il progetto «Catering», che recava in sé le riflessioni sopra elencate, nell’intento di affrontare la psichiatria come lo spazio dove recuperare solidarietà, creatività e senso di appartenenza. Appariva riuscito, quindi, il tentativo di far percorrere dalla psichiatria una strada alternativa al disagio e alla sofferenza.

Il gruppo Catering ovvero «Il pranzo è serviito»
È nel 2001 che, grazie ad un finanziamento ottenuto mediante un bando, alcuni operatori insieme a dei volontari Vol.p.i. decidono di allestire un progetto definito «Il pranzo è servito».
Il progetto risulta così strutturato: 8 persone vengono affidate ad un cuoco-tutor che per due mesi lavora per affinare le capacità culinarie dei pazienti. Divisi a rotazione in camerieri e cuochi, gli 8 pazienti preparano quindi tre pasti a settimana presso il Centro diuo, pasti ai quali mediamente partecipano una ventina di persone. L’esperienza viene replicata l’anno successivo fino a quando, nel giugno 2003, si tiene la prima cena aperta all’esterno: poiché «Amnesty Inteational» sta conducendo una campagna sulla terribile situazione dei manicomi bulgari, noi proponiamo di tenere una conferenza presso il Centro diuo con un pasto interamente preparato dal nostro gruppo Catering (8 pazienti, 2 operatori, 6 volontari) al prezzo concordato di 10 euro. Inizia quindi il percorso di mescolanza, e gli ottimi esiti ci inducono a proseguire e potenziare il progetto, fino al riconoscimento della società italiana di psichiatria, che nel giugno 2004 ci affida il buffet per un convegno che prevede la partecipazione di oltre 200 persone.
Contestualmente iniziano le cene bimensili presso «Cafè Neruda« e «Casseta Popular« (storici circoli Arci di Torino), che mettendo a disposizione dei pazienti la cucina, consentono l’affinamento delle abilità e della compattezza del gruppo, unitamente ad un notevole aumento dell’autostima da parte dei pazienti. La testimonianza diretta dei fruitori delle cene (60/70 ad evento) ha consentito un cambiamento nell’«immaginario collettivo della follia», vissuta non solo più in termini di pericolosità o imprevedibilità, ma anche come una malattia dietro la quale si celano personalità e risorse da scoprire.

Il Kiosko
Novembre 2003, fa freddo a Torino. Siamo in una stanza della Circoscrizione 6, a discutere con una serie di associazioni su di un progetto di riqualifica della nostra periferia.
Seduta al tavolo con me c’è anche Maria Grazia, presidente delle Vol.p.i. In questa sede giunge la proposta di affidarci in gestione il bar della polisportiva Centrocampo e, nel marzo 2004, parte subito l’esperienza: dal lunedì al sabato dalle 16 alle 24 e la domenica dalle 8.30 alle 13.
Dietro il banco un membro Vol.p.i. (ruotano in una dozzina) e due pazienti (una quindicina). Le regole di convivenza si decidono nel gruppo lavoro che si tiene ogni giovedì e i compensi vengono erogati in base agli incassi e alle ore lavorate. Il Kiosko diventa luogo di aggregazione: si mettono dei tavolini all’aperto e il sentore di autentica mescolanza appare forte.
Il nuovo progetto Kiosko si muove nella direzione giusta. A molti le somme guadagnate sembrerebbero irrisorie, ma per i pazienti sono il tramite per dei piccoli lussi: una bibita quando si esce la sera o la possibilità di offrire un caffè ad amici, parenti, operatori. A febbraio il freddo torinese taglia il volto ai pazienti, ma nei loro occhi continua a leggersi la volontà di essere presenti, e di fronte al cedimento di un volontario sono quegli stessi occhi a far sentire un pò meno il freddo…

Il Cafè Neruda
È in quello stesso locale dove fummo ospiti col progetto Catering, che nel 2004 prende l’avvio il terzo progetto delle Vol.p.i.: il proprietario del locale ce ne offre la gestione nel suo complesso. Tra mille difficoltà, il 29 settembre siamo pronti: dietro il bancone non solo più membri Vol.p.i. e pazienti, ma chiunque sia interessato al progetto e abbia abilità da condividere.
Obiettivi dell’attività sono, come sempre, la promozione dell’autonomia dei pazienti mediante la creazione di un lavoro che generi retribuzione, nonché il rafforzamento delle relazione sociali. Fondamentale è il contenimento della vulnerabilità legata alla malattia (per via della minor resistenza agli stress) attraverso l’organizzazione non rigida dei tui né al Kiosko né al Neruda, mentre il collegamento con il gruppo di lavoro settimanale consente l’elaborazione di problemi e vissuti così come la condivisione di giornie e successi.
Per i volontari Vol.p.i. l’esperienza rappresenta un modo per sentirsi co-protagonisti del miglioramento della qualità della vita dei pazienti, così come era avvenuto anche per tutti gli altri progetti; per i pazienti, ancora una volta, è un mezzo terapeutico: il lavoro che dà una retribuzione, che riempie qualche ora altrimenti vuota, che consente di relazionarsi con l’esterno perché «diversi» sono loro per noi come noi per loro.

Così, sull’onda dell’entusiasmo dei pazienti, mi lascio trasportare dai sogni e immagino che la risposta alla crisi che tutto investe, possa essere per noi la creazione di un’autonomia attraverso una ricerca creativa di lavoro, come le microimprese del Sud del mondo: le panetterie solidali, gli orti collettivi, i refettori popolari. Mi immagino tutti insieme nei nostri orti, nei circoli, nelle piazze, ma poi mi fermo perché il mio sogno non diventi un delirio.
Da ottobre 2004 un altro circolo Arci, l’«Oato di te», ci consente di continuare il sogno mentre il Neruda è ormai una parentesi chiusa dalla quale abbiamo imparato tanto ma che, sia pure a malincuore, abbiamo dovuto abbandonare… La complessità dei progetti gestiti talvolta ingenera responsabilità e stress anche su noi operatori e volontari, ma negli occhi dei pazienti sempre si ritrova la forza per ricominciare a sognare.

Ugo Zamburru

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