Le pietre scartateL’esperienza della cooperativa Agape (2)

Una società malata di competitività sfoa sempre più persone con disagi affettivi e di comportamento. Troppe sono le «pietre scartate» verso le quali deve andare la solidarietà del credente. Occorre agire affinché, in terra, il «paradiso» non sia accessibile sempre e soltanto ai soliti fortunati.
«La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo, ecco l’opera del Signore» (Salmo 118, 22-23).
Le parole del salmista, che si ritrovano anche nel vangelo di Marco (12, 11-12) sono fondamentali per chi, come i missionari in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione, desiderano proclamare il «Regno di Dio», non solo a parole ma soprattutto con i fatti, incominciando dagli ultimi.
Le pietre scartate non sono «privilegio» del Sud del mondo; chi osserva con occhio attento e vigile può facilmente constatare che la loro presenza è ovunque nella nostra quotidianità.
Papa Giovanni XXIII ci ha spiegato nella «Pacem in terris» che i segni dei tempi non sono segni posti da Dio nel cielo, ma cose compiute dagli uomini sulla terra. In questa enciclica il Santo padre elencava tanti aspetti positivi del momento storico che si viveva; ma c’è anche il retro della medaglia, ci sono gli eventi negativi compiuti dagli uomini, da noi tutti, che seminano abbandono, disprezzo, segregazione. Sono segni presenti nella nostra società che continuamente provoca «pietre scartate» verso le quali siamo chiamati ad annunciare, con interventi di accoglienza, la Buona notizia del vangelo.
Le case di frateità «Agape, Madre dell’accoglienza» sono luoghi in cui si concentrano le più diversificate storie di disagio e dissocialità: situazioni precarie, che producono marginalità e disturbi di comportamento e di personalità. Sono povertà estreme dove l’affetto e l’accoglienza sono state bandite. Sono storie frutto di una società sempre più egoista ed edonista dove vale solo il bello, il vincente, il tornaconto economico. In questa piramide, in negativo, sono tanti gli esclusi che popolano il nostro quotidiano, il cristianesimo si è ridotto ad una etichetta invece di un coinvolgimento con il cuore e un impegno di vita. Davanti a questa urgenza dilagante c’è bisogno di persone che sappiano «curvarsi» davanti al fratello ferito e abbandonato ai cigli delle strade. L’evangelista Luca attraverso la parabola del «Buon samaritano» ci presenta l’essenzialità del vangelo con le parole finali della parabola: «Va’ e anche tu fa lo stesso» (Lc 10,37).
Don Milani, il priore della Barbiana, davanti ai suoi ragazzi «montanari», segregati ed esclusi dalla scuola ufficiale e senza possibilità di inserimento nella vita sociale, aveva coniato il motto «I care» (mi interessa!). Gli interessava la vita di quei singoli ragazzi che vivevano nell’abbandono e nell’esclusione, ne fece la sua forza profetica con una adesione e un compromesso personale e rispondendo ad una sfida del suo tempo.
S. Giuseppe Cafasso, patrono dei carcerati e «perla del clero italiano», definisce le pietre scartate, (i condannati a morte) «i miei santi impiccati». Il suo eroico ministero e la sua vicinanza fisica a questi assassini incalliti, a questi derelitti della società, donò a ciascuno di loro, l’esperienza della solidarietà iniettando nei loro cuori la speranza evangelica che Gesù ci ha donato dalla croce: «Oggi sarai con me in paradiso». La gratuità della salvezza è di tutti. Il Cafasso ha sempre insistito, nella formazione del clero del suo tempo, affinché ogni azione di preghiera, di studio, di impegno del vissuto nella semplicità dell’ordinario senza cercare lo straordinario, formassero la vita e coniassero lo spirito dei futuri pastori in profondità! Bisogna avere sempre come obiettivo i bisogni del tempo, del luogo e soprattutto delle persone. Nella carità non c’è spazio per sfaccendati e accidiosi; la forza dei santi e dei profeti è soprattutto di «dire e fare». Davanti al pericolo di tante parole… «Signore, Signore», S. Giacomo ci allerta: «Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta» (Gs 2,26).
Ad ogni cristiano dovrebbe interessare la vita dei fratelli dimenticati che il vangelo mette ai primi posti. La società, malata di primi posti per emergere e di competitività sfrenata per ingordigia, sfoa continuamente e sempre più forme di disagio affettivo e disturbi comportamentali, il «paradiso terrestre» promesso a tutti è accessibile solo ai soliti fortunati. La solidarietà senza misura, traboccante e continua per gli ultimi della terra, gli amici di Dio, è la risposta e l’impegno di tutti coloro che hanno cercato il Signore con cuore sincero.
«Agape, Madre dell’accoglienza» è un impegno, un tentativo di risposta a chi si trova in difficoltà psichiche vivendo esclusioni e segregazioni. Persone che gridano il loro dolore e che sono definite disturbate e pericolose, sono messe al bando il più delle volte anche dalle proprie famiglie.
Desideriamo dire a questo mondo isolato, calpestato ed escluso che ci «interessa, ci sta a cuore» la loro dignità di esseri umani fragili e bisognosi di accoglienza. Una fragilità che si incontra con la nostra fragilità fatta di paure, di prevenzioni, di fughe e di trascuratezza. Il vangelo di Marco nel capitolo 5, 1-20, ci parla di Gesù che incontra il «folle»; un uomo aggressivo, isolato dagli altri, che provoca paura… Gesù si avvicina, lo incontra, lo sguarisce, lo libera, lo riabilita… rompe il cerchio della solitudine e dell’esclusione nello stargli accanto ascoltando il suo grido, accogliendo il suo bisogno e rispondendo alle necessità di affetto.
La vita umana vale più di ogni altro bene, lo scriviamo sui muri, nei libri, sulle magliette, negli slogan pubblicitari, lo sosteniamo anche con il referendum, ma davanti al fratello bisognoso, che chiama e grida rispondiamo come Caino: «Sono forse io custode di mio fratello?» Gn 4,9. La sopravvivenza di chi si trova nella difficoltà non fa parte del nostro impegno di vita e deleghiamo ad altri le responsabilità. Molte volte la ricerca smodata di rituali eccessivi, inebriata dal fumo dell’incenso, da canti sofisticati, perfino con l’eccessiva abbondanza di suppellettili liturgiche… può appagare il nostro ego e il nostro contatto con Dio che costruiamo a immagine e somiglianza di noi stessi, facendoci dimenticare il fratello bisognoso, abbandonandolo proprio sul sagrato del tempio in cui ci rifugiamo.
Il nodo della questione è il nostro coinvolgimento personale, «metterci del proprio», non tanto in soldi o intenzioni, ma mettendoci del proprio tempo e del proprio cuore. «Mettersi in gioco» per difendere la sacralità di ogni vita umana soprattutto quella debole, quella che da sola non si regge, quella che più riflette l’amore e la fragilità di Dio incarnato in mezzo a noi nelle sembianze e nei cuori di questi fratelli «speciali». Molte volte la paura ci paralizza, l’egoismo ci frena e la nostra arroganza ci fa cambiare strada perché percorrere la strada di Gerico porterebbe a cambiare l’itinerario della nostra stessa vita, questo disturba troppo il nostro quieto vivere che difendiamo ad oltranza.
Nelle frateità «Agape» si cerca di celebrare la fragilità della vita così com’è davanti alla mensa quotidiana con le giornie e dolori di tutti e davanti all’Eucaristia domenicale avvolta dalla ragnatela di tanti nostri dubbi ma soprattutto vissuta come evento ci rinnova la forza della solidarietà con la certezza che Dio continua a camminare con noi nei sentirneri dubbiosi della vita come fece con i discepoli di Emmaus.
È un lavoro impari per le nostre forze e le tante debolezze che accompagnano gli operatori, i volontari, i professionali, ma tutti desiderosi di fare, di buttarsi sporcandosi le mani e purificando il cuore, tutto questo con la certezza che Dio ama ogni vita e aiuta i cuori generosi. È un lavoro non facile per nessuno; ogni giorno bisogna ricostruire quello che si è tentato di realizzare il giorno prima. È come la tela di Penelope che di giorno si fa e di notte si disfa. Ogni mattina c’è l’impegno di ricominciare! Proprio come fa il Signore con ciascuno di noi.
San Vincenzo de’ Paoli ha detto: «Donare fa bene, soprattutto a colui che dona». Intraprendiamo questa gara a fare del bene. Ne usciremo più ricchi davanti a Dio, soddisfatti con noi stessi, utili e necessari a chi ne ha bisogno.

Orazio Anselmi

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