Hanno fame e… si nascondono

Salvador de Bahia: dalle palafitte a Nuova Primavera

Si respira la vera miseria tra le palafitte di Novos Alagados, alla periferia di Salvador de Bahia, nella parrocchia di São Blás, dove dal 1991 lavorano i missionari della Consolata.
Da generazioni, i ricchi latifondisti si sono preoccupati di occupare tutta la terra disponibile, senza lasciae neppure un centimetro alla povera gente. Così, l’impossibilità di occupare uno spazio sulla terraferma ha indotto i più poveri a piantare qualche palo sulla riva del mare e a sistemarsi in misere capanne, formando il popolo delle palafitte. «Il mare non è di nessuno – dicono da queste parti -. Anzi, è di Dio».
Qui la fame è di casa. Questa, assieme a tante altre calamità, è la malattia più brutta. Di fronte a realtà simili, Teresa di Calcutta aveva detto che «non è stato Dio a creare la miseria: l’abbiamo creata noi!».
La globalizzazione, nel suo aspetto più deteriore e devastante, continua a rendere i ricchi sempre più ricchi, mentre la «massa sobrante», come dicono in Brasile, quella parte di umanità senza diritti e né difese è destinata a scomparire dall’avanzata del cosiddetto «progresso», che premia i forti e schiaccia come un rullo compressore i deboli. Fra questi, i bambini sono quelli che pagano il prezzo più alto.
La povertà-miseria non attrae, non piace a nessuno, non ha alcuna popolarità. I poveri sono un incubo per tanta gente. Anche per alcuni che leggono spesso: «Beati i poveri…».
E ppure, un gruppo di giovani, accompagnati da padre Francesco Giuliani, che li aveva preparati per un anno intero, sono venuti fin qua, tra i più poveri, dove senti puzza di fogna, perché è tutta a cielo aperto, per vivere un’esperienza di frateità.
Era l’agosto del 2001: quando mari e monti invitavano alle vacanze, 17 giovani, provenienti da varie regioni d’Italia, hanno vissuto un mese tra i Novos Alagados. La gente delle palafitte ha sentito il calore umano di questi giovani, la loro presenza ristoratrice, come una bibita in piena calura estiva.
Erano partiti da Cesena portando con loro una parola d’ordine: inserirsi con occhi d’amore e di fede in mezzo ai poveri. Ho visto nascere tante amicizie. Ho visto giovani dottoresse curare ferite e diagnosticare malattie, fra i calcinacci di un salone in rovina e nelle palafitte, a cui arrivavano per mezzo di traballanti passerelle di legno.
Alcuni di loro, in seguito, sono tornati per incontrarsi di nuovo con le famiglie amiche. Altri sognano di tornare. Quasi tutti si stanno dando da fare in Italia, per raccogliere aiuti e dare una mano alle mamme che soffrono la fame.

È davvero brutta la fame! A Napoli dicono: «Chi è sazio non crede a chi è digiuno».
Ho sempre presente un episodio sintomatico: un’animatrice del «Progetto Famiglie di Novos Alagados» mi dice:
– Padre, Luciana picchia sempre le sue bambine: va a vedere cosa succede.
Vado e chiedo a Luciana:
– Perché picchi le tue bambine?
– Piangono sempre e mi scoccia sentirle.
– Ma perché piangono?
– Hanno fame e io non ho nulla da dare loro.
– Ma perché non me l’hai detto? Tu sei animatrice, perché non parli?
– Ho vergogna…
Ancora una volta ho capito che i poveri si nascondono e preferiscono soffrire in silenzio.
N el 2003 è venuto un altro gruppo di giovani. Erano partiti da Torino, accompagnati da padre Antonio Rovelli. Hanno svolto un lavoro di presenza amica, visitando le famiglie più povere e costruendo una biblioteca per i giovani che vogliono entrare all’università, ma non hanno i mezzi per comprare i libri su cui studiare.
Poi, con l’aiuto di tanti benefattori, abbiamo creato un centro di accoglienza: Kilombo do Kioió. I kilombo erano piccole repubbliche di schiavi che fuggivano e si mettevano insieme per creare spazi di libertà. Kioió è una pianta medicinale che abbiamo trovato nel giardino della casa che abbiamo comprato per tale iniziativa.
In questa sede si svolgono le attività del «Progetto famiglie Novos Alagados». Il nostro Kilombo aiuta 450 famiglie a fare un cammino di liberazione, attraverso il lavoro e la preghiera. È un’esperienza di crescita sociale e religiosa per uscire dalla morsa della fame e dell’abbandono.

L a caratteristica dei poveri è di nascondersi. Sanno di non aver diritto a nulla e non poter esigere. Sanno che nessuno li vuole, di non essere ben visti neppure in chiesa, per cui non ci vanno. Parlano adagio e a voce bassa per non farsi sentire. Quando li avvicini, ti guardano con sospetto, perché hanno paura che tolga loro anche quel poco che hanno e fuggono.
Il nostro lavoro è di «andare a caccia» di queste famiglie che fuggono e scompaiono tra i meandri della favela.
Purtroppo, ci sono tanti altri che, senza avee bisogno, vengono a chiedere, o meglio, a esigere aiuto.
È difficile stare in mezzo a loro. Bisogna avere una forte carica interiore, che viene solo dall’alto. Tante le scuse per fuggire: non ho tempo, non ce la faccio, mi stancano, c’è pericolo di assalti, bisogna essere prudenti…

S ono tanti i volti della povertà: dalla mancanza di cibo e di socializzazione, alla paura di vaccinare i figli, per timore che vengano avvelenati, dalla difficoltà di trovare un lavoro, alla fila chilometrica per una visita medica…
Qualcosa tuttavia sta cambiando: da due anni a questa parte si costruiscono delle casette sulla terra ferma, che vengono consegnate a chi vive sulle palafitte.
Il progetto è finanziato anche dal Ministero degli esteri italiano. Il settore dove sorgono queste casette si chiama «Nuova Primavera» e fa ben sperare per il futuro. Brutto, però, è anche vedere gente che riceve la casa e la vende per tornare alle palafitte. Questa è ancora una forma di povertà che si chiama «ignoranza».
Le famiglie che ora abitano nella Nuova Primavera hanno cambiato aspetto. Anche se continua la disoccupazione, la paura degli assalti e manca ancora il necessario per vivere.
Una signora, mamma di tre bambini, diceva: «Adesso non ho più paura di vedere i miei figli cadere nell’acqua inquinata e morire avvelenati. Ora mi sento più sicura quando metto i piedi a terra».
Pietro Parcelli

Pietro Parcelli

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