Storie di barboni e volontari

COSÌ VICINI, COSÌ LONTANI

Incontrare, conoscere e aiutare i «senzafissadimora»
non è facile. La loro realtà è fatta di fame, freddo,
malattia, solitudine. Ma quando l’obiettivo è raggiunto,
la soddisfazione è veramente irripetibile.

LA SOLIDARIETÀ
COME DENOMINATORE

Svolgo l’attività di volontaria alla
«Bartolomeo & C.» da parecchi
mesi, ed è un’esperienza meravigliosa
dal punto di vista umano.
Grazie ad un’introduzione graduale
ed attenta, non ho avuto esperienze
traumatizzanti. Sicuramente
sto imparando a conoscere realtà a
me sconosciute, anche se vecchie
come il mondo e più diffuse di
quanto non si creda.
Sono venuta in contatto con un
mondo fisicamente così vicino al
nostro, eppure così lontano. È vicino
perché lo incontriamo nelle stesse
strade del centro dove ci rechiamo
a fare shopping, al cinema o al
ristorante; al tempo stesso è così
lontano, perché presenta problemi
di fame, freddo, malattia e solitudine,
che neppure immaginiamo.
Essere volontari alla «Bartolomeo
& C.» è un’esperienza di amicizia e
scoperta reciproca, sia nei rapporti
con gli altri volontari che in quelli
con gli utenti. I rapporti con gli altri
volontari sono improntati alla disponibilità
e all’avere un denominatore
comune: la solidarietà. Il rapporto
con gli utenti è segnato in
prima battuta dalla curiosità reciproca
e subito dopo dall’affetto, dal
sentire che siamo importanti gli uni
per gli altri. E come tutte le esperienze
di volontariato, si riceve molto
di più di quello che si dà. Alle volte
un sorriso ed uno sguardo ripagano
la levataccia al «Bivacco»
(nome della casa di accoglienza,
ndr), la domenica mattina: ci si è alzati
presto ma ne valeva la pena.
Ho conosciuto G. al pranzo organizzato
a Foo di Coazze il
giorno di Pasqua. Ero seduta a tavola
con lui. Mi ha confidato di essere
un ex-alcolista, e per questa sua
condizione di «ex», che aveva faticosamente
raggiunto dopo molto
tempo, non avrebbe toccato il vino
a tavola.
Mentre G. mi parlava delle sue
esperienze, mi ha confidato di aver
scritto un libro di poesie, durante
gli anni bui trascorsi in manicomio.
Alla fine della giornata, quando ci
siamo salutati, mi ha promesso che
mi avrebbe regalato una copia del
suo libro. Il sabato successivo è arrivato
in via Sacchi con il libro impacchettato
in una carta a fiori con
un nastro rosa, e un bigliettino di
accompagnamento: un’immagine
che non dimenticherò mai.
Nel libro ci sono i momenti più
bui di quegli anni della sua vita:
paure, amori non ricambiati e tanta
solitudine. Poi, quando gli si è dischiuso
davanti un mondo diverso,
fatto di amicizia e solidarietà, è stato
come un raggio di sole in una
giornata scura.
Per quanto mi riguarda, ancora
una volta, ho avuto la dimostrazione
che facendo volontariato si riceve
più di quello che si dà. Come l’affetto
di una persona quasi sconosciuta.
PAOLA C.

PRIMO: NON GIUDICARE
Nella nostra società orientata al
successo, al profitto, ai risultati immediati,
esistono persone (e non sono
poche) che lottano per ottenere
una brandina in un dormitorio, un
piatto di pasta in una mensa, un
paio di scarpe e un paio di pantaloni
usati in un centro di accoglienza.
In questi anni di volontariato alla
Bartolomeo ho scoperto un mondo
nuovo, quello sopradescritto, composto
dagli ultimi, dai dimenticati,
dagli emarginati, da coloro che possono
contenere tutti i loro beni materiali
in una borsa di plastica.
Come ogni realtà nuova va scoperta,
non guardandola furtivamente
dall’esterno, ma immergendosi
in essa: parlando con i senzafissadimora,
mangiando con loro,
ascoltandoli.
Dal contatto con loro ti accorgi
che dietro al degrado fisico, all’abbandono
delle convenzioni sociali,
si nasconde una persona, con le sue
emozioni, le sue giornie, i suoi dolori,
i suoi desideri, la sua capacità di
sorridere, di riflettere, di entusiasmarsi.
In una parola, la sua voglia
e volontà di vivere.
Forse la vita con loro è stata dura
o forse sono stati loro eccessivamente
duri con la vita: comprendere
ciò è difficile, il più delle volte impossibile.
In ogni caso non è nostro
compito giudicarli per quello che
hanno fatto, ma accoglierli per
quello che sono.
È così che può uscire una carica
inesauribile di umanità, uno stimolo
alla vita che raramente si trova altrove.
PIERO
RESTITUIRE SPAZIO E TEMPO
Tra le molteplici attività della
«Bartolomeo & C.», esperienza
fondamentale è l’ospitalità nottua
presso il «Bivacco», casa di accoglienza
dotata di 20 posti letto
destinati ad un’utenza maschile. Si
tratta di una struttura privata, gestita
unicamente da volontari. Gli
ospiti, dopo un colloquio preliminare,
sono inseriti in un ambiente
dove possono ricevere un ricovero
notturno, provvedere all’igiene personale,
consumare il pasto serale e
la colazione, cambiare e lavare gli
abiti, ricevere la visita di un medico
e seguire le terapie necessarie, lasciare
in deposito un numero limitato
di bagagli, accedere a sale provviste
di attrezzature ricreative dove
incontrare gli altri utenti e trascorrere
in loro compagnia la serata.
Il Bivacco, tuttavia, non rappresenta
solo un indispensabile servizio
finalizzato all’emergenza, ma un
primo passo verso la ricostruzione
di un’identità personale, perduta
nella deriva sociale di cui la persona
senzafissadimora è stata protagonista.
La mancanza di un reddito,
l’esclusione sociale, l’estraneità
agli stili comportamentali della cultura
dominante hanno infatti come
conseguenza non solo l’assenza o la
perdita di una casa intesa come edificio
fisico o materiale (protezione
da agenti estei, punto di rifoimento,
luogo di reperibilità), ma il
venire meno della propria identità
nello spazio e nel tempo.
Nel procedere verso l’emarginazione,
lo spazio urbano vissuto dal
senzafissadimora si limita alla mappa
dei luoghi anonimi ed impersonali
dove egli mangia, riposa o
aspetta un aiuto. Ciò produce una
capacità di orientamento dettata
unicamente dalla ricerca di una sopravvivenza
minimale, ma contemporaneamente
costituisce nel territorio
cittadino un punto di riferimento
residuale o alternativo all’abitazione.
Anche la prospettiva temporale si
contrae. L’unica dimensione disponibile
è il presente, l’unico margine
d’azione è la reazione immediata alle
provocazioni del momento, il futuro
non è altro che il susseguirsi di
situazioni alla cui costruzione il soggetto
non si sente chiamato a partecipare.
Il Bivacco diventa allora un luogo
concreto dove la persona può
sperimentare ruoli o relazioni altre
rispetto a quelle della strada, recuperare
la propria storia in un ambiente
disposto all’ascolto, frequentare
uno spazio di socializzazione
contrapposto alla misantropia
od al ripiegamento su di sé, riavvicinarsi
agli affetti spesso soffocati
dalla diffidenza o dall’opportunismo
che caratterizzano la sua esistenza
quotidiana.
L’accoglienza al Bivacco è quindi
centrale, perché ci offre la possibilità
di non limitare il nostro intervento
alla distribuzione di beni o a
prestazioni di tipo assistenziale; essa
pone le basi di una progettualità
che possa aprire ai nostri amici la
dimensione del futuro, a loro troppo
spesso negata.
PAOLA O.

Una testimonianza da Volgograd (Russia)
LE PATATE DI MIKAIL, IL FUNERALE DI NINA
Storie di barboni raccontate da un volontario della «Giovanni XXIII».
di Marco Giovannetti
Volgograd. È la veglia della notte di pasqua. La
chiesa è quasi piena e alla fine di ogni lettura il
sacerdote invita i fedeli a testimoniare come Dio sia
presente nella loro vita. Fino a quel momento solo
qualche timido tentativo, forse banale e scontato.
Mi giro, guardo Mikail che mi strizza l’occhio. Poi
si alza e comincia a parlare.
È un giorno qualunque e Mikail sta per andare al
lavoro, ma una telefonata di un amico gli comunica
che c’è la possibilità di avere delle patate. Mikail
è confuso, pensa e ripensa. La sua famiglia ha bisogno
di quelle patate, ma il rischio è quello di tardare
al lavoro. Mikail decide di mettere al primo
posto il bisogno della sua famiglia, di suo figlio, di
sua moglie, ma non sa che questo lo stato non glielo
perdonerà. Così si avvia in auto, a fianco la moglie,
dietro il figlio e lo zio, davanti a sé la tragedia.
Mikail ha un incidente, i passeggeri muoiono tutti.
Mikail è l’unico a rimanere vivo; sarà poi lo stato
ad ucciderlo.
Mikail non è colpevole, l’incidente è casuale, ma
questo allo stato non interessa. Sarà giudicato per
il ritardo al lavoro. La condanna: 15 anni di prigione.
Mikail ha perso tutto. Scontato il carcere, si reca
dai genitori, l’unico legame familiare rimasto, ma
nel corso di quei 15 anni sono morti e nessuno si
era mai preso l’incarico di comunicarglielo. Da quel
momento in poi la sua vita sarà sulla strada.
Non ha più nulla, né affetti, né casa. Ha perso la dignità
e la fede. Mikail non crede più in Dio: se Dio
esistesse, non permetterebbe tanta sofferenza; è
impossibile, non può essere. Mikail è sicuro: Dio
non esiste.
In chiesa, il silenzio. Mikail ripete che Dio non esiste
e davanti a questa storia nessuno si permette
di ribattere. Forse anche il sacerdote si rende conto
che dire a Mikail «Dio ti ama», non basta.
Mikail continua il suo discorso. Parla del nostro incontro
ed io mi commuovo. Non ce la faccio a trattenermi.
Parla della dignità ritrovata, della famiglia,
del rispetto, della speranza… Guarda dritto
il Cristo inchiodato e dice: «Ora so che Dio esiste».
È questa la pasqua qui a Volgograd, nel
sud della Russia, dove sono tre anni che
vivo come volontario della «Comunità
papa Giovanni XXIII».
Quante storie, quanti volti, ognuno
importante, unico, irripetibile.
Sguardi, sorrisi, pianti, lutti, speranza,
impotenza, tutto custodito nel profondo
del cuore, come una ricchezza inestimabile.
Ho il ricordo nitido di ogni incontro anche
se è durato pochi minuti, intensi, forti…
come un pugno allo stomaco. Ho visto
tanti amici morire. Molte volte il pezzo
di strada fatto insieme è stato verso la morte.
La fatica di sopportare quei momenti di silenzio,
fatti solo di uno sguardo in cui ti dici tutto. Per certe
cose le parole non servono, come con Nina.
Quante volte ci siamo guardati ed io ho capito che
tu non avevi più voglia di lottare, ma mi chiedevi di
accompagnarti verso la morte, in maniera dignitosa,
da essere umano.
Che fatica, cara Nina. Che fatica accettare la tua
rassegnazione, che male mi ha fatto pensare che
forse era ormai troppo tardi. Proprio tu che sbandieravi
il tuo essere «barbona» con orgoglio davanti
a tutti; tu che accostavi quella condizione a parole
come libertà, scelta, felicità. Sempre accompagnata
dalla tua amica bottiglia, che però non è
stata in grado di farti sentire amata, ma ti ha aiutato
a dimenticare, a non pensare che tu, quella vita,
non l’avresti mai scelta.
Ricordo il giorno del tuo funerale. Eri bellissima, ti
avevamo vestita come a te piaceva e non solo, per
te si sono aperti quei cancelli che ti hanno visto viverci
davanti per 15 anni. Mai ti avevano permesso
di entrare in chiesa: a te era vietato, non ne eri
degna.
Ma forse, nel giorno più bello della tua vita, il Signore
ha fatto capire a tutti che siete voi ad aprirci
il Regno ed io l’ho capito nel momento in cui eravamo
dentro alla chiesa ortodossa, cattolici e ortodossi
vicini, insieme, uniti da te, angelo di Dio,
dalle ali sporche e l’abito stracciato.
Veglia su di noi, cara Nina, insieme a tutti coloro
che ora vestiti di Luce, ci guardano da Lassù.
Sono questi gli incontri qui a Volgograd, quando
andiamo in strada a portare un panino con un
thé caldo e a condividere la vita di persone emarginate,
sbattute fuori dalle mura di questa società.
La nostra casa, che si trova fuori città, in un quartiere
povero, non ha mura che dividono. Al contrario,
accoglie chi vuole condividere con noi un
po’ della propria esistenza.
Ora siamo in 8 e la nostra vita è
molto semplice. Siamo una famiglia
un po’ particolare, ma ci vogliamo
bene. I nostri passi sono
molto lenti. Per noi il ritorno ad
una vita «normale» è lungo: l’uso
del sapone, del bagno, rispettare
gli orari. Ma ciò di cui
siamo veramente fieri è che ci
abbracciamo, ci chiamiamo
per nome, ci prendiamo per
mano e camminiamo insieme
con la speranza di arrivare, prima
o poi, a varcare i confini di
una terra dove regni la giustizia
e dove ogni cuore si possa
sentire accolto e riscaldato.

Lia Varesio

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