KAZAN’ (RUSSIA): popoli diversi vivono in pace

CAMPANILI E MINARETI


 Sulle rive del Volga, a 700 km da Mosca, 

sorge
Kazan’, capitale di una delle repubbliche autonome della Federazione
Russa: il Tatarstan, cioè paese dei tatari (tartari). Il nome evoca
efferate crudeltà, ma quanto sono diversi  i tatari di oggi dai bellicosi
mongoli che, otto secoli fa, scorrazzavano nelle steppe russe, tagliando
teste e mettendo a ferro e fuoco le città! Il Tatarstan è un raro esempio
di convivenza


pacifica tra persone di etnia e fede diverse. 

 

Prima
di entrare in stazione, il treno proveniente da Mosca offre una bella
panoramica del cremlino di Kazan’. È il nucleo più antico della città, su
un’altura che sovrasta la confluenza dei fiumi Kazanka e Volga.

Si
tratta d’un cremlino sui generis: accanto alla caratteristica siluetta
della cattedrale, si scorge la mole di un grande edificio in costruzione,
irta d’impalcature e dall’aspetto di moschea. Un tempo, più o meno nello
stesso luogo, si trovava la leggendaria moschea Kul-Sherif, dagli otto
minareti, le cui forme fantasiose pare abbiano ispirato gli architetti che
costruirono la cattedrale di San Basilio a Mosca, a commemorazione della
presa di Kazan’ da parte dei russi nel 1552. Dopo tanti secoli, si è
deciso di riedificarla, anche se il progetto originario è andato perduto.

Dal 14°
piano dell’Hotel Tatarstan, si può ammirare la città in tutta la varietà
di strade e acque. Non passa inosservata l’insolita commistione di
campanili e minareti, sebbene chiese e moschee non si trovino le une
accanto alle altre, bensì in quartieri diversi.

Uno dei
monumenti più caratteristici del cremlino di Kazan’ è una torre a gradoni,
pendente quasi come quella di Pisa. Prende nome dalla principessa
Sjujumbekì (1516-1565), moglie dell’ultimo khan tataro di Kazan’. Quando
Ivan il Terribile conquistò la città, essa fu fatta prigioniera e portata
a Mosca insieme al figlio. Famosa per bellezza e intelligenza, era così
amata e ammirata dalla gente che intorno a lei sono nate numerose
leggende, ancora vive nella tradizione popolare.

Con la
conquista russa, i tatari sono stati spinti fuori dell’abitato, sulle
sponde del lago Kaban, ora parte integrante della città. Qui è sorto il
«sobborgo dei tatari». Solo a partire dal 1767, dopo la visita di Caterina
II a Kazan’, si consentì di costruire le moschee. Così l’imperatrice pose
fine alla più che bicentenaria discriminazione nei confronti dei tatari: i
russi li avevano fatti allontanare dalle rive dei fiumi, avevano tolto
loro le terre migliori; Caterina, invece, capiva l’importanza di quei
sudditi e il ruolo che avrebbero potuto svolgere nell’intrecciare
relazioni commerciali con l’Asia centrale musulmana, verso cui la Russia
aveva mire espansionistiche.

 

Con
l’arrivo dei bolscevichi le sorti delle due comunità religiose sono state
accomunate nella persecuzione: non ha risparmiato né cristiani né
musulmani, né russi né tatari. Nel 1943, durante la guerra, per dare nuova
linfa al patriottismo dei russi, Stalin restituì alla chiesa ortodossa un
ruolo ufficiale; anche l’islam ottenne un riconoscimento analogo.

Con la
fine del regime comunista, si è temuto che, sull’onda del processo di
disintegrazione della vecchia Urss, il Tatarstan potesse reclamare
l’indipendenza politica. Sebbene non siano mancati movimenti in questa
direzione, tale progetto è apparso irrealizzabile, non solo perché uno
stato all’interno di un altro stato costituirebbe un’improbabile anomalia
geopolitica, ma soprattutto perché, dopo secoli di vita in comune, tatari
e russi sono uniti da forti legami di sangue: moltissimi sono stati e sono
ancora i matrimoni misti.


Guardando i gruppi di giovani che passeggiano per le strade di Kazan’, si
fa fatica a capire dove siano i tatari e dove i russi. Si vedono anche
teste decisamente bionde o more; ma spesso rimane il dubbio. Anche le
caratteristiche architettoniche della città riflettono i tratti dei due
popoli. Molto più animata e solare rispetto ad altre città russe, Kazan’
non ha però l’esuberanza e colori del profondo oriente; sarà forse per le
acque, i boschi e il cielo nordico che la circondano.

Rimane
un’apprensione: con il rinascere dell’interesse per la religione i
rapporti tra le due comunità si potrebbero guastare, specie se la
religione venisse sfruttata a fini ideologici. Ma per il momento non si
nota nulla del genere. Tutti vivono in pace, grazie anche alla politica
attenta delle autorità, che mantengono al riguardo una posizione
rigorosamente imparziale.

Dove i
tatari sentono di doversi prendere una rivincita è nella questione del
proprio idioma: il turki. Esso si è sempre trovato in minoranza di fronte
al russo, lingua dei dominatori, privilegiato nella vita pubblica anche
dal comunismo; per cui i russi non hanno mai avuto la necessità di
imparare la lingua locale.

Ora i
tatari sono ansiosi di riaffermare la dignità del turki e vorrebbero che,
finalmente, fosse imparato da tutti. Nel 1997 il Congresso delle comunità
tatare ha approvato perfino il ritorno all’alfabeto latino che, dopo avere
sostituito quello arabo nel 1929, era stato a sua volta rimpiazzato dal
cirillico nel 1939.

Non ci
sarebbe da stupirsi se i tatari volessero rifare il percorso inverso fino
in fondo. Qualcuno lo auspica. Per ora, tuttavia, sembrano accontentarsi
del primo passo, pur suscitando parecchie perplessità tra la gente, ormai
abituata a scrivere e leggere i caratteri russi.

 

Gli
amici di Mosca mi hanno dato il numero di telefono della direttrice d’una
rivista femminile locale. «Dovessi aver bisogno; non si sa mai. Poi è
sempre interessante parlare con gente del posto. Si vengono a sapere tante
cose».

Mi
metto in contatto con la redazione del Sjujumbekì, rivista in lingua turki
rivolta a un pubblico tataro. L’intenzione è quella di scambiare quattro
chiacchiere e sentire notizie di prima mano sulla città. Entrata
nell’ufficio della direttrice, capisco che si sta preparando qualcosa: il
grande tavolo al centro della stanza ha un’aria di festa; vi troneggiano
vassoi carichi di dolci. Subito dietro a me entrano le collaboratrici che,
nel giro di cinque minuti, sono tutte sedute intorno al tavolo. Da ultimo
entra il fotografo e l’incontro comincia.

Credevo
di portare a casa informazioni su usi e costumi locali, invece sono
subissata da una valanga di domande sulle questioni capitali del nostro
tempo: educazione dei giovani, droga, famiglia, immigrazione, rapporto
chiesa-società. Evidentemente sono tutte questioni che stanno molto a
cuore alle mie interlocutrici, perché sono problemi che la gente si trova
ad affrontare negli ultimi tempi.

L’epoca
post-sovietica ha reso palesi vecchi mali, prima taciuti nelle statistiche
ufficiali, e aperto nuove ferite. La nuova «società aperta» si è trovata
impreparata a far fronte, di punto in bianco, a situazioni che hanno
assunto dimensioni catastrofiche, a causa del disorientamento generale del
periodo di transizione: il sempre più massiccio uso di droghe tra i
giovani ne è un esempio. Negli ultimi cinque anni il numero dei
tossicodipendenti registrati nella struttura pubblica è cresciuto di 12
volte; tra gli adolescenti addirittura di 30 volte; dal 1996 i malati di
Aids sono aumentati di 300 volte: il 70% di essi sono tossicodipendenti.

Le
giornaliste della rivista sono venute all’incontro con il desiderio di
imparare dall’esperienza di un altro paese e fae tesoro. Mi ascoltano
con avidità, riconoscenti per quel poco che posso raccontare. Si
stupiscono di quanto comuni siano i problemi e simili le situazioni nei
nostri due paesi. Anch’io mi meraviglio per la sintonia di giudizio delle
ospiti tatare nel valutare i fenomeni della modeità.

Siamo
intorno al tavolo da due ore; la giornata lavorativa è finita; ma nessuno
accenna ad andarsene, tanto è il piacere di un incontro che rivela
impreviste affinità. Non capita spesso di sperimentare come tra due mondi,
creduti lontani mille miglia, si trovino vicini nella comune
preoccupazione per un futuro incerto e nella professione di identici
valori.

 

A una
trentina di chilometri da Kazan’ si trova il monastero maschile di Raifa,
dal nome dei santi eremiti del Sinai e Raithu (in russo Raifa), massacrati
nel vi secolo da bande di razziatori. I monaci vi ospitano ed educano un
gruppo di ragazzi di strada.

La
bellezza del luogo mi rapisce, non appena scendo alla fermata dell’autobus
e imbocco la stradina che dalla provinciale conduce all’ingresso del
convento: tutt’intorno boschi centenari, poco lontano un tranquillo
specchio d’acqua. Sono investita da un senso di pace che, varcata la porta
del convento, si arricchisce di un sentimento di stupore e riconoscenza
per chi ha saputo rendere quel luogo così accogliente.

Il
monastero è lindo, ridente, pieno di visitatori. È un giorno feriale;
eppure si respira un’aria di festa. Sarà forse per il sole e l’aria tersa
che fanno risaltare i colori: il bianco degli edifici, l’oro delle cupole,
le sgargianti tinte dei fiori, il nero delle vesti dei monaci. È mai
possibile che fino a circa 10 anni fa il convento fosse in rovina e le sue
chiese abbiano ospitato un carcere minorile? Percorrendo i lustri viottoli
tra un edificio e l’altro, ci si ricorda a fatica degli anni bui del
periodo sovietico; sembra che questi monaci sorridenti abbiano da sempre
abitato questo luogo di serenità.


Desiderando scambiare due parole, mi avvicino timida a un monaco dalla
faccia bonaria, con la speranza che non trovi importuna la mia curiosità.
Il monaco altri non è che il priore, padre Vsevolod e non si dimostra
affatto sorpreso che voglia fargli delle domande. Non sono la prima
straniera a interessarsi del monastero.

Gli
chiedo subito dei ragazzi da loro adottati. «Il primo è arrivato chissà
come nel 1994. Ha trovato la strada da solo. Dietro di lui sono arrivati
gli altri. Quasi tutti con alle spalle storie pesanti di maltrattamenti,
abusi e violenze. Ora nel monastero abitano 20 ragazzi, dagli 8 ai 18
anni.

Da
quando sono qui, la loro vita è cambiata completamente e, soprattutto, è
mutato il loro atteggiamento nei confronti del mondo degli adulti, prima
guardato con paura e sospetto. Frequentano insieme la scuola, a qualche
chilometro di distanza; sono circondati dalle cure dei monaci, che ne
completano l’educazione, non solo insegnando il catechismo, ma anche con
lezioni di arte, musica e canto. D’estate, poi, il convento organizza loro
vere e proprie vacanze. Quest’anno, per esempio, sono andati tutti sul Mar
Nero.

Venti
giovani, in confronto alle migliaia di ragazzi abbandonati, maltrattati,
fuggitivi che percorrono le strade della Russia, sono una goccia
nell’oceano; ma è pur sempre un segno di speranza».

Padre
Vsevolod è raggiunto da alcune persone che vorrebbero parlargli. Ho
un’altra cosa da domandargli, prima di lasciarlo andare. Avendo visto nel
vicino villaggio una moschea, la domanda è d’obbligo: «Quali sono i loro
rapporti con i figli dell’islam?».

«Basti
dire – risponde padre Vsevolod con aria soiona – che nel territorio di
una cornoperativa agricola, non lontano da qua, si sta costruendo una
moschea. Sapete chi ne ha pagato il progetto? Noi. D’altra parte, quando
abbiamo cominciato a ricostruire il monastero, sono stati i musulmani
locali i primi ad aiutarci».

Biancamaria Balestra

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