SPECIALE 100 ANNI – I profeti

Dire missionario è dire anche «profeta», cioè un uomo non solo aperto al nuovo, ma portatore di novità. Chi partiva (qualche decennio fa) per le missioni sapeva bene che avrebbe dovuto spalancare gli occhi, adattarsi e mettersi a imparare di fronte a una realtà completamente sconosciuta: quasi una rinascita, che lo avrebbe portato a parlare una lingua diversa, comprendere tradizioni e costumi differenti dai suoi, sforzarsi di cambiare atteggiamenti e modi di pensare. Una novità assoluta, anche se riusciva a ritagliarsi qualche angolo del suo vecchio mondo, lasciato alle spalle. La novità era soprattutto ciò che il missionario annunciava, cioè la «buona notizia» di Gesù Cristo: l’annuncio originale di un Dio fatto uomo, un messaggio compendiato nella sola legge di un amore senza limiti, uno stile di vita capace di superare tradizioni e leggi venerande.
È possibile essere «nuovi nella novità», annunciare il vangelo con una marcia in più, con uno sguardo capace di vedere «oltre», con intuizioni e gesti ancora inediti? Anche tra i missionari c’è chi ha preceduto gli altri e si è distinto come pioniere non tanto nella missione, ma nel modo di portarla avanti. Per questo ha rischiato di non essere compreso, di dover «frenare» i suoi slanci e attendere che idee troppo innovative diventassero… ortodosse!

COME IL TAFANO
padre Ferdinando Viglino (1902-1969)

«Ho conosciuto padre Ferdinando Viglino in una parrocchia molto povera dell’Argentina: un uomo di grande umiltà. Aveva un’imponente biblioteca e, in quell’epoca, scriveva perfino a Maritain. M’impressionò la sua povertà, il suo vestito sgualcito, l’ambiente disadorno. Era una persona che spaziava in un mondo così vasto e viveva in un posto così povero e lontano. Aveva un’intelligenza chiara e penetrante e mi stupiva il suo coraggio nell’affrontare le questioni nuove e inedite. Celebrava la messa in spagnolo, non in latino: fu il primo sacerdote nella mia vita, molto prima del Concilio, che vidi celebrare rivolto al popolo. Ho conosciuto molta gente, grandi oratori, trascinatori di masse, ma non erano come lui. Padre Viglino veniva dal futuro e fu uno straordinario profeta, un uomo di frontiera che apriva il cammino, che anticipava… Se fosse tornato in Argentina nel ’69 e nel ’74, o se ne sarebbe andato o l’avrebbero ucciso per la sua scelta dei poveri».
La citazione è un po’ lunga, ma è troppo bella per mortificarla, sia perché delinea bene il nostro personaggio, sia perché l’autore è Enrique Dussel, grande storico dell’America Latina.
Già, padre Ferdinando Viglino: un missionario fragile, quasi sempre malato, ma che lasciava il segno. Piemontese di origine, fu accolto nell’istituto dallo stesso fondatore e ricevette l’ordinazione dalle mani di mons. Filippo Perlo, pochi giorni prima della morte dell’Allamano. Ebbe vari incarichi nei seminari. Nel 1938 fu mandato in Etiopia, dove rimase 5 anni e conobbe i disagi della prigionia ad Harar.

Nel 1948 partì per l’Argentina dove divenne parroco a Mendoza, nel barrio San José. Non c’erano né chiesa, né casa, né soldi, ma solo tanta gente, molti dei quali immigrati dalla Bolivia e dal Cile. Il giorno della sua entrata ufficiale, presente il vescovo, padre Ferdinando si paragonò «a un tafano, posto su un nobile cavallo per pungerlo e tenerlo sveglio». E per 18 anni non permise che il suo gregge si addormentasse. Andava di casa in casa visitando i malati, ascoltando e consigliando, portando viveri e medicine. Soprattutto si dava da fare per venire incontro ai poveri, rianimandone la fede e moltiplicando iniziative per difendere i loro diritti: per questo sperimenterà perfino la prigione.
Non riuscì mai ad avere una chiesa nuova, anche perché diceva: «In certi posti è più importante costruire la sede di un sindacato che un tempio». Nel 1953 fondò la JOC (Gioventù Operaia Cattolica): primo e unico gruppo esistente in tutta la diocesi. Invece del tempio, padre Ferdinando costruì un salone-cappella, ricavato da due stanze attigue abbattendone il muro divisorio. Ne approfittò per allestire l’altare rivolto al popolo.
Precursore di molte idee conciliari, fu motivo di risveglio per tutta la diocesi mendozina: preti e seminaristi lo avevano scelto come direttore spirituale, laici impegnati ricercavano i suoi consigli. La novità del suo stile apostolico contagiava altri parroci, tanto da avviare una «pastorale d’insieme» con le parrocchie confinanti. Le sue innovazioni nel campo liturgico (letture bibliche in spagnolo, omelia dialogata, paramenti, altare rivolto al popolo e, soprattutto, quel suo modo inconfondibile di legare la parola di Dio alle realtà quotidiane) attiravano cittadini d’ogni estrazione sociale nella cappella di periferia.
Quando «l’ora del Concilio» arrivò anche a Mendoza, padre Ferdinando si trovò involontariamente in un’atmosfera di tensione e pressioni finché, nel 1963, rinunciò all’incarico di parroco e tre anni dopo ritoò in Italia. Testimone tutto d’un pezzo, se ne dovette andare come un «tafano» scomodo e da scrollarsi di dosso. Ma l’impronta da lui scolpita nei cuori dei parrocchiani (e in tutta la diocesi) rimase indelebile fino ai giorni nostri.
Trascorse gli ultimi suoi anni nel seminario teologico di Bravetta, a Roma, dove continuò con il suo stile umile e provocatorio. Morirà, travolto da una macchina, il 15 dicembre 1969.

Delineare in poche righe il volto di padre Ferdinando non è cosa semplice, anche se dai pochi cenni abbozzati la sua statura spirituale e apertura al nuovo appaiono senza incertezze. Le sue idee e gesti spesso inquietavano e sconcertavano. Ma era un missionario della Consolata e, dunque, stava dalla parte della missione e degli ultimi. Amando la chiesa, anche quando il suo cuore traboccava di critiche e indignazione. Un giorno a Mendoza, durante la visita pastorale, il vescovo rimproverò davanti all’assemblea il parroco, per l’uso della lingua spagnola durante la messa. Padre Ferdinando non aprì bocca e, a chi gli chiedeva perché non avesse obiettato al vescovo, rispose: «Bisogna volere molto bene alla chiesa, anche quando ci castiga».
Conosceva alla perfezione la storia delle missioni, con le sue luci e ombre; per questo non voleva che se ne ripetessero errori o lentezze. Ripeteva spesso la frase del card. Costantini: «Noi abbiamo voluto far passare l’Oriente per la porta dell’Occidente e l’Oriente non è passato!». Vincent Lebbe, l’apostolo della Cina, era una delle figure missionarie che più lo affascinava, perché aveva saputo separare, con forza e chiarezza, l’annuncio missionario dalla sua europeizzazione.
Essere dalla parte di padre Ferdinando significava non avere vita facile. Durante la dittatura militare in Argentina, alcuni suoi amici furono perseguitati proprio perché suoi amici. Un fascicolo dattiloscritto, da loro pubblicato e dal titolo significativo («P. Ferdinando Viglino profeta y apostol de nuestra epoca»), era diventato un testo «sovversivo» e chi ne era trovato in possesso doveva rispondee davanti alle autorità di polizia; ci fu anche chi lo sotterrò nel giardino, aspettando tempi migliori.
Strana sorte per un missionario gracile di salute e mite di cuore. Veniva dal futuro, perché l’indignazione e la speranza non potevano farlo arrendere al presente. E vengono in mente le parole di Beanos: «Ci sono alcuni che vedono le cose come sono e si domandano: perché? Altri vedono le cose come non sono e si chiedono: perché no?». Padre Ferdinando apparteneva a questo ultimo drappello.

IL DIFFICILISSIMO
padre Giovanni Bonzanino (1927-1983)

«Ero un ragazzotto sui 25 anni, mezzo biellese e mezzo foggiano, un misto di nord e sud, con quel tanto di taglio piemontese da rendermi ostinato calcolatore, nonché battagliero e cocciuto, e quel tanto di taglio pugliese che rivelava la mia personalità poetica e fantasiosa». Così si raccontava padre Giovanni Bonzanino, con il suo stile brillante e un po’ provocatorio, specchio di una personalità dalle mille sfaccettature e imprevedibili risvolti. Era un missionario tutto d’un pezzo, senza mezze misure e, soprattutto, innamorato della «sua» Africa di cui parlava continuamente nei suoi libri: un amore profondo, viscerale, incontrollato per questo continente dove rimase per quasi 30 anni, «amando la terra che Dio gli aveva additato e, avendola trovata bella, l’aveva sposata, celebrandone le nozze fino all’ultimo giorno».
Il Kenya fu la prima tappa di lavoro apostolico, dove passò dalle esperienze pastorali dirette (parroco a Meru e Nkabone) fino a ruoli di responsabilità, come incaricato dell’Azione cattolica diocesana e vicario episcopale della «parte desertica del Meru».

Nel 1975 gli fu chiesto di lasciare il Kenya per l’Etiopia e fu proprio in questo paese che padre Giovanni diede il meglio di sé, consumandosi nel lavoro e moltiplicando iniziative per sostenere le opere missionarie in favore di orfani, handicappati, ciechi, affamati: una vera «fiumana di carità» che, grazie a lui, permise di lenire sofferenze, guarire malati, sostenere i bisognosi. Fu anche nominato superiore dei missionari della Consolata nel paese e presidente della Conferenza dei religiosi. Il tutto in un contesto politico (il regime socialista-marxista di Menghistu) non certo favorevole alla chiesa e tantomeno alle missioni!
Logorato da tanta fatica ed esausto per le numerose opere che pesavano sulle sue spalle, si spense, dopo pochi giorni di malattia, a 56 anni lasciando tutti sconsolati: non solo amici e confratelli, ma soprattutto gli «ultimi» che da lui erano stati accolti e amati con affetto di padre nella Città dei ragazzi a Mandera (Kenya), nel centro per handicappati di Gighessa e l’ospedale di Gambo (Etiopia).
Seppe anche leggere con attenzione la realtà, capire ciò che stava succedendo, comunicarlo attraverso i suoi scritti, proporre piste e cammini nuovi.
In occasione del suo 25° di sacerdozio scriveva: «Delle cose ne abbiamo viste e vissute in questi anni. In Africa abbiamo assistito e partecipato al morire del colonialismo e alla nascita di nuove nazioni. Abbiamo sperimentato diversi tipi di rivoluzione. Abbiamo pure visto crescere la violenza nel mondo, diventare andazzo comune la droga, entrare di moda il sequestro di persona. Nei paesi dove sono in corso rivoluzioni marxiste, abbiamo visto esplodere efferate repressioni e massacri di innocenti. Eppure, non mi dispiace di essere nato e vissuto nel mio tempo, di essere diventato prete e missionario».
Davanti a queste situazioni non restò certamente con le mani in mano, aspettando tempi migliori o soluzioni collaudate. Sapeva essere critico non solo verso gli altri («le crociate furono l’impostura più grande della storia, perché una guerra santa che usa Dio per giustificare la violenza e l’assassinio è inconcepibile»), ma partendo da se stesso, impietosamente: «Io ero un giovane missionario, sbalestrato in una zona lontana, con una fede entusiasta, uno zelo apocalittico e il tormento anti-protestantico… Oggi ritengo questa rivalità non solo anti-ecumenica, ma anti-cristiana».

Portava nel sangue l’urgenza della corsa, il gusto per le cose originali, l’attesa del domani, il tocco creativo dello scrittore e la determinazione di chi non si rassegna facilmente alle difficoltà. Lo stile frizzante non lasciava indifferenti i lettori dei suoi libri, dove, pur con certo umorismo scanzonato, sapeva mettere il dito sulla piaga. La capacità di affrontare il futuro con grinta e novità si rivela soprattutto nel suo libro «Missionari nella rivoluzione», un vero manuale apostolico per situazioni di emergenza e persecuzione. Scriveva, ad esempio: «Il missionario deve convincersi che le possibilità apostoliche del passato forse non toeranno mai più. Di solito è attaccato a certe forme di proclamazione, mentre deve attaccarsi non alle forme, ma all’annuncio. In questo senso il “tempo difficilissimo” può persino diventare un tempo propizio, un tempo di salvezza. La possibilità di farcela verrà ritardata o anche eliminata per il missionario se egli rimarrà un sottosviluppato nel campo della pastorale della rivoluzione».
Lui seppe vivere nel tempo difficilissimo della missione con la speranza di chi sa attendere l’aurora, oltre il buio della notte, e affrontare le nuove sfide con coraggio e senza rimpianti.

NON SPEGNERE
padre Francesco Babbini (1932-1984)

Quando fu richiamato in Italia per l’animazione missionaria, gli sembrò di morire. Confesserà più tardi che partire dal suo paese natale gli era costato molto, eppure mai avrebbe immaginato che lasciare la missione sarebbe stato così duro. La gente, la terra, il deserto, perfino le capre gli erano entrate dentro e, quando i suoi indios della Guajira (Venezuela) lo tempestavano di lettere scriveva loro: «Non lasciate spegnere il fuoco: cerco altri missionari, cerco legna e toerò. Aspettatemi!». Ma laggiù padre Francesco non ritoerà più. Stroncato improvvisamente, a poco più di 50 anni. Bruciati da un fuoco che gli ardeva dentro e lo spingeva oltre.
Padre Francesco Babbini era romagnolo di origine e torinese di adozione. A soli 13 anni (scatenati) si ritrovò in seminario per diventare missionario e vi rimase non senza difficoltà. Più di una volta fu sul punto di mollare tutto e tornarsene a casa, ma inspiegabilmente non riuscirà mai a prendere quella decisione; quasi una forza misteriosa che non gli permetterà di mollare i missionari. Lo capirà più tardi quando, alla vigilia dell’ordinazione, sua madre gli rivelerà il segreto.
A sei mesi era ridotto in fin di vita, dato ormai per spacciato a causa di una malattia inspiegabile. La madre (con una fede che solo le mamme possono avere) lo aveva portato in un vicino santuario e, con la forza della disperazione, aveva messo il fagottino sull’altare, gridando verso la statua della Madonna: «Se vive, è tuo; se muore, è tuo!». Poi, con il suo fardello, era ritornata a casa sul calesse e, quando sollevò la copertina, il piccolo, dentro, sorrise beato. Guarito. Da allora la Madonna non lo lascerà più e, senza sapere il perché, Francesco scoprì che la sua vita veniva dipanata da un’invisibile mano matea.
Sapendo di essere «un miracolo di Maria», non tenne neanche più un minuto per sé, ma tutto donò a lei che lo aveva chiamato sulla strada della missione. Non riuscirà ad essere un prete mediocre o di mezze misure: tutto al massimo, intensamente e con una carica che sapeva trasmettere a chiunque lo avvicinasse. Non fu mai un uomo ripetitivo e scontato, ma sempre alla ricerca del nuovo, del meglio, con fantasia e anticonformismo.

Era diventato padre spirituale nel seminario di Bevera (CO) e i suoi confratelli facevano fatica a stargli dietro: programmi, celebrazioni, iniziative… una dietro l’altra per non lasciare assopire l’impegno e lanciare i giovani sulle strade della radicalità evangelica che lui, senza mezzi termini, chiamava santità. Un padre spirituale… astronautico! Erano, infatti, i tempi delle prime imprese spaziali e lui proponeva la missione con il fascino dell’avventura, il gusto di una vita dalle dimensioni più ampie degli spazi siderali e per gente coraggiosa, vivace, senza misura. Missionari nuovi, plasmati dal Concilio che stava sconquassando la chiesa, ripulendola da incrostazioni secolari.
Dopo una parentesi di cinque anni in Spagna, finalmente, la missione. Quella vera, sognata: il Venezuela, gli indios guajiros. Terra di petrolio, ma in cui si moriva di sete, tra un popolo povero, monolitico, con tradizioni profonde e complesse, quasi impenetrabili. Lui ci mise il fuoco: un vulcano di iniziative sempre nuove, sempre diverse. Volle entrare in profondità, appassionarsi alla gente, scuotere i missionari troppo tranquilli o ancorati a stili del passato (era stato nominato superiore del gruppo), impedire di scoraggiarsi davanti agli insuccessi. Si tenta e ritenta, perché la missione è la tua patria, la tua casa, la tua gente, il tuo sogno.
Venne richiamato bruscamente in Italia, per portare anche qui entusiasmo e novità nell’animazione missionaria. Nonostante fosse un «maestro della missione», si rimise a imparare e ascoltare per capire, sfondare e rivoluzionare un po’ tutto. Ma in fretta, subito, perché per lui la missione era «la professione» più esaltante, più appetibile. E gli sembrava incredibile che i giovani incontrati non rimanessero affascinati da quello che diceva essere «il mestiere più bello del mondo», l’unico che offrisse la possibilità di dare sfogo alle qualità migliori dell’uomo. Diceva: «Ringrazio commosso e ringrazierò sempre Dio e la Madonna di avermi voluto missionario. Ho centuplicato la mia vita, ho cento patrie, migliaia di bambini mi chiamano padre e lo sono per aver dato scuole, ospedali, e tutto quello che solo noi missionari sappiamo. Mi sono arricchito di moltissimi valori umani e divini, a contatto con altre culture. Questo mi ha messo dentro una passione infinita, la vocazione missionaria, gli uomini, il mondo; soprattutto per i più poveri, i più lontani».
Si accorgeva, invece, che i giovani avevano paura: di scegliere, di osare il nuovo, uscire dagli schemi… Una sofferenza che gli bruciava dentro e lo faceva ripiombare nella tentazione di mollare l’animazione in Italia e tornarsene in missione.
Ma tutto improvvisamente si arresta. Il 19 marzo 1984, festa di s. Giuseppe, tenta di alzarsi dal letto, cade a terra. E così, silenziosamente parte per il cielo. Mentre sognava di poter ripartire, magari per un altro campo… per l’Asia. Inguaribile! Mai soddisfatto di ciò che già aveva realizzato, proteso sempre in avanti. Verso l’inedito, il nuovo.
Un uomo sempre in marcia verso il futuro.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti

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