CAMBOGIA – Se mine e aids scomparissero

Un futuro già compromesso?
Si muore di diarrea o di Aids. O per lo scoppio
di una mina. Ma la Cambogia non è solo questo:
è anche natura esuberante, frutti succosi,
fiori profumati, sorrisi disarmanti.
Ricordo di un paese dove violenza e dolcezza
convivono fianco a fianco.

M olte sono le immagini che hanno rappresentato la Cambogia in articoli, saggi, libri. Immagini quasi sempre drammatiche: campi disseminati di ossa e teschi, bande di guerriglieri con lanciagranate in spalla, terreni minati, vittime delle mine per le vie di Phnom Penh o nei villaggi di campagna. Tutte cose assolutamente vere e realistiche, ma non sufficienti a raccontare la Cambogia.

I n questo strano paese gli estremi si mescolano in un solo ricordo. E così, accanto ai drammi di una popolazione violata, si aggiungono immagini di volti dolcemente sorridenti e, accanto a immagini di corpi in fin di vita per l’Aids, quelle delle danze aggraziate apsara. Ricordo molto di più la dignità che la disperazione, negli animi delle persone con le quali ho lavorato e vissuto per oltre un anno.
È incredibile come qui convivano due anime: quella della violenza e quella della disarmante dolcezza. Ad esempio, per le vie di Phnom Penh, trasudanti caldo e polvere, durante il giorno era evidente l’aspetto sofferente della città: cupe abitazioni, giungla di fili elettrici abusivi, amputati e poveri medicanti a popolare i bordi di strade inesistenti, la povertà evidente dei piccoli mercati. Ma la sera, lungo il Tonle Sap o intorno al Wat Phnom, centinaia di famigliole, sedute su stuoie nei prati e sul lungofiume, gustavano uova sode o pesce affumicato, in un quadro di bei colori ed armonia. E nelle province, nei remoti villaggi, dove miseria e malattie dettano le regole di una stentata sopravvivenza, non mancano i fiori davanti alle case in legno e bambù, né vengono risparmiati sorrisi al visitatore.
Né posso dimenticare lo splendore di una natura esuberante, di frutti succosi (non ricordo di aver conosciuto altri posti con tale varietà di frutti), fiori profumati (il frangipane la sera, o dopo la pioggia, diffonde a tutta la città il suo profumo) e fiori colorati (i flamboyantes che adoano i viali della capitale come i sentirneri dei villaggi). In questo splendore tutto a volte assume un aspetto solenne e celebrativo, soprattutto quando i mille colori del tramonto tingono meravigliosamente fiume e risaie.

D ella Cambogia ricordo lo splendore dei tetti oro e smeraldo del palazzo reale, i luminosi viali di Phnom Penh, i mille tetti delle innumerevoli pagode che appaiono ovunque, le colorate cerimonie con i solenni bonzi dal cranio rasato e le tuniche arancio, il delizioso pesce-elefante pescato nel Mekong e servito con profumate salse al mango verde.
E come non collegare il ricordo della Cambogia al mistero e al fascino di Angkor Wat, il cuore del paese, che merita da solo un viaggio in Indocina. Cammini per ore nella giungla soffocante, tra templi ricamati, imponenti colonnati, i quattro volti di Bayon, fino a raggiungere un’immagine che toglie il respiro: l’enorme complesso di Angkor, memoria storica e intima del popolo khmer.
Nonostante questo, chi è stato in Cambogia non da turista non può evitare di sentirsi come in un immenso sacrario, dove le sofferenze inaudite di un popolo hanno innaffiato di sangue gran parte della attuale vegetazione. Per fortuna, questo pesantissimo ricordo è vissuto dai khmer con discrezione, quasi come una vergogna da coprire.

P er me e la mia famiglia è stato come conoscere i sopravvissuti di Auschwitz, vittime dell’ennesimo olocausto.
Avrei avuto voglia di interrogarli, ascoltare i loro racconti, le loro vite difficili da immaginare. Ma loro discreti scivolavano sul passato, fino a quando, magari passeggiando alla sera, ti raccontavano come una storia qualsiasi di quando videro massacrare a bastonate i loro cari, in quel delirio che erano i «campi di rieducazione» o, con minor eufemismo, i «killing fields», i campi dell’uccisione.
Ancora oggi i cambogiani sono un popolo costretto a subire violenze quotidiane: una corruzione senza vergogna, l’arroganza illimitata di chi detiene il potere (magari conferito dai proventi di traffici illeciti), fino al drammatico disboscamento che sta minacciando l’equilibrio ecologico del paese. Come se ciò non bastasse, c’è la piaga dell’Aids, che trova nella capillare rete di prostituzione e bordelli l’ideale terreno di coltura per una crescita esponenziale, proprio lì dove i farmaci per curare l’infezione e le complicanze sono introvabili.
Si muore di Aids; si muore di diarrea nei lontani villaggi delle province di Ratanakiri o Stung Treng; si muore ancora su una mina a Anlong Veng o vicino Battambang. E la fabbrica delle protesi è forse l’unica industria dal roseo avvenire nel paese.
In Cambogia centinaia di Ong e agenzie di cooperazione si sono date appuntamento, forse con un esubero eccessivo e con finalità non sempre compatibili con un reale sviluppo del paese.

Oggi, nella mia mente, rivedo le persone che ci sorrisero, per rincuorarci nei momenti difficili, quando tutti avevamo paura, o per esprimere la loro fiducia nel nostro lavoro. Ecco, i mille sorrisi di quella gente costituiscono, per me e la mia famiglia, ricordi indelebili di un anno indimenticabile.

Carlo Urbani

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