Heineken in Africa

testo di Chiara Brivio |


Il libro inchiesta del giornalista Olivier van Beemen

Un giornalista olandese alla scoperta degli affari africani, non sempre limpidi, di una delle multinazionali più conosciute e amate del suo paese.

Olivier van Beemen, ha dedicato sei anni a investigare il giro d’affari in Africa di una delle più grandi multinazionali della birra al mondo: l’olandese Heineken. Un’azienda dalla reputazione impeccabile, con 165 birrifici in 70 paesi, i cui profitti nel continente superano del 50% la media dei suoi profitti nel mondo, che considera l’Africa, per bocca del suo stesso amministratore delegato Jean-François van Boxmeer, «il segreto meglio custodito dell’imprenditoria internazionale».

Inviato dal quotidiano olandese «Financieele Dagblad» a seguire la Rivoluzione dei gelsomini in Tunisia nel 2010, van Beemen ha scoperto per caso alcuni legami tra il gigante della birra e un uomo d’affari vicino all’ex dittatore Ben Ali.

Da lì ha avuto inizio una lunga inchiesta che ha portato a risultati sconcertanti: in diversi paesi africani van Beemen ha portato alla luce casi di collusione, corruzione, abusi sessuali, prostituzione, elusione fiscale, violazione dei diritti umani, nei quali sarebbe coinvolta la Heineken. Fino al genocidio ruandese del 1994, nel quale, secondo la ricostruzione fatta dall’autore, la multinazionale della birra avrebbe avuto un ruolo importante.

La sua inchiesta è confluita in un libro, Heineken in Africa. La miniera d’oro di una multinazionale europea, pubblicato recentemente in Italia da ADD editore (Torino 2020, pp. 336, euro 16,00). In esso l’autore solleva molti dubbi sul ruolo di Heineken che dichiara di essere un forte agente di sviluppo in molti paesi africani, ma anche sulle multinazionali che operano nel continente in generale.

Abbiamo intervistato il giornalista in occasione dell’uscita dell’edizione italiana.

Perché ha scelto Heineken per la sua inchiesta?
Foto Dingena Mol

«È stato in Tunisia che è iniziato tutto, quando ho scoperto che lì Heineken aveva intrapreso una collaborazione con un membro del clan familiare dell’allora dittatore Ben Ali. Sono rimasto scioccato dal fatto che una multinazionale di quel calibro potesse mentire così apertamente: Heineken infatti negava di aver mai fatto affari con qualcuno che facesse parte di quel clan, mentre in realtà era il contrario e aveva legami con la dittatura.

Successivamente ho scoperto che Heineken aveva un enorme giro d’affari in Africa e che possedeva birrifici in diversi paesi. Il mio stesso governo negli anni ha elargito a Heineken milioni di euro dei contribuenti olandesi sotto forma di sussidi, perché crede che l’azienda contribuisca allo sviluppo in Africa.

Ho pensato che sarebbe stato interessante approfondire se veramente Heineken aiuta lo sviluppo.

Attenzione agli spoiler: è vero il contrario».

Il consumo di birra in molti paesi dell’Africa è molto elevato. Come mai?

«Molte società africane hanno delle tradizioni birraie che risalgono a tanti secoli fa. Le birre locali hanno una percentuale di alcool del due o tre per cento, e hanno come base il sorgo, la cassava, il miele e altri ingredienti. La birra a volte svolge anche un ruolo importante nei rituali e nelle cerimonie. Ciò significa che l’Africa è un mercato molto allettante per l’industria della birra occidentale, che fa di tutto per spingerne il consumo.

La misura standard di una bottiglia nella maggior parte dei paesi africani è di 60 cc (ad esempio in Nigeria) e di 75 cc (in Sudafrica).

I consumatori bevono facilmente anche cinque, sei, persino dieci bottiglie al giorno.

Senza dimenticare che Heineken e i suoi concorrenti sono riusciti con successo a trasformare le loro birre in uno status symbol. Per esempio, lo slogan del marchio Mützig, di proprietà di Heineken, è «il gusto del successo». Così fa credere agli africani che, bevendo birre occidentali, faranno parte di una nuova classe media. La conseguenza di tutto questo è che molti spendono i loro guadagni comprando birra, invece di prodotti più utili».

Come lei sottolinea nel libro, è molto difficile giudicare il ruolo che le multinazionali hanno nello sviluppo in Africa. Da una parte creano lavoro, costruiscono infrastrutture, collaborano con le Ong. Dall’altra, invece, sono coinvolte con i governi locali, spesso dittature, e sembrano sottrarre risorse a questi paesi già in difficoltà. C’è una via d’uscita?

«Penso che le aziende, incluse le multinazionali, possono ricoprire un ruolo positivo in Africa. Ma è importante anche guardarle con occhio critico, senza sottovalutare i loro slogan.

Queste aziende cercano il profitto, e non c’è niente di male in questo, ma oggi, sempre più, vogliono convincerci che sono loro la soluzione per un mondo migliore. Vogliono farci credere che sono genuinamente preoccupate per l’ambiente e per l’umanità.

Per chi lavora per queste compagnie, può essere vero, ma un’azienda non è la stessa cosa della somma degli individui che ci lavorano. Risponde a delle sue dinamiche interne e, alla fine, si tratta sempre di generare profitti.

Quindi penso che i governi e le Ong non dovrebbero collaborare con loro, perché il ruolo dei governi e delle Ong è quello di stabilire le regole e di controllare che le aziende le rispettino.

Oggi questo non succede. In particolare, nei paesi in via di sviluppo, praticamente non esiste un sistema di controllo ed equilibrio.

Le multinazionali pagano i media locali perché scrivano storie di successo, e sono riuscite a convincere sia i governi che le Ong che siglare delle collaborazioni con loro per un obiettivo comune sia cruciale per il progresso di quei paesi. Penso che questo sia molto pericoloso.

Per fare solo un esempio che riguarda Heineken: l’azienda si è impegnata ad acquistare per 10 anni il 60% delle sue materie prime da produttori e agricoltori africani. A livello di pubbliche relazioni è stata un’incredibile storia di successo, e ha permesso a Heineken di ricevere aiuti sia dal governo tedesco che da quello americano. Ma i progetti agricoli sono falliti, e l’anno scorso Heineken ha comprato solo il 37% da fornitori locali, cioè meno di quello che acquistava all’inizio del progetto.

Normalmente nessuno va a controllare queste cose, e anche dopo che la storia è stata smascherata, l’azienda continua a presentarla come un successo».

Perché Heineken ha risposto alla sua inchiesta solo nel 2018, dopo l’uscita della seconda edizione? Forse perché sapeva che il libro sarebbe stato pubblicato in vari paesi del mondo e temeva per la propria reputazione? Ci sono state delle conseguenze per Heineken a seguito del libro?

«All’inizio Heineken aveva deciso di non cooperare con me in alcun modo. In realtà poteva essere una buona strategia, perché alcuni lettori avrebbero potuto pensare che i miei scritti fossero solo una parte della storia, anche se io ho presentato la versione dell’azienda attraverso interviste e documenti interni.

Invece per il secondo libro (giunto alla quinta edizione nei Paesi Bassi, nda), che è stato tradotto in diverse lingue, Heineken ha adottato una strategia più “seducente”. Sono stato invitato a una cena, la quale sicuramente si sarebbe tenuta in un ristorante di lusso di Amsterdam, ma io ho rifiutato, dicendo che avrei preferito prendere un caffè nella loro sede centrale.

Il libro ha avuto delle serie conseguenze per Heineken: una banca olandese ha deciso di disinvestire dall’azienda e il Fondo globale contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria, che ha il supporto anche della Bill & Melinda Gates foundation, ha sospeso la sua collaborazione».

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