Israele: Come si vive vicino a Gaza


La mia camera è un bunker

In Israele, chi abita lungo il confine con Gaza ha una vita particolare. Razzi e palloncini incendiari diventano «normalità». Così occorre attrezzarsi per non morire. Ma c’è una donna che vorrebbe tornare a quando gli abitanti dai due lati del muro si frequentavano. Un sogno o un futuro possibile?

Testo e foto di Valentina Tamborra

Il 2 gennaio 2019 l’esercito israeliano ha completato la barriera marina che separa Gaza da Israele, nella località di Zikim, a Nord di Gaza. Alta sei metri sopra il livello del mare e lunga 200 metri, è stata costruita su un terrapieno artificiale poggiato sul fondo marino, ed è dotata di sensori. Lo scopo della barriera è evitare che si possano scavare tunnel sotto il confine marino. Anche nel Nord di Israele, si sta ultimando un muro che separa il paese dal Libano. Lì sono stati cementati tunnel degli hezbollah, già noti all’intelligence israeliana da quattro anni.

A di là delle misure di sicurezza prese dall’esercito, come vivono le persone che ogni giorno hanno a che fare con la tensione di stare proprio sui confini?

Rifugi anti razzo

Abbiamo incontrato Adele Raemer, insegnante di scuola elementare, segnalata dal quotidiano Haaretz come una fra le dieci persone israeliane più significative del 2018.

Adele vive dal 1975 nel kibbutz Nirim, che dista poche centinaia di metri dal confine con la Striscia di Gaza.

È la fondatrice del gruppo «The movement for the future of western Negev» (Il movimento per il futuro del Negev occidentale) che si occupa essenzialmente dell’area del Negev occidentale, ovvero quella direttamente confinante con Gaza. È la zona dove lo stato ha imposto la costruzione di una «safe room» (camera di sicurezza), in ogni casa. Dal 2011 infatti, per legge, è obbligatorio per tutti coloro i quali vivono entro 4 km dalla Striscia di Gaza, avere una stanza bunker.

Adele ha creato su google maps (programma che permette la visualizzazione geografica, ndr) una «mappa dei fuochi», ovvero degli attacchi di vario tipo, che colpiscono Israele: la aggiorna quotidianamente avvalendosi della collaborazione di tutti gli aderenti al gruppo che, come lei, vivono sul confine. La mappa su google è attiva dall’aprile 2018 e a oggi partecipano alla segnalazione anche persone che ufficialmente non dovrebbero esporsi, come pompieri o esercito.

L’azione di Adele non è passata inosservata alle Nazioni Unite, che lo scorso novembre l’ha chiamata a Ginevra a raccontare ciò che fa, dato l’enorme riscontro che il suo lavoro stava ottenendo su strumenti social quali facebook, sul quale gestisce la pagina «Living on the border with Gaza» (vivere alla frontiera con Gaza).

Una vita sotto tensione

Il suo obiettivo non è però promuovere se stessa o ciò che fa: Adele infatti, vuole solo raccontare lo stato di perenne tensione in cui si vive giorno per giorno a pochi chilometri da Gaza. La sua stessa camera da letto, infatti, è stata colpita da un mortaio pochi anni fa, e lei è viva per miracolo.

Nel kibbutz dove vive, tutti i centri diurni per i bambini, le scuole, sono state fortificate così da renderle dei veri e propri bunker in caso di escalation degli attacchi.

I bunker comunque nulla possono in caso di arrivo improvviso di palloncini incendiari, i quali, se per un adulto non sono mortali, possono provocare gravissime lesioni ai bambini. Si tratta di semplici palloncini, come quelli utilizzati alle feste. Ad essi viene collegata una fialetta di liquido esplosivo che, quando il palloncino tocca terra o viene preso in mano, prende fuoco.

«Ho creato la mappa perché volevo che le persone capissero cosa significa vivere in questa situazione: da entrambe le parti soffriamo, abbiamo paura e la gente non immagina neppure lontanamente cosa significhi essere in uno stato di perenne tensione».

Un missile in camera

Adele ci racconta di quanto accadde circa dieci anni fa, in novembre, un mese prima che suo marito si suicidasse.

Non esistevano ancora le safe room e un colpo di mortaio colpì la loro camera da letto. Adele e il marito si salvarono solo perché in quel momento erano in cucina.

Nel ristrutturare la stanza, Adele scelse di lasciare visibile un segno sullo stipite della porta, là dove il mortaio aveva terminato la sua corsa: «Voglio ricordarmi quanto sono stata fortunata, voglio ricordarmi ogni giorno quanto è bello essere vivi».

Oggi quella camera da letto è diventata un bunker: la finestra è stata cementata, le mura sono spesse il doppio di quelle delle altre stanze.

Stanze prive di serratura però, in quanto in caso di bombardamento è necessario poter intervenire velocemente per estrarre le persone.

Adele ci dice che non è una safe room a far sentire al sicuro chi vive al confine: uno dei timori più forti è quello delle infiltrazioni di estranei. Mi racconta che prima del muro era normale frequentarsi, cenare insieme, condividere una quotidianità senza barriere. Oggi invece, con l’odio e il livore che c’è stato e viene alimentato giorno per giorno, i «vicini» sono persone da temere per entrambe le parti. Così l’idea che qualcuno possa superare il muro, il filo spinato, ed entrare nel kibbutz è la cosa che più atterrisce chi vive sul confine.

Intrusioni, palloncini incendiari, missili: convivere ogni giorno con la paura di sentire improvvisamente una voce femminile registrata che dà l’allarme: «Tzeva adom…tzeva adom…tzeva adom» (colore rosso…colore rosso…colore rosso). Una voce che scandisce quel lasso di tempo brevissimo nel quale puoi rifugiarti nella tua safe room prima che si senta l’esplosione. Dai 4 ai 10 secondi nei quali, se stai dormendo, devi svegliarti, realizzare cosa accade e correre il più velocemente possibile verso la stanza fortificata.

Quando si stava insieme

Nonostante tutto questo, Adele continua a portare avanti la sua idea di coesione: vorrebbe tornare indietro, a quando israeliani e palestinesi si mescolavano, lavoravano insieme. Anche casa sua è stata costruita da palestinesi. Dopo l’ultimo conflitto del 2014, è stato difficile mantenere i contatti, ma Adele continua a comunicare con alcuni giornalisti di Gaza e sta tentando di far arrivare degli strumenti musicali alle scuole elementari della Striscia. «La musica può unire. Non mi illudo, non può abbattere confini ma può forse aprire un dialogo». E sono in molti a pensarla come lei: chi vive a ridosso della Striscia infatti, spera solo in una soluzione di pace.

La costituzione di due stati, Israele e Palestina, non spaventa Adele. A spaventarla è il gioco di potere fra partiti politici dall’una e dall’altra parte del muro. Giochi di potere che non tengono conto delle persone coinvolte, di chi ogni giorno vive nella paura.

Prima di salutarci Adele mi porta a vedere un luogo, proprio accanto alla rete che separa il kibbutz dalla linea di terra che porta a Gaza. Qui, a ridosso del confine, c’è un albero con una targa in pietra: è una lapide. È stata posta a ricordo dei due uomini, due padri di famiglia, morti nel 2014 a causa di un razzo qassam sparato da Gaza. Si erano arrampicati su un palo della luce precedentemente colpito da un missile per ripristinarlo e riportare la luce nel kibbutz.

«È perché non accada più una cosa come questa che continuo il mio lavoro, perché si smetta di morire in modo così stupido: segnalo le esplosioni, i palloncini incendiari, tutto ciò che accade qui a ridosso della Striscia, non per indicare “un colpevole” ma perché si capisca che non è più possibile vivere così. È necessaria la pace, aneliamo tutti la pace. E il silenzio che ci circonda va rotto: solo noi, persone comuni, possiamo farlo, continuando a parlare, a lottare, a dire “ci siamo”».

Il muezzin inizia a cantare: il vento di gennaio porta la sua voce fino a noi. Sono due mondi così vicini che un semplice canto raggiunge e scavalca il muro, le reti, il filo spinato e pervade l’aria.Dal fondo della strada vediamo arrivare tre bambine: avranno dieci o undici anni. Salutano Adele, la abbracciano. Sono sue allieve.

I sorrisi sul volto, il kibbutz che si anima, le persone a passeggio e il sole che inizia a fare capolino da dietro le nubi. È un giorno come tanti, una quotidianità che convive con l’inaspettato, con la paura, cercando però di non farsi sopraffare.

Il muezzin ha finito il suo canto, per Adele è ora di rientrare a scuola, i ragazzi la aspettano.

Nell’aria fredda di gennaio ci salutiamo: «Ciò che accade a Gaza è orribile, ma anche qui non è un pic nic».

Valentina Tamborra

 

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