Trump e Brexit, effetti sulla cooperazione

AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO

testo di Chiara Giovetti |


A un anno e mezzo dall’insediamento di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti, la comunità internazionale guarda con preoccupazione alle dichiarazioni della Casa Bianca circa le intenzioni di tagliare la spesa per l’aiuto allo sviluppo. E tiene d’occhio i possibili effetti della Brexit.

«Ci sono nazioni che prendono da noi miliardi di dollari e poi ci votano contro. Lasciate che facciano, risparmieremo un sacco di soldi. Non ci importa»@. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato lo scorso dicembre il voto in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dichiarava nulla e priva di effetto la decisione della Casa Bianca di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

Le dichiarazioni del presidente hanno fatto seguito a quelle di Nikki Haley, ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite che, dopo aver posto il veto – lei sola su quindici votanti – all’adozione della risoluzione contro Trump in Consiglio di sicurezza, non aveva esitato a commentare: «Ciò a cui abbiamo assistito qui oggi è un insulto. Non lo dimenticheremo»@.

E aveva poi affidato a Twitter una ulteriore precisazione: «Ci segneremo i nomi dei paesi che prima ricevono il nostro aiuto e poi votano contro di noi»@.

Queste frasi di Trump e della Haley illustrano una delle linee che l’aiuto allo sviluppo statunitense pare voler seguire, quella di aiutare gli amici. In un documento riservato visionato dalla rivista Foreign policy, lo staff di Haley cita tre progetti finanziati dagli Stati Uniti che «sarebbe il caso di rivedere alla luce dello scarso supporto alle posizioni statunitensi in sede Onu» da parte dei paesi beneficiari. Si tratta di un progetto di formazione professionale in Zimbabwe da 3,1 milioni di dollari, di un programma di lotta al cambiamento climatico in Vietnam (6,6 milioni) e della costruzione di una scuola in Ghana (4,9 milioni). I tre stati, che nel 2016 dagli Usa hanno ricevuto complessivamente 580 milioni di dollari, hanno appoggiato Washington rispettivamente nel 54, 38 e 19 per cento dei casi. Troppo poco per essere considerati veri amici.

C’è poi una seconda linea che l’amministrazione statunitense sembra voler imporre alla propria cooperazione allo sviluppo, sia bilaterale che multilaterale: quella di tagliare drasticamente i fondi. Trump aveva già portato un affondo lo scorso settembre nel suo primo discorso alle Nazioni Unite: «Questa organizzazione», aveva affermato, «si è troppo spesso concentrata non sui risultati ma sulla burocrazia e sulle procedure». E, continuava, «in politica estera noi ribadiamo il principio fondante della sovranità. Il primo dovere del nostro governo è verso il nostro popolo, i nostri cittadini – per soddisfarne i bisogni, garantirne la sicurezza, preservarne i diritti e difenderne i valori»@.

A dicembre, ci ha pensato ancora una volta Nikki Haley a dare sostanza alle parole del presidente: «Le inefficienze e le spese eccessive delle Nazioni Unite sono note», ha affermato in un comunicato stampa, aggiungendo: «Non permetteremo più che si approfitti della generosità del popolo americano» o che il suo contributo venga usato in modo incontrollato. Per questo, annuncia Haley, gli Usa hanno negoziato una diminuzione del proprio contributo all’Onu di oltre 285 milioni di dollari, riducendo inoltre «le attività di gestione e di supporto gonfiate» e «instillando disciplina e responsabilità in tutto il sistema delle Nazioni Unite».

Ad alleggerire il clima non ha certo contribuito l’uscita di Trump  – mai confermata ma nemmeno smentita – in cui il presidente ha chiamato Haiti, El Salvador e alcuni Paesi africani «postacci» (o meglio, shitholes, la cui traduzione letterale è decisamente meno elegante di quella usata qui). Ma la pietra tombale sull’aiuto allo sviluppo è la decisione di tagliare quasi del 30% le risorse per Dipartimento di stato e Agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid), che sono appunto i principali enti dell’amministrazione statunitense attivi nella cooperazione.

Distribuzione di aiuti Usaid ad Haiti – AFP PHOTO / JEWEL SAMAD

Le richieste di Trump e la reazione del Congresso

Gli Stati Uniti sono il più grande donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo in termini assoluti, con quasi 34 miliardi di dollari su 143 del totale dei Paesi membri dell’Ocse (dati 2016). Come percentuale sul reddito nazionale lordo, tuttavia, l’aiuto statunitense è pari allo 0,18%, meno dell’Italia (0,26%) e molto meno del paese più virtuoso, la Norvegia, che investe in aiuto pubblico allo sviluppo l’1,11%, cioè anche più di quello 0,7% che sarebbe la soglia fissata nel 1970 dalle Nazioni Unite come obiettivo al quale tutti gli stati donatori dovrebbero tendere@.

Sugli oltre 4 mila miliardi del bilancio federale, spiega George Ingram del centro di ricerca Brookings, la quota riservata all’aiuto estero è pari all’1%@. In media, gli americani erroneamente pensano che quella quota arrivi addirittura al 25% anche se, puntualizza sempre la Brookings, la ragione dell’equivoco è in gran parte da ricercarsi nel fatto che per «aiuto estero» molti intendono anche la spesa militare@.

I primi cinque paesi toccati dall’aiuto estero statunitense (foreign aid, una categoria che non coincide esattamente con l’aiuto pubblico allo sviluppo monitorato dall’Ocse) sono Israele (3,1 miliardi), Egitto (1,39 miliardi), Giordania (1 miliardo), Afghanistan (783 milioni) e Kenya (639 milioni)@.

Nel 2017 il budget proposto da Trump per il 2018 prevedeva 25,6 miliardi di dollari per finanziare il Dipartimento di stato e Usaid, cioè una riduzione dei fondi ai due enti pari al 28%. Ma, osserva la rivista on line Quartz, confrontando la richiesta del presidente con quanto effettivamente approvato dal Congresso, il taglio di fondi risulta essere stato solo di mezzo punto percentuale, una cifra lontanissima dalla proposta dello Studio ovale. Ecco perché, continua Quartz, è prevedibile che la stessa cosa si verifichi anche quest’anno, nonostante lo scorso febbraio la Casa Bianca abbia chiesto di nuovo una riduzione simile (30%) dei fondi destinati a Usaid e Dipartimento di stato.

«Una forte coalizione bipartisan», ha dichiarato alla rivista Politico il repubblicano Ed Royce, che presiede il Comitato affari esteri della Camera dei rappresentanti, «ha già bloccato una volta questo tipo di tagli che avrebbero messo a rischio la nostra sicurezza nazionale. Quest’anno ci attiveremo di nuovo». La «draconiana» proposta di Trump, gli fa eco il collega democratico Eliot Engel, sarà «già morta al suo arrivo alla Camera»@.

La nave Liberty Grace noleggiata dal World Food Program (WFP) nel porto di Pot Sudan carica di cibo donato da Usaid –  AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Tagli effettivi

Pur non avendo raggiunto l’ampiezza auspicata da Trump, una serie di tagli ci sono effettivamente stati. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), ad esempio, riceverà quest’anno dagli Stati Uniti solo 60 milioni di dollari invece dei 364 dello scorso anno. Il commissario generale di Unrwa, lo svizzero Pierre Krähenbühl, ha dichiarato all’agenzia Reuters che 525 mila bambine e bambini in 700 scuole gestite dall’agenzia potrebbero essere colpiti dal taglio dei fondi e che anche l’accesso dei palestinesi all’assistenza sanitaria di base è ora a rischio@. Inoltre, il provvedimento rischia di avere un impatto negativo anche sulla sicurezza della regione. «Se volete chiederci come facciamo a evitare che i giovani palestinesi si radicalizzino, la risposta non è tagliare 300 milioni di dollari dei nostri fondi», ha detto Krähenbühl al The Guardian@.

A sottolineare lo stesso rischio di instabilità e conflitto era stata nel febbraio del 2017 una lettera@ firmata da 120 generali e ammiragli statunitensi a riposo e diffusa attraverso la Us Global Leadership Coalition, una organizzazione no-profit con sede a Washington composta da aziende e Ong. «Il nostro servizio in uniforme ci ha insegnato che molte delle crisi che la nostra nazione affronta non hanno solo una soluzione politica», si legge nella lettera, che sottolinea anche quanto, in un mondo con 65 milioni di sfollati e grandi flussi di rifugiati, le agenzie per lo sviluppo siano «fondamentali nel prevenire il conflitto e nel limitare la necessità di mettere a rischio le vite dei nostri uomini e donne in uniforme». Gli alti ufficiali citano il generale James Mattis, l’attuale segretario della Difesa di Trump, che durante un’audizione al Senato nel 2013 disse@: «Se voi non finanziate pienamente il Dipartimento di stato, io alla fine sarò costretto a comprare più munizioni». Le forze armate, conclude la lettera, guideranno la lotta al terrorismo sul campo di battaglia, ma avranno bisogno di partner civili forti nella battaglia contro gli elementi che favoriscono l’estremismo: la mancanza di opportunità, l’insicurezza, l’ingiustizia e la disperazione».

Sulla stessa lunghezza d’onda sembra trovarsi Marcela Escobari, studiosa che collabora con Brookings, che cerca di controbattere all’affermazione con cui il Direttore dell’ufficio Gestione e Budget dell’amministrazione Trump, Mick Mulvaney, ha giustificato i tagli: «Per finanziare l’aiuto dovrei spiegare perché questa spesa ha un senso per una famiglia che vive a Grand Rapids, Michigan».

«Ecco che cosa direi a quella famiglia», risponde Escobari, che ha lavorato per vent’anni nello sviluppo ed è esperta in particolare di America Centrale: «quando i cartelli della droga sono in grado di controllare i governi locali, il 95 per cento dei crimini in quei paesi rimangono impuniti e i criminali possono trasportare droga negli Usa più facilmente. L’instabilità nella regione, inoltre, genera flussi migratori verso gli Stati Uniti e questi flussi sono composti specialmente da minori non accompagnati». Viceversa, una regione stabile e sicura continuerà a importare prodotti statunitensi. «Un calcolo approssimativo», continua Escobari, «mostra che gli Usa spendono fra i 29 mila e i 52 mila dollari per ogni migrante detenuto alla frontiera. Con quella cifra sarebbe possibile finanziare in America Centrale istituzioni che forniscano formazione professionale e uno spazio per il dopo scuola in grado di proteggere centinaia di adolescenti in quartieri dove la criminalità è più diffusa».

Popa d’acqua allestita in Sud Sudan dall’Usaid –  AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

L’aiuto allo sviluppo dopo la Brexit

Altro aspetto che la comunità internazionale sta osservando e cercando di prevedere è quello degli effetti della Brexit sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps). Mentre l’Unione Europea dovrà fare i conti con la dipartita di un membro che nel 2016 ha speso 13,4 miliardi di sterline in Aiuto per lo sviluppo (Aps) – cioè circa un quinto del totale Ue e il secondo maggior contributo a livello globale dopo gli Usa – l’effettiva uscita dall’Unione rimetterà a disposizione di Londra circa un miliardo e mezzo di sterline che sinora ha versato al Fondo europeo per lo sviluppo (Edf).

Bond, una rete di circa 450 organizzazioni della società civile britannica, in un articolo dello scorso agosto ha individuato tre tendenze che la Brexit potrebbe accelerare.

  • La prima è lo spostamento delle risorse dal DfID (il dipartimento per lo sviluppo internazionale) ad altri dipartimenti, con particolare attenzione a quelli che promuovono un ruolo più attivo del settore privato nella cooperazione.
  • La seconda è un possibile aumento del volume di Aps dedicato agli investimenti, cioè a progetti di aiuto al commercio, come infrastrutture e rafforzamento delle capacità dal lato dell’offerta di cui i paesi in via di sviluppo hanno bisogno per connettersi ai mercati regionali e globali.
  • La terza tendenza, infine, potrebbe essere uno spostamento verso il basso dei temi dello sviluppo nell’agenda politica@.

Resta solido l’impegno del Regno Unito a mantenere l’aiuto pubblico allo sviluppo allo 0,7%, anche se il primo ministro britannico Theresa May, nel confermare questo, ha anche precisato che «il Governo dovrà guardare a come il denaro verrà speso e assicurarsi che saremo in grado di spenderlo nel modo più efficace possibile».

Resta da vedere se e quanto questo 0,7% varierà in valore assoluto. All’indomani del referendum che vide la vittoria di Leave e un immediato crollo della sterlina, il direttore dell’Overseas Development Institute, Kevin Watkins, aveva commentato al The Guardian: «Se il Regno Unito perde un punto percentuale all’anno in crescita, il che è più o meno in linea con la maggior parte delle previsioni, ci saranno implicazioni per il valore dello 0,7%, il che a sua volta avrà ripercussione sui finanziamenti per gli Obiettivi di sviluppo sostenibile».

Chiara Giovetti

 

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