Editoriale: Ciao, non solo un saluto

Gigi Anataloni

Ciao
Titolo non proprio originale, lo ammetto. Ciao è un saluto facile, immediato, familiare, informale, perfino un po’ trasandato e quasi universale. Nelle sue variazioni è diventato un saluto internazionale che si trova bene sulle bocche di giovani e adulti in Francia e in Russia, in Vietnam come in Brasile e in tanti altri paesi del mondo, anche dove si parla inglese. Usato originariamente nel Veneto, nell’Ottocento ha conquistato la Lombardia e poi anche la Toscana, diventando il saluto informale comune di tutta l’Italia del Novecento. Ma se i Veneti di un tempo (forse) ne conoscevano bene il significato, abituati com’erano a togliersi il cappello di fronte ai signori quando li salutavano, dubito che i giovani e meno giovani che lo usano con disinvoltura in ogni angolo del mondo siano preoccupati di saperne il significato etimologico. Se questo saluto fosse davvero capito e messo in pratica alla lettera, potrebbe innescare la più grande rivoluzione pacifica del pianeta e cambiare le relazioni tra persone e popoli. Sì, proprio il semplice «ciao». Ma andiamo con ordine.
Ciao «deriva infatti dal termine veneto (più specificamente veneziano) s’ciao, proveniente dal tardolatino sclavus, traducibile come “[sono suo] schiavo”. Si trattava di un saluto assolutamente reverenziale». Così su Wikipedia e, similmente, su la Treccani, su Focus e su altri dizionari facilmente consultabili online. Ovvio che in origine era il saluto dei servi ai padroni, soprattutto i grandi proprietari terrieri e latifondisti che controllavano gran parte delle terre di tutta Europa fin dai tempi dei Romani. Retaggio di tempi in cui il fattore, longa manus del padrone, poteva entrare nelle case dei contadini e controllare quello che mangiavano per verificare che non ci fossero cibi non autorizzati e riservati soltanto ai signori. Era il saluto da servo a padrone, ma il tempo e l’uso l’hanno modificato e reso patrimonio comune. Nessuno oggi ne ricorda la dimensione servile, ma solo la familiarità, la gioiosità e l’uguaglianza tra persone che esso esprime.
Eppure il significato che questo saluto nasconde è davvero rivoluzionario. Immaginate solo per un momento che quello che si dice con la bocca (ciao = «sono suo/tuo schiavo») esprima davvero quello che si porta nel cuore, che davvero voglia dire: «Mi metto al tuo servizio» e, quindi, non penso ai miei interessi ma faccio tutto quello che è necessario per la tua felicità, il tuo benessere, la tua pace e la tua gioia. E che chi risponde al saluto con il suo «ciao» abbia gli stessi sentimenti e sia pronto ad aiutare, sostenere, accogliere, «servire» la persona che lo ha salutato. Immaginate un «ciao (= sono tuo servo)» che non sia di maniera né di opportunità, libero da timore e dipendenza, non corrotto da relazioni di tipo mafioso. Un «ciao» che esprima rapporti nuovi tra le persone, nei quali ognuno metta il benessere e la felicità dell’altro al centro. Un «ciao» che faccia sentire benvenuta, accolta, rispettata e, perché no?, servita la persona che è salutata.
Ve la vedete la scena di un qualsiasi ufficio pubblico dove l’impiegato/funzionario di turno ti dice «ciao» e veramente ti guarda e ti serve come una persona e non un numero o un rompiscatole? Un avvocato che dicendoti «ciao» pensa «come posso aiutare questa persona?» e non «quanto ci posso guadagnare?». Un prete che ti vede con gli occhi di Gesù e non con quelli del diritto canonico? I vicini di casa che non aumentino i divieti e i cancelli, ma dicano veramente «ciao» ai vivaci figli del vicino che hanno voglia di giocare in cortile e sappiano gioire della loro vitalità sbarazzina senza appellarsi ai regolamenti condominiali? Che succederebbe se i politici italiani incontrando la gente dicessero «ciao» perché vogliono fare un reale servizio al bene comune, con speciale attenzione a chi è più debole nella società? E un G20 del «ciao», nel quale i vari Trump, Putin, Xi, Merkel, May e tutti gli altri non pensino ciascuno a portare a casa il massimo vantaggio per la propria popolarità e il proprio paese, ma vogliano essere servi dell’umanità, della pace e della giustizia? Una pazzia?
Qualcuno, quasi duemila anni fa, ha osato sognare un mondo così. Nella cena in cui ha salutato per l’ultima volta i suoi amici, si è tolto il vestito della festa, ha indossato un grembiule da servo e si è messo a lavare i loro piedi. Alle loro reazioni scandalizzate ha detto che quello che lui faceva non era un’eccezione, ma mostrava quello che doveva essere il loro comportamento normale, quotidiano: «Lavarsi i piedi a vicenda» (Gv 13,14), «diventare servi gli uni degli altri» (cfr. Mc 9,35), come ha fatto lui che «non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mt 20,28). Facendosi servo Gesù ha rivelato quello che è il vero volto di Dio, il volto dell’Amore. E ha anche mostrato agli uomini cosa significa essere davvero uomini, figli di quel Dio che è Amore, che è Misericordia.
Un sogno? A tutti un’estate ricca di ciao!

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Gigi Anataloni
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