Ben tornata, Arabia felix

Premessa

Fino a 40 anni fa la costa araba che si affacciava sul Golfo Persico era divisa da sette minuscoli regni abitati da 44 diverse tribù il cui unico comune denominatore era la lingua e il senso d’appartenenza alla umma, la comunità islamica. Piccoli stati, divisi, poverissimi, senza alcuna risorsa se non la sabbia; 83.600 kmq di deserto che per 1.318 km si tuffavano nelle acque del Golfo Persico. Lungo la sabkha, la fascia costiera prospiciente il mare, sorgevano piccoli porticcioli, abitati per lo più da pescatori e commercianti che, con i loro piccoli dhows, veleggiavano verso i paesi limitrofi trasportando merci di poco valore.
Poi, nel 1971, uno sceicco più intraprendente e lungimirante di tutti, Zayed bin Sultan Al Nahyan, propose ad altri stati di formare una federazione con il suo regno, Abu Dhabi; così, oltre a garantirsi l’indipendenza dall’impero britannico, avrebbero ottenuto forza politica ed economica sufficiente per ritagliarsi uno spazio tra i giganti arabi. Cosa potevano fare, infatti, quelle minuscole monarchie sottopopolate, povere, senza una storia e prive di una cultura specifica, di fronte a nazioni come Arabia Saudita, Iran, Iraq, Yemen? Da sole sarebbero state sottomesse all’uno o all’altro stato; insieme, forse, sarebbero potute sopravvivere. E così il 2 dicembre 1971, nel Guesthouse Palace di Dubai, Abu Dhabi, Dubai, al-Fujairah, Sharjah, Umm al-Quawain e Ajman siglarono la Costituzione che sanciva la nascita degli Emirati Arabi Uniti; Ras al-Khaymah decise di unirsi al progetto l’anno seguente. Qatar e Bahrein, anche loro invitati ad unirsi alla neonata nazione dopo aver condiviso il periodo coloniale britannico, preferirono seguire una loro strada.
Da allora, l’ascesa economica dei sette nani, trascinata dall’estrazione del petrolio, divenne inarrestabile, soprattutto dopo il conflitto dello Yom Kippur, quando gli stati arabi decisero di utilizzare il petrolio come arma contro i paesi occidentali considerati alleati di Israele: il 16 ottobre 1973 l’Opec (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) decise di aumentare il prezzo del petrolio del 70%. In pochi mesi, grazie a quello che venne soprannominato «l’oro nero», i vari sceicchi del mondo arabo si trovarono le casse ricolme di dollari.
Identico fenomeno è avvenuto nel resto della penisola arabica. In grandissima parte desertica, con una popolazione composta in maggioranza da tribù beduine nomadi o semi-nomadi e con una struttura sociale di tipo tribale e feudale, questa regione era rimasta per secoli ai margini della scena mondiale, fino a una cinquantina di anni fa, quando in seguito alla scoperta e allo sfruttamento del petrolio è ritornata ad essere l’Arabia Felix di cui favoleggiavano gli antichi romani. Da sola, l’Arabia Saudita possiede il 24% delle riserve petrolifere mondiali; estrae ogni giorno 35 milioni di barili di petrolio, esporta greggio per migliaia di miliardi di dollari, con un surplus finanziario di centinaia di miliardi da investire in patria e all’estero.
In un paio di generazioni, la Penisola è passata dalla tenda al grattacielo: oggi, più del 95% della popolazione è sedentarizzato; ma sotto l’aspetto sociale mantiene un piede nel Medio Evo e con l’altro cerca uno stabile appoggio nel XXI secolo.
Il boom petrolifero sta cambiando la vita di queste popolazioni sia sotto l’aspetto economico che sociale, promuovendo fermenti di democratizzazione, riforme del sistema scolastico e perfino la ricerca di riforme costituzionali. Per spingere nell’era modea il piede rimasto indietro, re, emiri, sultani dei paesi che costituiscono il Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, Emirati, Qatar e Oman) moltiplicano le infrastrutture in settori economici e sociali: raffinerie, oleodotti, centrali elettriche, strade, telecomunicazioni, scuole, università, edilizia, turismo, finanza… a volte con progetti avveniristici e spettacolari nelle città capitali. Perfino il deserto sta fiorendo, almeno nelle città.
Tali progetti, insieme a quelli specifici dell’industria petrolifera, hanno obbligato questi paesi a importare cervelli e manodopera dall’estero: sono migliaia di contractor stranieri e milioni di lavoratori provenienti dall’Asia, da altri paesi arabi, alcuni dall’Africa.
Si calcola che tra questi immigrati ci siano oltre 4 milioni di cristiani, 3 dei quali cattolici. «È curioso che, mentre in Europa arrivano immigrati musulmani, nella penisola arabica, culla dell’islam, dopo secoli di assenza sono tornati tanti cristiani, più numerosi che nel resto del Medio Oriente» afferma mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale.

Il cristianesimo arrivò nella penisola arabica cinque secoli prima dell’islam, quando i missionari persiani cominciarono a spargere il seme del vangelo lungo la costa del Golfo Persico, fondando le prime comunità cristiane nel Kuwait; in seguito l’evangelizzazione avanzò sempre più verso sud, come testimoniano resti di chiese in vari luoghi delle coste del Golfo. Già nel III secolo esisteva un’eparchia (diocesi) nelle isole Barhein; a partire dal IV secolo tutta l’area appariva come centro principale della Chiesa orientale, la cui influenza si estendeva fino alle coste più meridionali e alle numerose isole del Golfo.
Con la nascita, l’espansione e la dominazione dell’islam, il cristianesimo fu praticamente spazzato via da tutta la penisola, per ritornare timidamente 12 secoli dopo Maometto, nel 1841, quando i Servi di Maria aprirono una missione ad Aden e, superate molte difficoltà iniziali, estesero la loro azione nello Yemen e nel Somaliland. Nel 1888 la missione fu staccata dal vicariato apostolico dei Galla (Etiopia) per ricavae il vicariato apostolico di Aden, ribattezzato l’anno seguente come vicariato apostolico d’Arabia, che fu poi affidato ai cappuccini di Firenze (1916). Nel 1973 la sede del vicariato fu trasferita dallo Yemen ad Abu Dabi negli Emirati Arabi. Nel 1953 una porzione dell’immenso territorio fu staccato per creare la prefettura apostolica del Kuwait, elevata l’anno seguente a vicariato.
Per equilibrare l’estensione tra i due vicariati, un decreto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, in vigore dal 31 maggio 2011, ha stabilito una nuova organizzazione territoriale e la modifica dei titoli: la giurisdizione su Bahrein, Qatar e Arabia Saudita è passata al vicariato del Kuwait, che ha preso il nome di «Vicariato apostolico dell’Arabia settentrionale», sotto la guida del vescovo comboniano mons. Camillo Ballin; Emirati Arabi, Oman e Yemen sono diventati «Vicariato apostolico dell’Arabia meridionale», sotto la giurisdizione del cappuccino svizzero mons. Paul Hinder. Entrambi i vicariati sono stati affidati all’ordine dei frati minori cappuccini.

    Piergiorgio Pescali e  Benedetto Bellesi     

Piergiorgio Pescali e Benedetto Bellesi

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