A tutto gas

Viaggio in uno dei paesi più repressivi del mondo

Dal 12 marzo 2010, dopo 13 anni di attesa, la Chiesa cattolica è ufficialmente
riconosciuta in Turkmenistan, paese di forti contraddizioni politiche, economiche e sociali. Dopo 21 anni di regime qualcosa sta cambiando, ma il rispetto dei diritti umani è ancora un miraggio.

Fino a 90 anni fa il Turkmenistan, nella sua forma attuale, non esisteva. Il suo territorio, 85% formato dal deserto del Karakum, non ha mai fatto storia, ma è passato da un impero all’altro via via che vi si accampavano gli eserciti in marcia verso territori più ricchi. La sua storia si è confusa per secoli con quella della potenza di tuo: achemenide, greco-battriana, partica, sasanide, araba, mongola, persiana, finché le tribù turkmene (o turcomanne) costellarono la regione di isole feudali, con relative roccaforti, e cominciarono a ingaggiare scaramucce con le altre tribù e, soprattutto, depredare e fare schiavi tra le carovane di passaggio sulla via della seta.
Quando cominciarono a rapire pure i russi, lo zar mandò le forze militari contro le tribù ormai incontrollabili, facendo anche migliaia di vittime tra i gruppi resistenti (1881), finché tutti i territori centroasiatici furono sottomessi alla Russia, sotto l’amministrazione speciale del Turkestan (1885). Dopo la rivoluzione russa, questi territori furono divisi in 5 repubbliche, con confini ben definiti: nasceva così la Repubblica Socialista Sovietica Turkmena (1924).
comunismo senza fine
Le politiche sovietiche volte a collettivizzare l’agricoltura, trasformare il territorio, bandire la religione, scatenarono resistenze e guerriglie, ma alla fine riuscirono a cancellare le tradizionali divisioni etniche, linguistiche e claniche dei turkmeni nomadi, costringendoli anche con la forza a diventare stanziali, per coltivare il cotone. Per espandere tale coltura, il deserto del Karakum divenne teatro di importanti opere d’irrigazione, una delle quali attraversa il Paese dal confine usbeco a quello iraniano.
Ma la vera fortuna del Turkmenistan è stata la scoperta di giacimenti di gas metano e petrolio, che hanno permesso alla Repubblica di diventare uno dei maggiori fornitori energetici della Russia.
Negli anni ’80, il Turkmenistan non fu sfiorato dai venti di cambiamento che soffiavano nelle altre repubbliche sovietiche. Nel 1989 un gruppo di intellettuali turkmeni tentarono di fondare un partito progressista e di opposizione democratica, il Fronte popolare Agzybirlik (unità), ma fu subito bandito dal Partito comunista turkmeno (Pct), guidato da Saparmyrat Niyazov.
Al potere dal 1985 fino alla morte (2006), Niyazov ha governato il Paese in puro stile sovietico; anzi, peggio. Dichiarata unilateralmente l’indipendenza dall’Urss (1991), per i turkmeni il comunismo ha cambiato solo pelle: il Partito sovietico è diventato «Partito democratico turkmeno» (Pdt); la Costituzione, varata nel 1992, ha accresciuto i poteri del capo di Stato e di Goveo. Il potere politico assoluto ha permesso a Niyazov d’impadronirsi anche di quello economico, accaparrandosi i proventi derivanti dall’estrazione del petrolio e gas naturale, di cui il Turkmenistan è quinto produttore mondiale. Disponendo di enormi finanze, il dittatore iniziò a progettare opere faraoniche e bizzarre e a plagiare letteralmente l’opinione pubblica, con promesse più che patealistiche: acqua, gas e luce gratis, benzina a prezzi stracciati, biglietti aerei per voli interni a circa 2 euro; gratuite anche istruzione, assistenza a partorienti e malati terminali.
Nel 1999, dopo un plebiscito, Niyazov fu «costretto» ad accettare la presidenza a vita; ma preferì farsi chiamare «Turkmenbashi», «padre e duce/guida dei turkmeni», mentre all’estero veniva accusato di essere «in preda a un delirio di onnipotenza da satrapo orientale».
Il culto della personalità del dittatore raggiunse il parossismo; nei suoi confronti, Stalin e Mao Tse Tung sembrano dei timidoni. Una serie di città sono state ribattezzate «Turkmenbashi», così pure aeroporti, numerose scuole; persino la montagna più alta del Paese e un meternorite caduto nel 1999 al confine con l’Uzbekistan portano il suo nome.
Il Paese fu letteralmente disseminato di statue e ritratti del dittatore e familiari; il suo volto cominciò a campeggiare su manifesti, banconote, bottiglie di vodka, scatole di tè, boccette di dopobarba… Cambiati i nomi dei mesi, gennaio si chiamò Turkmenbashi, aprile Gurbansoltan, nome di sua madre, usato per ribattezzare perfino il pane, ora chiamato: Gurbansoltanedzhe.
Per non sfigurare di fronte al «grande timoniere» dei cinesi, anche il «duce dei turkmeni» ha voluto scrivere il suo libretto, anzi un grosso libro in due volumi, intitolato Ruhnama (Libro dell’anima). Esso contiene i suoi precetti, il suo pensiero filosofico e folklore epico del suo popolo.
Per legge, il Ruhnama doveva essere accanto al Corano nelle moschee, in bella vista nelle librerie, scuole e uffici pubblici; tutti i cittadini dovevano impararlo pressoché a memoria; bisognava conoscerlo per superare il «test di moralità» per esercitare un pubblico impiego e per avere la patente di guida. Gli insegnanti devevano conoscerlo e diffonderlo, pena il licenziamento; giornalisti e studiosi erano invitati a scrivere periodicamente sui giornali elogi filologici dell’opera; i medici giuravano non su Ippocrate, ma su Turkmenbashi.
I «precetti» toccavano molti aspetti della vita quotidiana dei turkmeni: nessun uomo poteva portare la barba o capelli lunghi; vietata la musica registrata («uccide la nostra cultura» spiega), come pure opera e balletto; i cani erano banditi dalla capitale, Ashgabat, perché puzzano.
libertà religiosa cercasi
Bizzarrie e patealismo a parte, Niyazov è stato un despota tra i più oppressivi della storia: sotto di lui il Turkmenistan è diventato il terzo Stato al mondo con i più bassi livelli di libertà di stampa e di espressione, religiosa compresa: biblioteche e teatri rurali sono stati chiusi; oppositori politici incarcerati, esiliati o zittiti; giornalisti ridotti a impiegati statali; chiusi i canali televisivi privati; impedito l’accesso ai giornali stranieri.
Fin dall’indipendenza (1991) in Turkmenistan c’è stato un crescendo di attacchi contro i gruppi religiosi minoritari, da fare impallidire le purghe staliniane.
La Costituzione prevede la libertà di religione; ma il governo impone che ogni gruppo religioso sia registrato ufficialmente. Non esiste una religione di stato, ma un modesto risveglio islamico si è registrato dopo l’indipendenza, e il governo ha incorporato alcuni elementi della tradizione musulmana nei suoi sforzi di definire l’identità turkmena. Il governo dà qualche contributo per la costruzione di nuove moschee, quasi vuote eccetto durante il Ramadan.
Per ottenere la registrazione governativa, il gruppo religioso deve provare di essere composto da almeno 500 persone di età superiore ai 18 anni e residenti nella stessa città. Con tali requisiti possono ottenere il riconoscimento legale solo i musulmani sunniti (87% su 4,5 milioni di turkmeni) e i russi ortodossi (6,4%); le altre comunità religiose, pur presenti nel Paese, contano poche decine di fedeli e non possono radunarsi, fare proselitismo o distribuire materiale religioso.
Non è consentito neppure incontrarsi in case private: se vengono scoperti, e lo sono spesso, dato lo zelo della polizia di sicurezza, i partecipanti sono soggetti a multe e arresti amministrativi e accuse penali, che si traducono in carcerazioni, torture, deportazioni ed espulsioni, sequestri e distruzioni di proprietà.
L’accanimento si riversa soprattutto sui leaders dei gruppi cristiani, per spezzae la resistenza e forzarli a rinunciare alla fede o a lasciare il Paese. Alcuni predicatori evangelici sono stati costretti ad abiurare la propria fede e giurare sul Ruhnama, il libro spirituale di Niyazov.
Ma anche gli unici due gruppi religiosi riconosciuti dallo Stato sono soggetti a controllo, i musulmani soprattutto. Per impedire l’ingresso di movimenti islamici stranieri, il governo usa vari modi: vieta la distribuzione di materiale religioso islamico pubblicato fuori del Paese; paga lo stipendio al clero islamico e vieta l’insegnamento a certi imam; chiude scuole coraniche; seleziona e riduce al minimo i partecipanti ai pellegrinaggi alla Mecca.
La ragione di tale politica repressiva della libertà religiosa è spiegata chiaramente dall’ex ministro degli esteri turkmeno, Boris Shikhmuradov, rifugiatosi a Mosca perché in dissidio col regime: «Niyazov prende personalmente tutte le decisioni su ogni aspetto della vita del Paese, incluse le questioni religiose, sebbene egli non abbia alcuna idea di cos’è la religione. Egli non tollera alcun dissenso e si serve di servizi segreti e polizia di sicurezza per controllare il Paese».
nuovo corso?
Alla fine del 2006, il Turkmenbashi fu stroncato da un infarto. A sostituirlo fu chiamato il ministro della Sanità, Gurbanguly Berdymukhamedov, un dentista sopravvissuto alle numerose purghe del passato. Convocate le elezioni per febbraio 2007, egli sconfisse i cinque concorrenti, ottenendo l’89% dei voti. Era ovvio che, dopo 21 anni di lavaggio del cervello, la gente scegliesse un uomo dello stesso calibro e spessore del defunto leader.
Al momento dell’insediamento, il nuovo presidente fece molte promesse di cambiamento. Per cominciare ha tolto dall’inno nazionale tutti i riferimenti a Niyazov, ha rimosso il suo libro (Ruhnama) da edifici pubblici e moschee, moltre statue e ritratti da tutto il paese, ha cancellato dai muri le sue scritte; gli impiegati pubblici non furono più obbligati a studiare a memoria i suoi precetti.
Di fatto, però, Gurbanguly Berdymukhamedov ha cercato di stabilire una nuova forma di culto della personalità presidenziale, pur rimuovendo dalla sua persona ogni sfumatura religiosa. Statue, ritratti, scritte del passato dittatore sono ora rimpiazzati con immagini e poster dell’attuale presidente. Agenti dell’amministrazione presidenziale vendono alle pubbliche istituzioni (scuole comprese) i suoi libri di medicina, di storia della sua famiglia e sui cavalli akhal-teke.
Ha liberato una dozzina di prigionieri politici; ha istituito un paio di commissioni per studiare la riforma delle leggi del Paese riguardanti i diritti umani. Ma i rapporti di agenzie inteazionali esprimono diverse preoccupazioni circa i rischi individuali dei cittadini in Turkmenistan sia a causa di sparizioni forzate sia soprattutto per un ferreo controllo dei media che porta alla repressione del dissenso.
«Tutti gli organi di informazione, sia di stampa che elettronici, sono rimasti sotto il controllo statale. Gioalisti che lavorano con media stranieri indipendenti sono stati vessati dalla polizia e dai servizi di sicurezza nazionale (Rapporto Amnesty 2009). Human Right Watch, nell’aggioamento riguardante il 2009, afferma che il governo «ha reso ancora più dura la repressione in un Paese già molto repressivo e autoritario». Nell’indice mondiale della libertà di stampa, il Turkmenistan rimane al terzultimo posto, prima della Corea del Nord e della Birmania.
Per rompere l’isolamento in cui era piombato il Paese negli ultimi due decenni, Berdymukhamedov ha allentato parecchie restrizioni sulla libertà di movimento e di religione. Lui stesso, nel suo primo viaggio all’estero si è recato in Arabia Saudita, per incontrare i monarchi e fare il suo pellegrinaggio alla Mecca.
Nel rapporto all’Onu del gennaio 2010, il governo turkmeno afferma di aver registrato 123 nuovi gruppi religiosi in tutto il Paese: di essi 100 sono musulmani sunniti e sciiti, 13 russi ortodossi; gli altri 10 includono battisti, pentecostali, avventisti, evangelici, Baha’i, Hare Krishna.
Lo stesso rapporto, tuttavia, ribadisce il bando delle attività dei gruppi non registrati, la proibizione per tutti i gruppi, compresi quelli approvati, di pubblicare e importare materiale religioso; sono riconfermate altre norme invasive nella vita delle singole comunità, come ispezioni improvvise e controlli sugli aiuti provenienti dall’estero.
chiesa cattolica  riconosciuta
Fino a pochi mesi fa, ai cattolici era consentito di celebrare e svolgere attività religiose solo nel territorio diplomatico della nunziatura di Ashgabat. Il 12 marzo 2010, il Ministero della Giustizia turkmeno li ha ufficialmente riconosciuti come «Chiesa cattolica romana in Turkmenistan», nonostante la comunità non abbia una guida di cittadinanza turkmena, come richiede la legge.
L’attesa di questa registrazione durava da 13 anni, da quando fu eretta la «Missione sui iuris del Turkmenistan», nel 1997, staccata dalla giurisdizione dell’amministratore apostolico per il Kazakistan e affidata a padre Andrzej Madej e a un altro confratello, Oblati di Maria Immacolata.
Entrambi erano entrati nel Paese con status diplomatico, come rappresentanti dello Stato Vaticano. D’ora in poi la Chiesa cattolica ha una «presenza pubblica» ufficiale, con tutti i benefici che questo implica, a livello giuridico e a livello pastorale.
La Chiesa cattolica conta un centinaio di battezzati, in maggioranza di etnia polacca e tedesca, altrettanti catecumeni e un gruppo di «simpatizzanti della fede cristiana»; la maggior parte di essi risiede nella capitale; alcune famiglie sono a Turkmenbashy, a Mary e in altre città e villaggi. Superiore della missione è padre Andrzej, coadiuvato da altri due missionari Oblati.
Il Turkmenistan, come le altre repubbliche dell’Asia centrale, è una terra di «prima evangelizzazione», con una comunità piccolissima, ma già stanno nascendo le prime vocazioni: una giovane è entrata in una comunità religiosa in Polonia; un’altra in un carmelo a Kiev; un giovane è nella famiglia degli Oblati; altri stanno facendo un cammino di discernimento vocazionale.
Le speranze per il futuro della missione sono buone: la Chiesa riscuote forti simpatie tra la popolazione, le cui tradizioni islamiche sono state indebolite dal processo di secolarizzazione del periodo sovietico. «Con la crescita della comunità, avremo bisogno di strutture e più spazio – spiega padre Andrzej -. Pensiamo di chiedere al governo anche l’autorizzazione per costruire la prima chiesa cattolica nella nostra missione. Nell’attesa… continuiamo a edificare con “pietre vive”».

Benedetto Bellesi

La triplice CRISI

Il Turkmenistan deve affrontare contemporaneamente tre crisi: alimentare, mercato del gas e finanziaria.
1)  La crisi del grano che ha duramente colpito la Russia negli ultimi mesi si ripercuote pesantemente anche sul Turkmenistan, che di solito acquistava grano sul mercato nero da Russia e Kazakistan. Secondo fonti non ufficiali, solo la capitale, dove vivono numerosi stranieri, riceve approvvigionamenti di cibo adeguati, mentre nel resto del paese la crisi alimentare è grave.
2)  Il Turkmenistan possiede la quarta maggiore riserva di gas del mondo (dopo Russia, Iran, Qatar), con una produzione di 75 miliardi di metri cubi all’anno, ma non sa più a chi venderlo, dopo che la Russia ha ridotto le importazioni (da 50 a 10 milioni di metri cubi all’anno). Ashgabat ha stretto accordi con Cina e Iran, che importano rispettivamente 5 e 15 miliardi di metri cubi all’anno; nel 2011 sarà in funzione un nuovo gasdotto diretto in Cina; ma Pechino, non intende pagare il gas più di 100 dollari ogni mille metri cubi (per fare un paragone: la Russia lo compera a 250 dollari e lo rivende in Europa a 350-500 dollari). Prendere o lasciare.
3)  Il calo delle esportazioni di gas, da cui proviene il 50% del Pil, provoca una grave crisi finanziaria. Il resto del Pil viene dal cotone (35-40%) e da «altre fonti», traffico di droga incluso. Il Paese ha costantemente bisogno di prestiti per la spesa corrente. La Cina ha prestato al governo turkmeno 4 miliardi di dollari, a condizione che ne investisse 3 per migliorare l’infrastruttura per l’energia, e ne ha offerti in prestito altri 5. Il governo preferirebbe attrarre investimenti di compagnie occidentali (Eni, Chevron, Conoco), ma dovrà stare ai patti, più di quanto non ha fatto in passato.
(Fondazione CDF)

Benedetto Bellesi

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