Una marcia in più/ L’arrivo dei «magnifici tre»/ Il lungo viaggio

Storie di adozioni

Anna e Gino / Una marcia in più

Anna e Gino, hanno una figlia di quattro anni «biologica» come si dice in gergo e hanno avuto in adozione un bimbo cambogiano di 17 mesi.
Anna. L’idea di intraprendere il percorso dell’adozione internazionale è nata durante l’adolescenza, nei miei primi viaggi in Inghilterra, venendo a contatto con una società multirazziale. Mi sono chiesta perché l’Italia non fosse così. La prima idea, in realtà, era stata sposare uno straniero, magari di colore. Poi subito dopo ho iniziato a pensare all’adozione. Questa volontà si è poi rafforzata alla nascita di Eleonora, sperando anche che questo avrebbe potuto insegnarle valori positivi di tolleranza e solidarietà.                             
Gino. Nell’ambito scout ho conosciuto persone adottate o in affidamento e mi è sembrata una buona cosa. Una opportunità per un bambino (magari non l’unica), ma anche per la coppia. Come al solito è uno scambio. Con Anna è stata una bella sorpresa condividere l’idea, meglio ancora realizzarla.

Durante il percorso per diventare genitori adottivi le difficoltà incontrate sono state poche. Abbiamo vissuto l’iter con molta serenità, non ci siamo mai sentiti giudicati, forse perché eravamo molto convinti della scelta e delle motivazioni, e crediamo che questo in qualche modo abbia influito positivamente anche su chi doveva esprimere effettivamente un giudizio.
Ovviamente avevamo le spalle coperte dal fatto di avere già una figlia e pure piccola, che quindi assorbiva totalmente la nostra attenzione nei tempi morti, quelli che di solito sono vissuti con molta ansia dagli aspiranti genitori adottivi.
Non abbiamo affrontato il cammino adottivo con la tensione delle coppie senza figli, che sentono l’urgente bisogno di dare e ricevere affetto e sono spesso reduci da travagli di ogni genere per ottenere una gravidanza.
Per quanto riguarda il percorso formativo previsto dai servizi  sociali riteniamo che, almeno nella nostra regione, ci sia una buona organizzazione  tesa ad informare fin dall’inizio le coppie in merito ai vari risvolti: legali, burocratici, organizzativi, educativi e affettivi.
Tra gli enti che curano l’adozione internazionale abbiamo riscontrato differenze non trascurabili.

Le prime vere difficoltà sono emerse quando, dopo l’arrivo di Yan, ci siamo resi conto che, per quanto l’avesse desiderato e fosse stata da noi coinvolta e preparata, Elenora soffriva a causa del  fratello.  Infatti un conto è immaginarsi un piccoletto da coccolare e abituarsi lentamente alla sua presenza, un altro è ritrovarselo già autonomo che pretende i suoi spazi e … i giochi.
Ci siamo così sentiti un po’ spiazzati e impreparati  nei confronti di Eleonora. Crediamo che  su questo tema enti e servizi possano fare molto per la preparazione e il supporto dei figli già presenti e dei genitori: serve una maggiore formazione della famiglia esistente.
Al momento l’attenzione che pongono enti e servizi è particolarmente concentrata verso i bambini adottati. Ma bisogna dire che i servizi si stanno attrezzando su questo.

Rispetto a Yan non abbiamo avuto difficoltà con l’asilo nido, mentre ci siamo dovuti confrontare con la scuola matea che finora non ha formato in modo specifico le maestre, le quali (a parte in alcuni casi), non conoscono il mondo dell’adozione e le implicazioni psicologiche dei bambini e dei genitori.
Dopo un inizio un po’ difficile, dopo aver fatto presente la nostra situazione e informato le insegnanti, a oggi dobbiamo riconoscere un impegno quotidiano positivo da parte loro. Mentre l’istituzione scolastica  ha fatto una dichiarazione di volontà per l’attenzione alla formazione futura delle insegnanti.

Anna e Gino

Cristina ed Enzo / L’arrivo dei «magnifici tre»

Siamo tornati da Addis Abeba con Johannes, Haliu e Hermias i nostri tre splendidi bambini etiopi di 8 e mezzo, 7 e 5 anni.
«Tutti maschi?», «Certo un po’ grandicelli … ,  speriamo in bene … », «E come farete con la scuola? Non sarà certo facile un inserimento a metà anno in un paese con una lingua ed addirittura un alfabeto diversi … », «Quindi sono neri … non che oggi le cose stiano come qualche tempo fa, ma inserire dei ragazzini di colore già grandi non sarà facile, i bimbi sanno essere crudeli a volte. E crescendo la situazione non credo migliorerà… », «Che bravi certo ne avete del coraggio … ormai così grandi e con tanti ricordi non sarà facile farsi accettare come nuovi genitori … », «Certo che tre in un colpo dopo tanti anni da soli … sarà molto dura».

Queste, grosso modo, le osservazioni di «buon senso» di quanti apprendevano la notizia del nostro abbinamento con i «magnifici tre». Grazie al cielo non difettiamo di amici che di buon senso ne hanno poco e che ci hanno incoraggiato molto a compiere questo importante passo.
Ancora una volta la realtà ha superato la fantasia.
Siamo partiti dicendoci che magari due fratellini erano meglio perché, sarebbe stato un punto forza per i nostri figli, magari anche molto diversi somaticamente e cromaticamente da noi, portarsi appresso un pezzetto della propria storia, e al contempo non recidere un legame certamente parte della loro identità. L’associazione aveva poi segnalato la presenza di diversi gruppi di fratelli che, per ovvi motivi, trovavano più difficoltà dei singoli bambini ad essere abbinati. Certo non ci sfiorava l’idea di prendere tre bambini, come declamava la piantina, pressoché definitiva, della ristrutturazione della nostra nuova casa, che esibiva una distribuzione degli spazi pensata per «sole» 4 persone.
Sull’età poi eravamo abbastanza rigidi: doveva essere entro i 5 anni! Una prima «picconata» alla nostra posizione è arrivata dal corso organizzato dal Comune: le adozioni ormai sono in gran parte di bambini già grandi, 7 – 8 anni. Del resto anche loro hanno diritto ad avere una famiglia. Non è detto che siano inserimenti più problematici di quelli dei neonati ed è importante per tutti i bambini avere genitori di un’età adeguata e non dei nonni – genitori. L’intervento, vibrante e ben argomentato ci ha messo molto in discussione, anche se non ci siamo sentiti di aumentare di molto la nostra disponibilità.
La seconda «picconata» è giunta dall’associazione che guardando le nostre carte di identità ci ha proposto una fascia di età di abbinamento dai cinque agli otto anni compiuti! Dopo qualche momento di smarrimento durante il quale abbiamo sentito dentro di noi infrangersi l’immagine del nostro bambino ideale, ci siamo un po’ ripresi pensando che, trattandosi pur sempre di una fascia teorica, magari i nostri figli sarebbero stati più verso i cinque che non gli otto.

Ebbene, a quattro giorni dal nostro ventesimo anniversario di matrimonio abbiamo ricevuto la telefonata di Silvana che ci annunciava, come una vera cicogna, la possibilità del nostro abbinamento con tre fratellini etiopi, tutti maschi, di età ecc. ecc.
Come si fa a dire «no» in questi casi? Come si fa a dire «si» in modo consapevole, evitando il rischio di una disponibilità solo emotiva che però ti tradisce nel vivere quotidiano a contatto con triplici capricci, un’organizzazione improvvisamente impazzita (lavatrice in moto perpetuo, spesa fantasiosa per mediare su gusti culinari incompatibili con i nostri, preparazione di tre bambini entro le 8,20 per l’ingresso a scuola…) , una richiesta di attenzioni che già in partenza soffre di uno scarto incolmabile di tre (figli) a due (genitori)?
Ne abbiamo parlato molto tra noi, con le nostre famiglie, con i servizi di zona e soprattutto insieme ai molti amici che ci hanno accompagnato in questo percorso. Attraverso il confronto con loro e la loro esperienza di genitori abbiamo cercato di capire che tipo di difficoltà avrebbe comportato il «si», ma soprattutto abbiamo sentito la loro vicinanza, il loro incoraggiamento e sostegno, «qualificati» da esperienze, pur faticose ma certamente positive e coraggiose, di adozione e affidamento di minori «grandicelli» vissute direttamente o da molto vicino.

E poi l’incontro. È vero. I nostri figli non sono neonati, ma neanche grandi quanto «temevamo»: preparati al peggio scopriamo che i vestiti portati, in realtà sono troppo lunghi e larghi.
Hanno ugualmente diritto ad una famiglia. Ne hanno già persa una e se lo ricordano bene.
Sono ugualmente, se non di più, affamati di coccole e attenzioni: baci, carezze e abbracci sono ancora oggi il nostro veicolo principale e reciproco di comunicazione. Anche oggi che, sempre di più ed oltre ogni più ottimistica previsione, stiamo arricchendo il comune vocabolario.
Non sono neonati ma persone con una loro autonomia (che ha i suoi lati positivi) non da plasmare a nostra immagine e somiglianza ma che ci arricchiscono e mettono in discussione con le loro domande, intuizioni, punti di vista che arrivano dall’altra parte del mondo per di più personalizzati dal loro vissuto.
Abbiamo scelto di inserirli il prima possibile nel contesto scolastico. Per noi è stata un’esperienza commovente incontrare un mondo della scuola che pensavamo perduto: una direttrice sensibile e decisa che ha posto le migliori premesse per un inserimento di successo; delle insegnanti motivate ed entusiaste e dei genitori aperti che hanno accolto i nostri figli con affetto, considerandoli una risorsa per la classe.
I nostri figli non erano nemmeno bambini. Erano adulti «per forza». Oggi si stanno riappropriando della loro infanzia. Un po’ come le loro biciclette: da grandi, come impone la loro taglia, ma con le rotelle, come richiedono l’inesperienza, la recente scoperta, il rispetto delle tappe di crescita. Ed è uno spettacolo vederli giocare con il «normale» entusiasmo tipico dei bambini.
È vero. I nostri figli non sono neonati. Del resto l’adozione non sostituisce una gravidanza, e non è giusto considerarla un suo surrogato. L’adozione non è dare la vita. È ridarla a chi l’aveva perduta. Ed è crudele negare questa possibilità nel tentativo di imitare un meccanismo riproduttivo che ci ha visti «parte lesa». Il punto di partenza qui è capovolto. In questo caso si ri-genera una persona che già c’è, certamente «lesa» nei suoi diritti di bambino.

Cristina ed Enzo

Maria Elisabetta ed Enrico / Il lungo viaggio

La scelta di adottare un bambino non è stata semplice e, tanto meno, immediata. È stato un processo lento, a tratti doloroso, che è maturato nel tempo. Abbiamo iniziato a pensare di adottare un bimbo solo dopo dieci anni di matrimonio. E forse l’averci pensato così tardi è uno dei rimpianti maggiori che abbiamo. Spesso ci diciamo che se avessimo iniziato prima, magari oggi invece che un figlio ne avremmo due o forse tre. Ma tant’è. Il destino ha voluto così, è così è stato.
In ogni caso nel processo di adozione siamo stati molto fortunati. Abbiamo presentato la domanda di adozione nel marzo 2006 e abbiamo abbracciato il nostro piccolo il 10 dicembre 2007. Un anno e mezzo è pochissimo in un processo che, in molti casi, richiede anni e anni di attesa.

Come dicevamo però non è stato un processo indolore. Anzi. I colloqui con gli assistenti sociali, i numerosi corsi ai quali si deve partecipare obbligatoriamente, i libri che si leggono sono tutti passi che, ogni volta, scavano nella coscienza dei futuri genitori adottivi e vanno giù nel profondo, causando ferite non da poco. Tutto il sistema di verifica delle capacità genitoriali è, di fatto, un processo che ti porta a prendere coscienza del tuo fallimento nella capacità di generare un figlio. E prendere atto di un fallimento non è mai facile. A questo poi si aggiungono le paure di non essere all’altezza di una sfida così importante. Il risultato è uno stato d’ansia che ci ha accompagnato per alcuni mesi, in particolar modo negli ultimi mesi prima di accogliere il piccolo. «Chi sarà il bambino? Quanti anni avrà? Qual è la sua storia?»: sono domande che ti seguono sempre. Che non ti fanno dormire. Ma a fianco di esse c’è anche il desiderio di diventare papà e mamma. Un desiderio fortissimo che attenua ogni dolore e ti dà la forza per andare avanti. Fino al giorno dell’incontro.

Per noi l’incontro è stato quasi improvviso. Il 7 novembre l’ente autorizzato al quale ci siamo rivolti ci ha chiamato. Dovevano comunicarci l’abbinamento con un bambino. Sapevamo che il piccolo era vietnamita, ma non conoscevamo né il nome, né l’età, né da quale provincia del Vietnam provenisse. Vedere la sua foto ci ha riempito di gioia. Il piccolo aveva allora cinque mesi e mezzo, era sano e, soprattutto, non aveva subito traumi psicologici. La comunicazione però non significava partenza immediata. Abbiamo dovuto aspettare più di un mese prima di imbarcarci per Hanoi.

Il viaggio è stato lungo e difficile. I pensieri e le domande non ci hanno lasciato neppure un minuto. Ma non abbiamo dovuto aspettare molto per avere le risposte. Appena arrivati in albergo il telefono è squillato. «Domani mattina fatevi trovare alle 6 nella hall dell’albergo. Andiamo a prendere il bimbo», ci avvisava con voce perentoria il referente locale dell’ente. Quella notte abbiamo dormito veramente poco. E la mattina infatti eravamo stravolti. Abbiamo ancora le foto che ci siamo fatti fare dalla receptionist alle 6 di mattina. Il viaggio da Hanoi a Nam Dinh è passato velocemente. Arrivati al municipio di Nam Dinh, eravamo come in trance. Facevamo fatica a capire cosa ci stesse capitando. Ci hanno fatto firmare molti documenti. Poi a un certo punto ci siamo voltati ed è entrato il bimbo. Pallidino, spaurito, infagottato in una copertina azzurra. Ci guardava terrorizzato, poi si è messo a piangere. Dopo pochi minuti siamo ripartiti. Ed è cominciato un viaggio che non è ancora terminato.

Maria Elisabetta ed Enrico

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