Terra del drago tonante

Reportage dal piccolo regno himalayano, ultimo Shangri-La

Un piede nel passato e l’altro nel futuro, il Bhutan si sta aprendo alla modeizzazione, ma a modo suo, con leggi di avanguardia nella tutela dell’ambiente, con imposizioni restrittive per conservare le secolari tradizioni culturali. Ma l’invasione mediatica ed economica, con i suoi modelli e stili di vita occidentali, mette a rischio un sistema sociale che considera la felicità degli abitanti più importante del prodotto interno lordo.

I raggi del sole appena sorto lambiscono batuffoli di vapore che rimbalzano tra la vegetazione della foresta attorno a Trongsa. Mentre seguo con lo sguardo i contadini intenti a trapiantare il riso, dallo dzong le voci gutturali dei monaci elevano le preghiere mattutine al cielo. Tutto attorno è silenzio: nella valle sottostante solo il Puna Tsang, il fiume che scorre sinuoso come il drago che decora la bandiera del Bhutan, rivela la sua presenza.
PAURA DELLA DEMOCRAZIA
È da questa regione che, sul finire del XIX secolo, il penlop (governatore) di Trongsa, Ugyen Wangchuck, con l’appoggio dei britannici, sconfisse il rivale filotibetano di Paro, dando vita all’attuale dinastia dei Wangchuck e gettando le basi per la modeizzazione del paese. Ancora oggi, le incoronazioni ufficiali dei Druk Gyalpo (re dragone), vengono svolte in questo monastero, a sei ore di auto dalla capitale Thimphu.
La devozione verso la casa regnante è, a dir poco, impressionante: quasi ogni casa bhutanese mostra i ritratti dei cinque monarchi succedutisi, dal 1907 a oggi, alla guida della nazione. Ma ci si deve chiedere se, dopo l’attuale re, il ventinovenne Jigme Khesar Namgyal Wangchuck, ne seguirà un altro. La modeizzazione voluta da Jigme Singye Wangchuch, padre dell’attuale Druk Gyalpo, ha infatti gettato le basi per la democratizzazione, da molti vista come un primo passo per un eclissamento della monarchia.
Paradossalmente, in un’area geopolitica caratterizzata da una gestione assolutistica e personale del potere, qui in Bhutan è proprio il massimo rappresentante a volersene privare. L’imposizione democratica non è stata accettata dal popolo bhutanese, il quale ha così dimostrato di aver sviluppato un elevato grado di maturità sociale e politica.
«Siamo preoccupati – mi dice Tshering Lhadin, una ragazza impiegata in un centro di informatica a Thimphu -. La storia dimostra che, ogni qualvolta un paese raggiunge la democrazia, subisce un tracollo sociale e morale. È stato così per il Nepal e l’India. Non vogliamo che anche il Bhutan segua questi esempi».
Sono in molti a pensarla come Lhadin, ma decenni di cieca fedeltà alla corona hanno convinto i bhutanesi a partecipare, nel marzo 2008, alle prime consultazioni elettorali nella storia della nazione. «Elezioni farsa – accusa dalla sua casa di Kathmandu Vikalpa, nome di battaglia del segretario generale del clandestino Partito comunista maoista bhutanese -. I partiti con idee e programmi alternativi, repubblicani e antifeudali non hanno potuto presentarsi. Gli unici due schieramenti in lizza non differivano nei loro manifesti».
In effetti la schiacciante maggioranza dei voti è andata al Druk phuensum tshogpa (Dpt, Partito della pace e del progresso), più per la popolarità del suo leader, il primo ministro Jigme Yoser Thinley, che per i contenuti programmatici.
PRODOTTO
DI FELICITà LORDA
Lo sviluppo raggiunto dal Bhutan in questi 30 anni di modeizzazione è un motivo più che sufficiente affinché lo status quo sia, una volta tanto, l’obiettivo più ambito dalla maggioranza dei 690 mila bhutanesi. Elaborando un singolare metodo di misura della crescita, chiamato Prodotto di felicità lorda (Pfl), il Bhutan è il primo paese al mondo a stimare il progresso sociale della nazione non solo su base materiale, ma monitorando l’effettivo sentimento popolare verso nove principali fondamenti: buon governo, cultura, sanità, educazione scolastica, equilibrio psicologico, ecologia, standard di vita, utilizzo del proprio tempo e qualità della vita comunitaria.
«Il concetto che abbiamo in occidente di economia si misura esclusivamente dalla quantità di risorse economiche messe a disposizione dell’uomo. In Bhutan, ma più in generale nelle economie buddiste, l’economia si misura sulla serenità che la produzione materiale può dare a ciascun individuo» spiega Sender Tindeman, direttore del Maitreya Institute di Amsterdam.
Criticato dagli economisti «materialisti» per l’inaffidabilità scientifica di valutazione, il Prodotto di felicità lorda è forse ciò che più vicino oggi ci sia a quello che il Premio Nobel per l’Economia, Amartya Sen, afferma essere uno sviluppo sostenibile: «La libertà di scegliere e di poter scegliere compatibilmente con le proprie responsabilità».
Durante un’intervista alla fine degli anni ‘90, avevo chiesto proprio ad Amartya Sen come si potevano creare i meccanismi sociali e culturali per rendere partecipi anche gli impoveriti allo sviluppo economico. La sua risposta, mi accorgo ora, potrebbe essere un riconoscimento al Pfl: «Purtroppo in un mondo sempre più globalizzato, per i poveri è arduo entrare nel processo di sviluppo. Occorrono basi che non tutti gli stati possono o vogliono garantire: l’istruzione in primo luogo, ma anche la sanità, il cibo, un’informazione esauriente e corretta, la possibilità di viaggiare, non dico all’estero, ma nella città più vicina. È difficile per chi non sa scrivere o leggere, per chi è malato o per chi non sa nulla del mondo esterno, sentirsi parte di un meccanismo economico che vada al di là dei limiti del proprio villaggio».
Mi tornano in mente queste parole mentre visito una comunità nella sperduta valle di Tang, nella regione centrale del Bhutan. Nel piccolo dispensario si assiepano una trentina di persone. Alcune, come l’analfabeta Chukie, si sono portate il nipotino per compilare i formulari necessari per ricevere le medicine; altre, come Trishan, hanno dovuto camminare quasi due ore per farsi visitare: «Solo due anni fa avrei dovuto recarmi direttamente a Jakar, a quattro o cinque ore di cammino. Ora abbiamo anche una strada e se troviamo i mezzi possiamo arrivarci in un’ora».
VANTAGGI E RISCHI           DELLA MODERNIZZAZIONE
Trishan è fortunato: è riuscito a separarsi da quel 21% della popolazione che vive a più di 4 ore di cammino dalla prima strada carrozzabile. In soli tre decenni, le infrastrutture di questa minuscola nazione, poco più grande della Svizzera, sono state accresciute in modo esponenziale. La rete stradale che nel 1974 si sviluppava per 1.300 chilometri attorno a Phuntsholing, Paro, Thimphu e Punakha, oggi attraversa l’intero paese da est a ovest su 5.000 chilometri di asfalto, permettendo un migliore e rapido trasferimento di persone e merci.
Grazie a una politica di capillarizzazione dei presidi sanitari, i bhutanesi vivono in media 66 anni, venti in più di quanto ci si potesse aspettare solo tre decenni fa. Il sistema scolastico statale, totalmente gratuito, oltre ad aver ridotto l’analfabetismo dal 90 al 25%, ha introdotto l’inglese, come lingua accoppiata allo dzongha nell’insegnamento di alcune materie, permettendo ai bhutanesi di dialogare con il mondo.
Ma il Bhutan si affaccia al XXI secolo portando con sé anche una serie di incognite che gettano preoccupazione nella classe politica. Se nei secoli scorsi bastavano le formidabili catene dell’Himalaya a sfiancare ogni esercito e mantenere salda e integra la cultura drukpa, permettendo al governo di scegliere gli interlocutori con cui interfacciarsi, oggi la modeizzazione ha di fatto fagocitato anche questa minuscola nazione nei circuiti di scambi inteazionali. Le inevitabili aperture al mondo esterno, iniziate timidamente negli anni ‘60 con re Jigme Dorji Wangchuck e perseguite con più vigore dal suo successore, Jigme Singye, hanno costretto i bhutanesi a raffrontarsi con cambiamenti sociali mondiali.
Nel Tiger Pub di Thimphu le luci soffuse proiettano ombre di ragazzi e ragazze che si sbaciucchiano sorseggiando una birra; a Paro, in occasione di una partita di calcio della Champions League, un bar promette hard rock music per tutta la nottata, a Wangdue osservo un ragazzo che, indossando jeans Levi’s e una maglietta Armani, ha raccolto i capelli meschati in treccine rasta, mentre nei pressi del monastero di Gangtey, nella valle di Phobjkha, diversi monaci poco più che tredicenni si passano un paio di sigarette.
Viaggiando per il paese noto diversi centri di aiuto per disintossicati e affetti da Hiv. «Fino a cinque anni fa nessuno sapeva cosa fosse la droga o l’Aids. Oggi è divenuta una piaga sociale, per ora ancora contenuta, ma destinata ad allargarsi» spiega un ragazzo di 29 anni in cura presso il presidio di Thimphu. Piccoli segni, se vogliamo, ma che denotano un cambiamento in atto difficilmente contrastabile con decreti e imposizioni.
Dagli aerei della Druk Air nel 2008 sono scesi quasi 18 mila turisti che importano modelli di vita affascinanti per i giovani bhutanesi, il 40% dei quali ha meno di 20 anni. Il gho e la kira, i vestiti tradizionali per gli uomini e le donne imposti obbligatoriamente dal governo durante attività pubbliche e nelle cerimonie ufficiali, sono dismessi appena possibile. Al loro posto vengono indossate magliette del Manchester United e jeans attillati. Il tiro con l’arco, sport nazionale, sta per venire soppiantato da attività più fisiche che mentali quali calcio, cricket e basket (il principe stesso gioca in una squadra di pallacanestro).
turismo E INQUINAMENTO AMBIENTALE E CULTURALE
Per far fronte alla crescente disoccupazione, che nelle città raggiunge il 30% della forza lavoro, il governo punta sul turismo, unica voce economica con un settore privato in espansione. I 200 dollari al giorno che ogni straniero deve pagare per visitare il paese dovrebbero selezionare un turismo d’élite e intellettualmente rispettoso della cultura locale, ma questo non sempre è un fatto positivo. Il turismo dei ricchi non si accontenta degli alberghetti, di viaggiare su mezzi pubblici, di mangiare nei ristorantini e i contatti con i bhutanesi sono estremamente limitati.
Tutto questo impone al governo il miglioramento delle infrastrutture logistiche con le ricadute del caso. La costruzione di alberghi di lusso richiede maggior consumo di risorse energetiche e idriche, nonché un notevole aumento di rifiuti che dovranno essere trattati, mentre il viaggiare su mezzi privati implica una congestione del traffico con la necessità di migliorare la rete stradale e un conseguente innalzamento dell’inquinamento.
Come si concilierà tutto questo con la volontà di integrare lo sviluppo con il rispetto dell’ambiente? Per legge il 60% del territorio deve essere coperto da foreste, ma il vertiginoso aumento demografico e il fatto che il 40% delle case utilizza legna per cucinare e riscaldarsi, mette in serio pericolo la rigogliosa vegetazione. E se il turismo è una fonte di inquinamento culturale e ambientale, tuttavia ancora relativamente controllato, visto che la maggior parte della popolazione ne è immune, televisione e internet sono mezzi che più subdolamente entrano nelle abitazioni dei bhutanesi e ne cambiano la mentalità.
Si calcola che un terzo delle famiglie del paese possieda un apparecchio televisivo e che 40 mila persone utilizzino internet. Il governo ha cercato di correre ai ripari criptando i canali, a suo parere, più offensivi verso la morale: Mtv, Fashion Tv e quelli che trasmettono il wrestling. A Paro, però, vedo diversi ragazzini imitare le mosse della lotta e, nell’isolata Ura, un bambino sfoggia orgoglioso una maglietta serigrafata con l’immagine di John Cena. Le ragazze, inoltre, recepiscono immediatamente gli ultimi dettami della moda dalle copertine patinate delle riviste o dai film indiani proiettati al Luger Cinema di Thimphu.
«Non sono contraria alle trasformazioni. Una cultura per sopravvivere deve adattarsi anche ai cambiamenti estei – confida Kunzan Yeshey, una scrittrice in erba incontrata a Punakha -. Ho però paura che non siamo ancora pronti. Ci sono troppi esempi che ci consiglierebbero di rallentare il processo di modeizzazione». La grande paura di Yeshey si chiama storia e integrazione.
INTOLLERANZA ETNICA
Già alla metà degli anni ‘60 il Bhutan era entrato in una pericolosa spirale di violenza, quando l’allora primo ministro, Jigme Palden Dorji, dopo aver varato delle riforme in campo militare e religioso, fu assassinato in una faida tra la famiglia Dorji e il consigliere tibetano del Druk Gyalpo, Yangki. La stessa Yangki complottò dieci anni più tardi per assassinare il quarto monarca, appena incoronato.
Ma sono gli sviluppi più recenti che hanno svegliato i bhutanesi dal loro sogno di vivere in una Shangri-La (utopico paradiso himalayano descritto nel 1933 da James Hilton nel romanzo Orizzonte perduto, ndr). Dopo che, nel censimento del 1988, il governo scoprì con sgomento che i lhotshampa, l’etnia di origine nepalese, hinduista, di lingua nepali e concentrata nelle regioni meridionali, aveva raggiunto il 45% dell’intera popolazione, il re varò la campagna «Una nazione, un popolo». Oltre a bandire la lingua nepali nelle scuole, costrinse i lhotshampa a conformarsi al Driglam Namzha, i valori tradizionali bhutanesi, non tutti confacenti alla cultura del sud.
Il terrore del governo bhutanese era seguire l’esempio del confinante Sikkim, che nel 1975 perse l’indipendenza divenendo il 22° stato dell’India a seguito di un referendum il cui risultato fu condizionato dalla maggioranza nepalese. Per evitarlo, si emanò una serie di leggi di cittadinanza che discriminavano le etnie meridionali nei confronti dei bhote, la razza maggioritaria. Ne seguirono scontri e circa 100 mila persone si rifugiarono in Nepal, dove tutt’ora sono confinati in sette campi profughi.
«Quello che è chiaro è che, dopo il 1988, il governo ha implementato una politica di intolleranza verso i bhutanesi di lingua nepalese» ha detto lo scrittore Christopher Strawn, autore del libro Bhutan.
Nei campi profughi la vita è miserrima e sia Bhutan che Nepal cercano di rimpallarsi responsabilità e soluzioni. Secondo il governo bhutanese il 25% dei rifugiati non avrebbe neppure diritto alla cittadinanza. Dopo che l’ambasciatrice Usa in Nepal, Nancy J. Powell, ha dichiarato che il suo paese, assieme ad altre sei nazioni, ha accettato di accogliere i rifugiati, nei campi si è innescata una serie di violenze il cui scopo è quello di impedire un insediamento in paesi terzi. Suhas Chakra, direttore dell’Asian Centre for Human Rights (Achr) di New Delhi, avverte che «il reinsediamento senza un diretto coinvolgimento del Bhutan è pericoloso, perché potrebbe favorire la politica di pulizia etnica del governo bhutanese e aggravare la situazione delle popolazioni di origine nepalese».
Sempre a New Delhi incontro quello che forse è il più famoso dissidente bhutanese: Devi Bhakta Lamitarey, fondatore del Bhutan State Congress e autore di due libri di discreto successo: Dankido Bhutan e Murder of Democracy. La sua tesi, per certi versi allucinante e pericolosa, è che «per essere indipendente il Bhutan dovrebbe avere almeno 5 milioni di abitanti, così da disporre di un esercito di 500 mila soldati. Se non raggiungerà tali traguardi, l’unico destino è l’assorbimento da parte dell’India, così come avvenuto con Sikkim». E alla fine aggiunge: «Sempre meglio essere uno stato indiano che un servo della Cina».
FOBIA INGLOBAMENTO
Attraversando il Bhutan incontro diverse squadre di manutentori stradali: tutti, o quasi, sono di origine nepalese, così come di origine nepalese sono i lavoratori che svolgono attività di fatica. Negli uffici statali, invece, le sedie sono monopolio dei Bhote. «Dobbiamo salvaguardare la nostra cultura. Siamo un piccolo paese schiacciato tra due giganti. Non vogliamo diventare il 23° stato dell’India e neppure un’appendice del Tibet» giustifica Tsheltrim, un impiegato della Banca del Bhutan.
La fobia dell’inglobamento, se non politico almeno culturale, in una delle due grandi aree geopolitiche confinanti col Bhutan, è presente ovunque. Il Trattato di Punakha del 1910, siglato tra il primo re, Ugyen Wangchuck, e la Gran Bretagna, in base al quale Londra, pur non interferendo negli affari interni della nazione himalayana, ne avrebbe guidato la politica estera, è stato sostituito pari pari nel 1949 dal Trattato di amicizia con l’India. Ma con la democratizzazione, Thimphu potrebbe adottare una politica estera più autonoma, cercando una equidistanza tra New Delhi e l’altro potente vicino, Pechino, entrambi interessati alle enormi potenzialità energetiche offerte dal paese.
India e Cina hanno anche un contenzioso con l’Arunachal Pradesh, regione che Pechino considera di propria competenza e che, assieme all’Assam, ha dato non pochi grattacapi al Bhutan. Al passo Dochu La, i 108 stupa costruiti sul valico testimoniano la lotta condotta nel dicembre 2003 dall’esercito bhutanese in collaborazione con l’India, contro i guerriglieri dell’Ulfa (United Liberation Front of Assam), del Ndfb (National Democratic Front of Bodoland) e del Klo (Kamatapur Liberation Organization), tre organizzazioni indipendentiste che controllavano una trentina di campi nel Bhutan.
L’ingombrante presenza dell’India, principale partner commerciale, non sembra però allarmare i bhutanesi, che hanno addirittura esentato i cittadini indiani dall’esorbitante tassa turistica imposta agli altri paesi.

U na volta visitato questo stupendo paese, viene istintivo chiedersi se il Bhutan riuscirà a convivere con i modelli che gli provengono dall’esterno o se questi avranno il sopravvento sulla sua cultura. Nella storia, il Drago Tonante è riuscito a respingere gli assalti di eserciti ben più potenti e armati di lui, ma di fronte all’invasione mediatica ed economica, forse i suoi artigli non sono in grado di difendere questa terra di miti e leggende. 

di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali

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