Bandiere

Sono un inguaribile scettico. Non riesco a credere, ad esempio, che il contingente militare internazionale che si trova oggi in Afghanistan sia lì esclusivamente per aiutare il governo locale ad essere sovrano sul proprio territorio, garantendo sicurezza ed autonomia a quella parte del paese che vuole combattere il terrorismo. Vorrei, ma non ci riesco. Non soltanto perché continuo ad avere dei problemi con l’uso (e l’abuso) del termine «terrorista», ma soprattutto perché non ce la faccio proprio ad immaginarmi un’attenzione occidentale tutta rivolta al governo afgano e al suo presidente eletto (mentre scrivo non si sono ancora svolte le elezioni presidenziali previste per il 20 agosto). Un grillo parlante continua a ripetermi che gas, petrolio e alleanze strategiche hanno a che vedere con il nostro intervento molto più del buon cuore.
La guerra ha una sua logica perversa che purtroppo la distanza dagli eventi non aiuta a comprendere. Si corre il rischio di rimanere affettivamente e intellettualmente indifferenti di fronte al quotidiano svolgersi di un conflitto armato se non ci si è immersi o non si ha un figlio, un fratello, un marito che pattugliano armati le strade di qualche remota vallata o sconosciuta città. Eppure la contemplazione di questi genitori, fratelli o coniugi in divisa dovrebbe, al di là di ogni sentimentalismo, tener sempre viva una domanda che trascenda le ragioni di ogni singolo conflitto: perché la guerra?
Ogni feretro che tra mille onori e squilli di tromba rientra in patria avvolto in una bandiera ci impone una sosta e un interrogativo: perché, da sempre e quasi ineludibilmente, l’essere umano costringe il suo simile alla celebrazione di tali riti? In Inghilterra la chiamano «the visit», la visita, il momento più temuto da migliaia di famiglie britanniche: l’arrivo di un ufficiale in borghese con la notizia che mai e poi mai si sarebbe voluto ascoltare.
Nel mese di luglio ho trascorso un brevissimo periodo a Londra. Un paio di giorni prima del mio arrivo il contingente inglese di stanza in Afghanistan era andato incontro al più sanguinoso episodio bellico di questi ultimi decenni: otto militari di Sua Maestà erano stati uccisi in tre diversi episodi nell’arco di sole 24 ore. Tre di questi soldati erano diciottenni e uno di loro aveva perso la vita cercando di portare in salvo un suo commilitone di appena due anni più anziano. Quel giorno le crude statistiche dei quotidiani d’oltre manica recitavano impietosamente: 184 soldati morti in Afghanistan contro i 179 caduti in Iraq. Politicamente, già le prime reazioni indicavano la volontà di proseguire l’impegno armato al fianco degli alleati, cercando di capire come vincere una guerra che si ha ora paura di perdere. Per la strada, in metropolitana e nella posta dei lettori di molti quotidiani la gente comune si chiedeva invece: «Che ci stiamo a fare lì? Dobbiamo uscire da quel pantano; ogni volta preghiamo che questo morto sia l’ultimo, sapendo che non sarà così».
La nostra domanda di significato deve andare al di là delle fredde analisi politiche come delle emozioni dettate dal singolo episodio, cogliendo e facendosi carico delle ragioni di «tutte» le vittime di un conflitto. A conti fatti, dopo tanto ragionare non dubito che si arriverà alla stessa conclusione a cui ci conduce la follia del vangelo: nessuna guerra ha un senso. Tocca ai cristiani gridarlo a gran voce, più di quanto si stia facendo.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli

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