A Scuola di perdono

Espere: laboratorio della pace

Dalla Colombia, un paese che da più di 60 anni si trascina in una situazione di guerra e violenza arriva un forte segnale di pace grazie all’intuizione e al lavoro di padre Leonel, missionario della Consolata, fondatore della «Fundación para la reconciliación». Ci racconta lui stesso come attraverso vere e proprie «scuole-laboratorio» di perdono e riconciliazione molte persone afflitte da un passato di dolore stiano imparando a guardare con occhi diversi se stessi, gli altri e il mondo.

Del mondo globalizzato abbiamo conosciuto il volto più tetro grazie alle macro e micro geografie della violenza. Abbiamo imparato la storia grazie al sillabario della morte, dei grandi massacri, delle vendette storiche. Il caleidoscopio gira, ed in esso appaiono le immagini di Treblinka, dei Ghetti di Varsavia, di Beirut, della Bosnia, di Mogadiscio, dei Balcani, l’11 Settembre, l’11 Marzo di Madrid, il massacro del liceo di Columbine, luoghi che diventano codici di riferimento per l’enciclopedia universale dell’esaltazione, dell’odio e della vendetta. Timor Est, Iran, Afghanistan, Cambogia, Tibet, Sud Africa, Argentina, Cile, Uruguay, Salvador, Etiopia, Martin Luther King, il Mahatma Gandhi, le Madri della Plaza de Mayo, Colombia, il Chiapas non indicano solo luoghi e persone, ma sono punti di riferimento fondamentali per l’archeologo della conflittualità.
Alle cause obbiettive del malessere globalizzato, si sommano le cause soggettive dell’analfabetismo emozionale e di quello morale, di individui e nazioni. Persone e paesi che soffrono fratture intee dovute agli strascichi delle violenze, che riproducono l’odio e la vendetta nel contesto immediato, nella famiglia, in gruppi e regioni. E i poveri, anche a causa della loro rabbia, diventano sempre più poveri.
Di fronte a tutto ciò, si rende sempre più necessario intessere una rete mondiale di pace. Per questa ragione ci siamo fermati un istante e interrogati sullo spazio che alla vita viene concesso  nel grande scenario mondiale incancrenito oggi da tanto odio e violenza.
Motivati da un profondo rispetto per la dignità umana, abbiamo creato a questo riguardo la Fundación para la reconciliación (Fondazione per la riconciliazione). L’obiettivo centrale di questa organizzazione è quello di introdurre nelle persone e nelle istituzioni, la cultura e la pedagogia del perdono e della riconciliazione con proposte incisive e utili al superamento dell’irreversibilità dei rancori e del desiderio di vendetta. Questo approccio differente alla vita dovrà generare dunque, narrative, storie e linguaggi nuovi che mettano in primo piano le vittime e le popolazioni più vulnerabili, garantendo che si foiscano verità, giustizia restaurativa, conservazione della memoria e le garanzie che i fatti violenti non verranno ripetuti.
Nel suo piccolo, la Fondazione  ha un grande sogno: proporre un sistema mondiale di riconciliazione che rappresenti un grande spazio di confronto per tutti i popoli della terra. Un forum globale incaricato di organizzare globalmente uno scambio di modelli pedagogici e schemi culturali orientati all’impegno a favore della vita e alla ricostruzione interiore di persone, gruppi e nazioni.
Sono migliaia gli sforzi compiuti oggi nel villaggio globale  contro il Golia dell’ingiustizia. Sforzi sovente deboli, vanificati da una mancanza di cornordinamento e lavoro di rete. A questi tentativi si devono obbligatoriamente unire quelli delle congregazioni religiose, maschili e femminili, chiamate dal proprio carisma specifico ad essere immagine del volto misericordioso di Dio e del cuore materno della chiesa.

Un programma di vita

Parlare di perdono e riconciliazione esige un cambio radicale di paradigma. Quali mezzi e strumenti dovremo ancora escogitare per promuovere l’irrazionalità del perdono contro l’irrazionalità della violenzia, l’irrazionalità della riconciliazione contro l’irrazionalità della guerra? Non è sufficiente «parlare» di perdono e basta. Si può pensare di rovesciare una realtà di odio in una di amore soltanto se chi si è sentito vittima di una qualsiasi forma di oppressione fa pratica di perdono nella sua propria vita. Il perdono non è soltanto un esercizio razionale, ma ha in sé dimensioni emozionali, comportamentali e spirituali che devono essere toccati in un processo di recupero dell’armonia interiore che il subire un fatto violento ha fatto perdere.
Bisogna anche distinguere bene sulle differenze che esistono fra il perdono e la riconciliazione. Il perdono è un esercizio che il soggetto opera su se stesso. L’obiettivo è quello di estrarre il veleno della rabbia e del rancore che il ricordo di una violenza subita tende a riprodursi nella persona vittimizzata, contaminando negativamente tutto il suo essere. La riconciliazione, al contrario, è il passo che la vittima fa verso colui che l’ha offesa. È, quindi, un esercizio sociale in cui vengono ripristinati i legami interrotti con la persona che è stata causa del male. La riconciliazione non è mai possibile se prima non si è perdonato mentre, al contrario, si può giungere a perdonare senza però avere la possibilità (o la volontà) di riconciliarsi. 
Le violenze sono causate, in grande misura, da un senso di giustizia basato sulla punizione e la vendetta. La forca e la fucilazione sono, nelle dovute proporzioni, amplificazioni di castighi impartiti dai genitori ai loro figli allo scopo di formare moralmente il loro carattere. È necessario fare un inventario delle modalità del castigo, approfondendo le conoscenze etnografiche e culturali, sistematizzando le credenze, i miti di riferimento e le cosmovisioni che presentano la vendetta come alternativa all’educazione morale.
Allo stesso tempo, è urgente individuare, nell’ambito del patrimonio culturale dei popoli, tipologie diverse da quelle che sostengono l’odio e la rivalsa. Occorre dar vita a un «disarmo della parola» che agevoli il dialogo interpersonale, lo scambio interculturale ed intra-culturale portandoli ad elevare il diritto alla vita e all’amore all’interno della globalizzazione imperante.
Il mondo ha bisogno di rielaborare la propria memoria universale, la propria narrativa degli avvenimenti sotto la luce di una cultura di perdono e riconciliazione.
In questo senso, la sapienza di condividere la «memoria ingrata» di avvenimenti nefasti aiuta a esorcizzare i fantasmi creati dall’odio e dalla vendetta, dalle ideologie della colonizzazione e dello sterminio, da differenze cosmologiche e anche da rapporti con divinità diverse.
Quando il ricordo non è grato, la vita si fa triste. Quando il dolore vissuto nel passato impedisce di camminare, il futuro diventa difficile. È fondamentale, nella creazione di una memoria universale che difende la vita, interpretare il passato con un proposito chiaro: imparare dalle lezioni della storia, superando i pericoli insiti in una memoria non «inventariata», lasciata a se stessa, in balia di sentimenti come negativi e inquinanti: rivalsa, vendetta… morte. La vita non può fiorire finché affonda le sue radici negli oscuri labirinti del dolore e della tragedia.
Senza voler misconoscere in alcun modo le rivendicazioni dei poveri e marginalizzati, riteniamo che nessuna contraddizione umana sia degna dello spargimento di sangue.

Le «Espere»

Nello sforzo di trovare e percorrere strade alternative all’odio e alla violenza, approfondendo cammini di  perdono e riconciliazione, la Fondazione ha dato vita al progetto «Espere», un acronimo che sta per Escuelas de perdón y reconciliación (Scuole di perdono e riconciliazione).
Le «Espere» sono gruppi di 10-15 persone che decidono di vivere una forte esperienza di insieme volta a curare le ferite (rabbia, rancore, odio, desiderio di vendetta) causate dalla violenza e dai conflitti quotidiani della vita. Sono persone che, a partire ciascuna dalla propria spiritualità, vogliono aprirsi al perdono ed alla riconciliazione, per ritrovare un’armonia perduta a livello personale e sociale, nonché per contribuire, attraverso la ricchezza della propria esperienza, ad instaurare nuovamente la pace nel quartiere, nella città e nel paese dove esse vivono. Questi gruppi si riuniscono con una periodicità settimanale, in sedi informali, ma stabilendo alcune regole precise, soprattutto per quanto riguarda l’assoluta confidenzialità che deve vigere tra i partecipanti.
La creazione di un «ambiente sicuro» è infatti fondamentale a creare empatia fra i partecipanti, condizione necessaria fra persone chiamate a esprimere e condividere il proprio dolore. Il gruppo diventa allora una sorta di «contenitore» il quale fa sì che il dolore non si disperda e aiuti le persone che vi partecipano a ricomporre il mosaico della propria vita ritrovando le tessere che erano andate perdute.
Nelle «Espere» si sviluppano e si mettono in pratica programmi metodologici volti a rafforzare iniziative cittadine per la pace in Colombia; consolidarli, diffonderli e valutarli collettivamente è un lavoro che abbiamo intrapreso e ci impegna molto. Cerchiamo di farlo riunendo forze ed esperienze con altre istituzioni, sempre attenti a quelle che sono le vittime della violenza sociale e politica.
La spina dorsale di queste scuole è rappresentata dagli «animatori». Sono loro, l’anima e il nerbo di quest’iniziativa. Grazie a loro intendiamo compiere un viaggio fin nel cuore pulsante del paese, luogo in cui sono custodite le emozioni, gli affetti, le cose più profonde ed i più teneri sentimenti, quelli che fanno emergere il meglio di noi stessi. Chiaramente, desideriamo arrivare anche a quel luogo fragile e lontano in cui nascondiamo il nostro odio, le nostre rabbie ed i nostri rancori.
Gli animatori sono «gente comune»: uomini, donne, giovani di una determinata zona, scelti e preparati specificatamente per aiutare i partecipanti delle escuelas a recuperare l’armonia perduta. A volte, in questi piccoli «laboratori del perdono» le persone giungono a scoprire di non essere soltanto vittime, ma di essere nel contempo vittime e oppressori. Guerriglieri, paramilitari, soldati o delinquenti comuni fanno la sorprendente scoperta che dietro la rabbia accumulata in tanti anni di violenza vi sono offese del passato che si sono ormai tramutate in odio represso, un’infezione che occorre affrontare e curare per tempo, prima che faccia danni irreparabili alle vite delle persone.
L’animatore ha un compito fondamentale: aiutare la vittima (che nel frattempo può essersi scoperta anche nella sua qualità di oppressore) a sanare le fratture che si sono verificate nei tre grandi «pilastri» dell’esistenza umana: il senso della vita, la sicurezza e la socializzazione. Aiutare la persona a intervenire positivamente in questi ambiti significa aiutarla a riscoprire un’armonia e un equilibrio che sono andati perduti a causa di uno o più episodi traumatici. L’animatore deve anche sottolineare con forza che l’armonia non si conquista soltanto con motivazioni di tipo razionale o cognitivo. Come si ricordava anteriormente, il processo è olistico e riguarda la dimensione del pensare (cognitiva), dell’agire (etico-comportamentale), del sentire (emozionale) e del trascendere (spirituale).
Abbiamo scelto la parola «scuola» per sottolineare la necessità di un programma, di un metodo e di contenuti. In modo analogo, la parola scuola si riferisce al processo di condivisione della saggezza collettiva che sgorga quando le persone si riuniscono volontariamente nella ricerca di obiettivi comuni.
La metodologia, come si è detto, sceglie terapie di gruppo. In questi spazi l’individuo può raccontare la propria storia: far memoria e narrare la ferita che porta dentro sperimentando il potere taumaturgico di queste dinamiche di insieme. Infine, in questi spazi e attraverso questo processo, le vittime iniziano un nuovo e graduale percorso di socializzazione. Recuperando la capacità di relazionarsi adeguatamente con gli altri potranno anche iniziare, quando le circostanze lo permettano, un cammino di riconciliazione che li avvicini nuovamente a chi nel passato ha fatto loro del male.
Si tratta di un processo a lungo termine, che mira alla creazione della cultura della riconciliazione per soppiantare l’esistente «cultura» della rivalsa. Si tenta di superare la dialettica dell’occhio per occhio, dente per dente, in modo da favorire l’atmosfera adeguata a processi di verità e giustizia, condizioni irrinunciabili per una liberazione definitiva e vera dall’odio e dalla violenza.

Nel dolore della violenza in Colombia

L’area pensata originariamente per questo progetto è il territorio colombiano. All’interno di esso il programma si è sviluppato in accordo con le circostanze e le esigenze di determinate zone o gruppi di persone, adattandosi alle modalità, ai luoghi o all’intensità dei conflitti che generano violenza politica e sociale nel paese.
Così, ad esempio, nelle comunità indigene del Nord del Cauca, presso il popolo Nasa, il lavoro della Fondazione, si traduce nell’accompagnamento dei giovani indigeni che fanno ritorno a casa dopo essere stati legati a gruppi armati. Il lavoro viene svolto insieme, da animatori, ragazzi e autorità indigene consentendo così un armonioso reinserimento di questi giovani nella comunità di appartenenza, in consonanza con la tradizione ed il diritto indigeno.
Un altro contesto particolare è quello svolto fra le comunità afrodiscendenti dove prevale il numero di persone sfollate a causa della guerra.
La Fondazione, grazie al modello dei Centri di riconciliazione, gestisce l’affiancamento individuale e collettivo a queste popolazioni, cercando di rafforzare i vincoli comunitari per generare una tesaurizzazione di ricchezza sociale, indispensabile per superare  il conflitto armato in Colombia.
A livello cittadino, l’impegno principale è a livello di collaborazione con le istituzioni educative e il Segretariato dell’Istruzione. La Fondazione cornopera attraverso le «Espere» in 28 scuole del distretto di Bogotá con gravi problemi di convivenza intea ed estea, con presenza di bande e tifoserie violente, le cosiddette barras bravas.
Il reinserimento in società di soggetti che hanno militato in gruppi armati, la loro integrazione presso le comunità riceventi, nonché la sostenibilità dei loro progetti di vita, sono altre grandi sfide per la Colombia di oggi. In questo campo, la «Fondazione per la riconciliazione» porta avanti, per mezzo delle «Espere», un programma di formazione di ex membri di gruppi armati già reinseriti. Saranno poi loro le persone in grado di aiutare coloro che abbandonano la lotta armata e iniziano un processo di re-inserimento nella società. Abbiamo chiamato questo programma: «Leader della pace».
Infine operiamo per «fare rete» con tutti gli operatori del settore in grado di collaborare a costruire processi sostenibili di pace. In  Colombia, la dinamica virtuale di intercambio e comunicazione di esperienze e modelli nell’ambito di pedagogie per la pace, è debole; rafforzarla è uno dei nostri obiettivi primari.

Che futuro hanno le «Espere»?

I crescenti indici di violenza nel mondo sono ragione sufficiente affinché si sostengano le metodologie del perdono e della riconciliazione. Vari motivi possono dimostrare più profondamente la validità di un progetto come quello portato avanti dalla «Fondazione per la riconciliazione».
Un primo motivo va direttamente al cuore della persona umana: rabbie, rancori  e desiderio di vendetta sono fattori soggettivi della violenza (sia di quella politico-sovversiva, sia di quella sociale). Trattarli adeguatamente costituisce la condizione senza la quale sarebbe impossibile qualsiasi processo di pace sostenibile.
Inoltre, l’assenza di modelli di assistenza psicosociale a vittime della violenza (reinseriti e popolazioni vulnerabili in aree di violenza) richiede presenze che moltiplichino sforzi per diffondere la cultura della riconciliazione.
Non bisogna neppure nascondere il fatto che la violenza che matura in famiglia e nella scuola genera soggetti potenzialmente violenti. Se organizzazioni come la nostra riescono a giungere a questi nuclei basilari della società si potrà prevenire, un domani, il reclutamento di nuovi soggetti armati da parte di gruppi impegnati nel conflitto o ai margini della legge.
La Fondazione cerca di lavorare anche sulla formazione del cittadino. Dare alle persone strumenti che le aiutino ad annullare le conseguenze della violenza, significa aumentare la loro capacità di mobilitazione, organizzazione e gestione politica nella rivendicazione dei loro diritti.
Parzialmente collegato a questo punto, occorre sottolineare il lavoro svolto in seno ai gruppi etnici che, storicamente, sono stati marginalizzati e oppressi come le comunità indigene e afrodiscendenti. Inoltre, la cosmovisione indigena e il diritto proprio che ad essa si ispira apportano nuove ed originali modalità di comprensione e soluzione dei conflitti ancora sconosciuti dalle comunità nazionali.
Oggi le «Espere» stanno creando, per la Colombia e per il mondo, un metodo innovativo di verificata efficacia per garantire processi sostenibili di pace sia a livello collettivo sia a livello intra-personale, famigliare e comunitario.
Grazie alla cultura ed alla pedagogia del perdono, inteso come risorsa intrinsicamente politica più che come virtù religiosa, vogliono favorire narrative nuove che aiutino vittime e carnefici a liberarsi dalle catene del passato alle quali restano irrimediabilmente legati. L’affrancarsi da queste catene potrà creare un domani diverso in cui possa esserci più spazio per verità, giustizia e la pace, condizioni fondamentali per il consolidamento della democrazia in Colombia e nel mondo.
Davvero, merita ripetere come un mantra la famosa frase del Premio Nobel per la pace sudafricano Desmond Tutu: «Senza perdono non c’è futuro!».

Di Leonel Narvaéz Gomez

UN LAVORO CHE PREMIA E…
VIENE PREMIATO

Fondate nel 2002, le «Espere» hanno compiuto in questi anni grandi passi avanti. Le ragioni di questo successo si devono all’instancabile lavoro compiuto «sul terreno», all’arricchimento offerto dallo scambio di esperienze inteazionali e dall’appoggio di esperti di varie università sia nazionali che inteazionali, fra cui le prestigiose Cambridge e Harvard.
Oggi, attraverso il programma «Espere», la Fondazione può vantare:
– 2.500  Animatori «Espere» formati in Colombia.
– 1.500  Animatori in Cile, Perù, Brasile, Messico, Repubblica Dominicana,  USA, Canada, Sud Africa, Botswana, Zambia, Lesotho.
– Una rete in espansione di organizzazioni statali e non governative e attivisti della pace, distribuita nelle Espere di 43 comuni, in 20 dipartimenti della Colombia.
– Elaborazione di materiali pedagogici, schede, dispense e strumenti didattici per la  pedagogia del perdono e della riconciliazione «Espere».
– Sviluppo di modelli di gestione collettiva della pace.
Oltre a questi «frutti» quantitativi del lavoro della Fondazione, si osservano altri risultati, non tangibili ma altrettanto importanti:
1. Psicologici: le persone che partecipano alle «Espere» rafforzano il senso di unità della propria personalità, agendo sui fattori di instabilità emozionale, malattia fisica, impoverimento progressivo, senso di sfiducia causati dalle violenze.
2. Sociali: a partire dal momento del primo incontro nell’ambiente della formazione, «l’ambiente sicuro» favorisce il riallacciarsi di legami, il superamento della memoria dolorosa (individuale e collettiva), la creazione di nuove narrative, la costruzione di propositi individuali e collettivi per la rivendicazione dei diritti, l’ideazione di agende volte a superare le fratture psicologiche e sociali e la sensazione di sentirsi affiancati per  intraprendere progetti di vita alimentati nell’interattività sociale, politica  e comunitaria.
3. Politici: far patrimonio comune dei temi come la verità, la giustizia, il patto, la memoria ed il non ripetersi delle cause e dei fatti violenti è un’urgente necessità della società civile in Colombia. Nelle «Espere», si pensa che se il paese intende progredire nella costruzione di agende collettive per la pace appoggiate dalle collettività, è imperativo qualificare la capacità di discernimento e comprensione sui grandi temi, riguardo ai quali i gruppi politici ed i loro rappresentanti promuovono la partecipazione politica e comunitaria dei cittadini colombiani.
Un numero sempre maggiore di persone e di istituzioni nazionali ed inteazionali vedono nella cultura e nella pedagogia del perdono e della riconciliazione una proposta irrinunciabile per il raggiungimento della pace in Colombia e nel mondo. Questo crescente riconoscimento ha fruttato alla Fondazione numerosi attestati di stima e premi.
Dopo il successo dell’esperienza delle «Espere», adottati da 60 Comitati di quartiere nella sola città di Bogotá, nel luglio del 2004 il Consiglio della città ha conferito alla «Fondazione per la riconciliazione» la croce d’oro dell’Orden Civil al Mérito José Acevedo y Gómez, quale riconoscimento del lavoro a favore della convivenza e la pace nella città.
Nel mese di settembre 2006, la «Fondazione per la riconciliazione» ha ricevuto a Parigi la menzione d’onore Premio Unesco di educazione alla pace 2006 per contributi pratici, innovativi e d’impatto per la costruzione della pace in Colombia e nel mondo.
Il 30 novembre scorso, infine, il Congresso della Repubblica di Colombia ha conferito alla Fondazione il prestigioso Orden de la Democracia «Simón Bolivar», per l’impegno dimostrato nel promuovere il valore della pace all’interno del paese sudamericano.


Leonel Narvéz Gomez

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