L’ombelico del mondo

Reportage dall’isola di Pasqua

Rapa Nui (grande roccia, in lingua nativa) o Isola di Pasqua (così fu ribattezzata dal primo scopritore europeo) è una delle isole abitate più isolate del mondo, sperduta nel Pacifico meridionale a 3.750 km dal Cile e 5.000 km da Tahiti. I nativi, arrivati dalla Polinesia verso il x secolo, hanno conservato buona parte della loro cultura originaria, ricca di fascino e di mistero.

Gioo di pasqua, anno 1722. La nave del capitano olandese Jacob Roggeween, dopo giorni di navigazione in mare aperto, s’imbatte in un’isoletta in mezzo al Pacifico, apparentemente disabitata. Sbarcati al tramonto, gli uomini dell’equipaggio cadono in un sonno profondo sulla spiaggia.
Al loro risveglio, ciò che si trovano davanti agli occhi li lascia senza parole: in un’alba infuocata, decine di uomini, con i lobi delle orecchie lunghissimi, si muovono in danze sfrenate, adorando il sole che sta per nascere, ma soprattutto gettandosi ai piedi di gigantesche creature di pietra con volto umano e in testa uno strano cappello di pietra rossa. Il capitano Roggeween e la sua ciurma avevano trovato Rapa Nui, ribattezzata col nome di Isola di Pasqua; le statue non erano altro che i moai, figure oggi in lizza per diventare una delle «nuove» sette meraviglie del mondo.
Rispettosi, e forse spaventati dai costumi dei nativi, i marinai fecero ritorno a casa, e solo nel 1774 qualcun altro ritoò sull’isola: era il famoso avventuriero James Cook, con l’obiettivo di conoscere i segreti di quella popolazione, che già allora era oggetto di più di una leggenda. «Sono bassi, magri, hanno sguardo deciso e pelle che sembra pergamena» diceva Cook.

Gioo di pasqua, anno 2007. I nativi dell’isola ricalcano alla perfezione il ritratto tracciato dall’avventuriero. Sono rimasti in 1.500 sull’isola, tanti quanti gli «stranieri», arrivati dall’Oceania, Europa e America Latina. Sì, perché oggi l’isola di Rapa Nui batte bandiera cilena e solo con un volo dal Cile ci si può arrivare, nonostante che per la sua posizione in mezzo al Pacifico assomigli più alla Polinesia che non al continente sudamericano.
Non si tratta di una dipendenza inumana, come quella dei secoli passati, tutt’altro. Schiavizzati in massa dai conquistadores  e ridotti a soli 110 abitanti a metà secolo xix, i nativi hanno potuto portare avanti le loro tradizioni grazie all’annessione cilena, avvenuta nel 1888.
Oggi Rapa Nui, isolotto brullo, a forma triangolare, con un’estensione di poco più di 160 kmq, prospera grazie a un turismo attento, non di massa, che preserva le sue bellezze. Gli abitanti originari, concentrati in un’unica cittadina, Hanga Roa, vivono di pesca e artigianato.

Tra gli aspetti più significativi della vita e della cultura degli indigeni dell’isola c’è soprattutto la tradizione religiosa da loro conservata, anche se caratterizzata da un sincretismo senza eguali. «Il culto del sole, professato fin dal secolo iv, sotto il regno del re Hotu-Mata, è ancora vivo» dice Riccardo, studioso dell’isola e uno dei gestori del piccolo museo antropologico, pieno di reperti, posto in riva all’oceano.
«Però – prosegue Riccardo – colui che nel corso dei secoli è stato più venerato rimane il Tangata-Manu, l’uomo uccello. Ancora oggi viene ricordato con canti e balli solenni nel Tapati, una festa che dura 10 giorni a febbraio e coinvolge tutta l’isola».
Il Tangata-Manu era un semidio, che prendeva sembianze umane ogni anno differenti: colui che nel giorno prestabilito trovava un uovo della specie locale di gabbianella diventava uomo uccello per dodici mesi e comandava l’isola. Di pietre raffiguranti il Tangata-Manu ce ne sono a decine sparse in tutta l’isola, tante quante le statue dei moai. Queste ultime, rovesciate a terra da terremoti e lotte intestine, sono state rimesse al loro posto, grazie al lavoro di archeologi di tutto il mondo.
Il sincretismo religioso, caratteristica dell’Isola di Pasqua, ha raggiunto il culmine con l’arrivo dei primi cileni e della religione cristiana, soprattutto cattolica. A Rapa Nui cristianesimo e religione ancestrale si sposarono da subito, senza alcun contrasto o prevalenza dell’uno sull’altra. L’esempio che meglio rappresenta tale connubio è la celebrazione della messa, soprattutto nei riti della settimana santa e della pasqua.
Padre Andrés, cileno ma con la pelle indigena, per quasi tutta la durata della celebrazione rimane in mezzo ai fedeli, provocandoli a intervenire durante l’omelia e stimolandoli a proporre intenzioni di preghiera. La liturgia è bilingue, ma i due idiomi, castigliano (spagnolo) e rapanui, si alternano e s’intrecciano con naturalezza, provocando un effetto sorprendente e affascinante anche nelle persone di passaggio sull’isola, facendole sentire a proprio agio fra culture così diverse, eppure così compenetrate.
La domenica delle palme è un tripudio di colori e suoni: tutti cantano, portando con sé lunghe foglie prese dalle palme, banani, alberi di papaia e altre piante della locale vegetazione tropicale.

«La festa è per noi un momento in cui ricordiamo i nostri antenati» dice Wilma, signora tanto anziana quanto energica, mentre sorseggia un bicchiere di vino rosso nel piccolo bar a fianco della chiesa. «Anche se, in realtà, non si sa bene come siano finite le prime civiltà dell’isola» sussurra la donna in uno spagnolo tanto zoppicante quanto divertente.
Ciò che dice Wilma è vero: l’Isola di Pasqua è piena di misteri, il primo dei quali riguarda la sua popolazione originaria, quella che costruì gli stessi moai, prima dell’arrivo dell’olandese Roggeween.
Secondo quanto gli studiosi sono riusciti a ricostruire, attorno al 1100 d.C. la cultura originale dell’isola s’interruppe bruscamente: scomparvero gli adoratori del sole; furono rovesciati a terra tutti i giganteschi moai e rimasero a metà quelli che si stavano costruendo ai piedi del Rano Raraku, uno dei tre grossi vulcani dell’isola. In tale stato furono trovati dai turisti: immersi nella vegetazione e da essa in parte ricoperti.
Cosa è successo? Forse una catastrofe naturale, come un’eruzione vulcanica o un terremoto. Qualcuno sostiene che le decine di tribù dell’isola, trovatesi in soprannumero rispetto alle possibilità di cibo offerto dall’isola, cominciarono a farsi guerra tra loro, e in questo modo si estinsero quasi del tutto.
A tale estinzione contribuirono di certo anche gruppi di «orecchie corte» (gente proveniente dalle isole occidentali), che, dice la leggenda, sterminarono tutti gli uomini dalle «orecchie lunghe» (i rapanui), tranne uno, Ororoina, che così riuscì a conservare la specie.
«Anche se abbiamo perso l’usanza di allungare i lobi delle orecchie e di incidere le nostre leggende nelle tavolette ronga-ronga, siamo i diretti discendenti di Ororoina» afferma Cesar, artigiano che abita con la moglie e i due figli in un grande casolare all’estremità di Hanga Roa. «Come i nostri antenati, siamo esperti pescatori» aggiunge Ana, la moglie dell’artigiano. «Cesar, dimostraglielo» aggiunge la donna.
Detto fatto. L’uomo esce di casa, sale sulla piccola barca ormeggiata a pochi metri dall’abitazione, s’inoltra nell’oceano per una buona mezz’ora e torna con due bianchissimi tonni, una delle specialità dell’isola, esportata in tutto il mondo. Roba da non credere, anche per la squisitezza.

Cesar, Ana e la maggior parte degli abitanti di Rapa Nui sono orgogliosi di quello che hanno, anche se sembrano arrabbiati al punto giusto con la madrepatria. «I generi alimentari, che arrivano una volta alla settimana con i container dalla terra ferma, hanno i prezzi raddoppiati rispetto al Cile» lamenta Cesar; ed è vero. Tuttavia sono ben contenti di essere legati al continente, soprattutto per l’indotto derivante dal turismo. Inoltre, la distanza dalle coste americane permette di mantenere salda la propria identità, di cui sono orgogliosi. E non ne fanno mistero nei loro discorsi.
«Siamo l’ombelico del mondo» dice Huki, effervescente archeologo che, oltre a far conoscere la cultura dell’isola nei vari incontri inteazionali in cui viene invitato (è stato più volte ospite anche della Biennale di Venezia), gestisce il Kona Tau, uno degli alberghetti più affascinanti dell’isola.
Huki, comunque, dice sul serio: Te-Pito-Te-Henua, in lingua rapanui, significa proprio «ombelico del mondo». «Su una spiaggia dell’isola – spiega Huki – c’è una grossa pietra tonda che, secondo la leggenda, è caduta dal cielo all’inizio dei nostri giorni, mandata dalla divinità ancestrale dei nostri antenati, il Make-Make, il creatore del mondo».
La particolarità della pietra, a cui si può accedere liberamente, risiede nel fatto che, in ogni momento della giornata e in qualunque condizione atmosferica, emana un calore costante. Per questo motivo, è considerato, non solo dai nativi ma anche da vari studiosi stranieri, uno dei centri di energia del pianeta, a conferma del suo nome.
Huki si sofferma poi su un altro grande mistero di Rapa Nui: il trasporto dei moai. È certo che essi furono «fabbricati» alle pendici del vulcano con pietra nera per il volto e pietra rossa per l’eccentrico cappello; ma come sono arrivati e installati sulle coste del mare? «È opera degli alieni – scherza Huki sorridendo, per poi riprendere il discorso seriamente -. Non si sa con certezza. L’ipotesi che noi studiosi diamo per favorita è questa: ogni moai è stato scolpito con le rocce del vulcano, poi è stato deposto su grossi tronchi d’albero e fatto rotolare a valle fino al luogo desiderato».
Un’opera ingegnosa, soprattutto se si pensa a quante persone dovevano lavorare all’unisono. «Diverse centinaia, forse migliaia» aggiunge l’archeologo.
Ma chi rappresentavano queste figure dal volto lungo e stretto e le orecchie da gigante? «Sono gli antenati delle varie famiglie – spiega Huki -. Alla loro morte, le statue, fatte a loro sembianza, venivano poste a poche decine di metri dal mare, rivolte verso l’interno, per essere venerate e come strumento di protezione dal mare e dagli attacchi estei».

Moai, Tangata-Manu, Te-Pito-Te-Henua e, soprattutto, sincretismo religioso: l’Isola di Pasqua è un luogo magico; metterci piede significa percorrere secoli di storia in pochi chilometri quadrati. Lo sa bene il sindaco dell’isola, Pedro Paoa, che da anni lotta con il governo cileno per garantire all’isola un riconoscimento maggiore rispetto all’attuale. «Non vogliamo l’indipendenza, ma una maggiore autonomia – afferma Paoa -; dopotutto, per cultura e tradizioni siamo diversi dalla madrepatria; anzi, direi che siamo quasi più polinesiani».
La sfida lanciata dal sindaco ha di recente lasciato il segno nelle alte sfere cilene: il 2 maggio 2006, il Senato ha iniziato un iter legislativo per riconoscere a Rapa Nui uno status particolare, simile a quello delle regioni italiane a statuto speciale. «Che facciano in fretta; non vogliamo più dipendere così tanto dal Cile» dice Paoa rivolto ai politici cileni.
A prima vista, il sindaco dell’ombelico del mondo ne avrebbe tutte le ragioni. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella

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