NOSTRA COMPAGNA DI GALERA

20 giugno, festa della Consolata

La curiosa storia di un quadro della Consolata, oggi venerato nella cappella della Casa regionale
dei missionari della Consolata a Nairobi (Kenya), di un «magico» coltellino milleusi e di dodici monete d’argento. Il tutto sullo scenario della II guerra mondiale.

Un giorno indimenticabile quel 10 giugno 1940. Gli italiani avevano appena ricevuto dalla radio la notizia che la nazione era formalmente entrata in guerra, contro Inghilterra e Francia e già il giorno seguente, in Kenya, volavano ordini tassativi di imprigionamento e deportazione di tutti i missionari e missionarie di nazionalità italiana presenti nel paese.
Quel mattino, inaspettati, gli inglesi giunsero fino alla missione del Mathari e, senza tante cerimonie, dissero: «Tutti i membri di nazionalità italiana sono da questo momento sotto arresto. I padri missionari hanno venti minuti di tempo per raccogliere le loro cose e presentarsi a questo comando. Le suore dovranno restare nei loro conventi fino a nuovo ordine».
Venti minuti di tempo per raccogliere le proprie cose… Nel cuore dei missionari scese un gelo di sconforto. Venti minuti per impacchettare il materiale di una vita di lavoro. Che fare, cosa poter scegliere, cosa abbandonare in venti minuti? Ognuno corse alla sua stanza e cominciò a mettere in sacche e vecchie valige quel poco di roba e libri personali ritenuti utili…
A un missionario venne subito in mente che quel giorno era il primo giorno della novena della Consolata. Nella chiesetta del Mathari c’era il quadro della Vergine; come si poteva lasciarlo solo, abbandonato?
Si trattava di un’immagine speciale, uno di quei quadri che il beato Allamano aveva consegnato ai componenti delle varie spedizioni che partivano da Torino. «Portatelo con voi, custoditelo, perché vi protegga sempre», sembravano ancora echeggiare le parole del Fondatore. Il missionario si precipitò in chiesa. Tentò di armeggiare per vedere di togliere dalla coice quella tela, ma si rese presto conto che sarebbe occorso troppo tempo.
Aveva un coltellino in tasca, quel coltellino milleusi sempre così utile quando si trattava di  cavar spine e pulci penetranti. Con decisione e precisione il coltello si insinuò lungo la linea della coice e la tela ne uscì fuori in poco più di un minuto. Il Santissimo Sacramento venne tolto dal tabeacolo e portato al sicuro dalle suore. L’icona della Consolata, ben arrotolata, andò a far compagnia ai pochi libri e calzini puliti e sporchi del «padre salvatore».

LA LUNGA PRIGIONIA
«Dove si va?» era la domanda sulla bocca di tutti. Purtroppo la risposta non lasciava molte speranze. La meta era la prigione di Nairobi-Kabete, dove i missionari italiani vennero condotti in attesa che arrivassero i loro confratelli, arrestati nelle altre missioni del Nyeri e del Meru quello stesso giorno.
Dalla prigione temporanea di Kabete (oggi un grande sobborgo di Nairobi), dove in totale vennero radunati ben 419 missionari, incluse alcune suore, ben poco riuscì a trapelare. Le poche notizie che si hanno di quei giorni, le raccogliamo da una lettera scritta l’anno successivo, in cui l’autore, padre Giuseppe Maletto, pur misurando con attenzione le parole per paura della censura, dà un breve resoconto di quei giorni. L’autore, raccontando di quei giorni, scrive che dall’11 giugno i missionari «furono inteati fino al 4 ottobre, quando partimmo per il Sudafrica, via mare… Alcuni missionari dello Spirito Santo e di Mill Hill ci sostituirono nelle missioni. Le reverende suore furono dapprima tutte radunate nella fattoria di Nyeri; in seguito alcune furono lasciate ritornare in 4 o 5 stazioni di missione, soltanto del vicariato di Nyeri…».
La lettera di padre Maletto venne scritta da Koffiefontein, località del Sudafrica, oggi famosa per le miniere diamantifere, ma in quei giorni sede di un grosso campo di prigionia. In esso, nel frattempo, erano stati inviati anche i missionari italiani provenienti dal Kenya.
Lo stesso padre Maletto fornisce, anche qualche particolare su come viene vissuta la vita di preghiera all’interno del campo: «Abbiamo una cappellina che può contenere 10 persone inginocchiate e 20 in piedi e pigiate…» (da lettera del giugno 1941).
Anche se le rassicurazioni date da padre Maletto in merito alle condizioni dei missionari della Consolata in prigionia consolò i superiori di Torino, una seconda lettera, inviata il mese successivo, dava una visione meno ottimistica della vita in cattività: «Noi stiamo relativamente tutti bene. Per noi, fatti i due appelli giornalieri, la pulizia delle camerette e personale, lavatura e cucitura, il resto è tempo libero. Come però desidereremmo di poterci sgranchire le gambe con qualche passeggiata o almeno quattro passi fuori dei reticolati spinosi. In Kenya, a Kabete, ci si conduceva a spasso una, due o tre volte la settimana, come i collegiali, sorvegliati da assistenti. Era una gran festa. Qui nulla di nulla. La nostra minuscola cappella con il Santissimo è un grande conforto per noi. Altri non ne abbiamo…» (lettera del 24/3/1941, giunta in Italia nel luglio 1941).
A commento del breve brano della lettera di padre Maletto, in cui si ricordano i «tempi della prigionia di Kabete», il sottoscritto ricorda una breve conversazione avuta con un missionario compagno di prigionia, il padre Merlo Pick. Parlando dei «quattro passi fuori dei reticolati», pur sorvegliati dagli assistenti, Merlo Pick ricordava come due o tre padri riuscivano sempre, avvalendosi della conoscenza della lingua kikuyu, ad avere notizie delle missioni del Nyeri da parte di finti e occasionali viandanti.
La situazione risultava essere un po’ una comica: la comitiva dei «collegiali prigionieri» sembrava andare a passeggio, ma qualcuno, con la voce un pochino più alta, chiedeva notizie in kikuyu ai passanti che sembravano divertirsi di quei prigionieri in casacca da galeotti. «Come stanno le suore a Nyeri? Come vanno le missioni abbandonate? Salutateci tutti…».
Nessuno dei sorveglianti, del resto ignari del kikuyu e tanto più dell’italiano, riuscì mai a scoprire lo stratagemma. Al massimo, qualcuno pensò che nel gruppo dei galeotti ci fosse il «solito buontempone», in vena di sollevare il morale alla truppa!

LA CONSOLATA SI FA BELLA
A Koffiefontein la vita di prigionia scorreva monotona, senza troppi sussulti.
Però, si sa, il missionario non ama starsene con le mani in mano. Molti, infatti, occuparono questo lungo periodo di inattività forzata con l’apprendimento di lingue utili per il futuro: qualcuno si dedicò con dedizione allo studio del kiswahili, del kimeru, altri ancora si cimentarono addirittura con il tedesco. Alcuni dimostrarono interesse alla pittura, scultura, musica e altro ancora. Ci fu persino chi scoprì che tra le sabbie e pietruzze del campo di concentramento c’erano minuscoli diamanti e rubini…
A un certo punto, alcuni missionari decisero di cimentarsi con l’oreficeria! L’icona della Consolata, trafugata e messa in valigia di tutta fretta, faceva la sua bella figura nella cappelletta di fortuna che i missionari avevano ricavato nel campo di prigionia. Perché non abbellirlo? In fin dei conti la Consolata aveva accompagnato i «suoi» missionari addirittura in galera. Si meritava davvero un po’ di attenzione. Si iniziò con il produrre una bella coice per rimpiazzare quella originale, rimasta nella missione quando la tela fu tagliata e asportata.
A parte qualche rustico attrezzo, recuperato tra i rottami del campo di concentramento, non si poteva contare su struomenti adatti per lavorare il legno. L’arte, però, non conosce ostacoli e la coice venne scolpita con il solito e indispensabile coltellino milleusi.
Guardando l’immagine della Consolata nella sua nuova sede, saltò anche fuori la proposta di riprodurre le stelle che incoronano la Madonna, come nel quadro originale venerato nel santuario di Torino. «Bellissima idea – concordarono i più -. E perché non costruire le stelle in metallo prezioso?».
Già, proprio una bella idea! Ma dove si sarebbero potuti trovare dei metalli preziosi in una prigione? Oro? E chi ne aveva con sé? Argento? Alla parola «argento» qualcuno inizió a sussultare: la moneta del Sudafrica, il rand, era d’argento, forse la soluzione era stata trovata. Molti prigionieri accettarono, di buon grado di mettere a disposizione la «cinquina» che il governo inglese passava ai prigionieri: uno scellino al giorno. Al cambio risultavano circa 12 rand.
Dopo vari tentativi, l’orefice autodidatta riuscì a ottenere 12 belle stelle d’argento, con un piccolo punteruolo che permettesse di applicarle alla tela dell’icona. L’effetto fu sorprendente. Che emozione, la Consolata sembrava più bella… Anzi, meno triste, nonostante fosse anche lei in galera insieme a tutti i suoi missionari, dove resterà fino al mese di settembre del 1944.

RITORNO A CASA
Fu la voce della Radio Vaticana ad annunciare, il 20 settembre di quell’anno, che «i padri e le suore del Kenya erano tutti tornati alle loro missioni!».
L’anonimo «salvatore» della Consolata si era riportato in Kenya, tra le sue poche cose, anche il prezioso quadro. Per prudenza staccò le stelle d’argento, mettendole al sicuro. Incredibilmente, il quadro trovò ancora la sua vecchia coice, anche se, ahimé, fu necessario restringerla un pochino, dopo il taglio della tela praticato al momento dell’arresto.
Non ne uscì un capolavoro; anzi, a ben guardare, la squadratura non risultava delle più perfette. Nessuna paura! Era come avesse fatto la guerra! Purtroppo, però, nel trambusto del ritorno dalla prigionia, delle 12 stelle d’argento ne restavano solo nove.
Quando, nel processo di africanizzazione della diocesi di Nyeri, i missionari affidarono la missione al clero locale, pensarono di lasciare il quadro di questa «famosa» Consolata alle suore missionarie della Consolata di Nyeri. Ma dopo alcuni anni, le sorelle restituirono gentilmente il cimelio ai padri missionari, che ora lo conservano nella cappella della loro Casa regionale di Nairobi.
Ma quelle tre stelle mancanti…
Un giorno mi feci coraggio e raccontai questa curiosa storia a un amico indiano, ottimo orafo del Kashmir. Mi stette ad ascoltare per un po’ e poi, d’impulso, disse: «Mi porti una stella, padre, e io farò quel che devo fare».
Gli portai una stella di campione e dopo tre giorni mi chiamò a ritirare tre altre bellissime stelle d’argento, più lucenti delle prime.
«Voglio anch’io onorare la vostra Vergine – mi disse – perché benedica anche me e la mia famiglia. Anche se sono indù, apprezzo il vostro lavoro di missionari».
Oggi il quadro è tornato ad avere le sue 12 stelle. E la Vergine Consolata, prigioniera con i suoi missionari per tre anni nei campi di concentramento del Sudafrica, continua a presentarci il suo Bambino, a benedirci e accompagnarci in Kenya e in altre parti del mondo.  

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio

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