Opportunità e pericoli per l’«homo technologicus»

Introduzione

Qualche settimana fa, ho ricevuto dall’Angola, via posta elettronica,
un video del dottor Nando Campanella, il medico che a suo tempo vinse
il nostro «Premio Carlo Urbani» e che oggi lavora in Africa per
l’Organizzazione mondiale della sanità (http://www.afro.who.int/).
Nando è un esperto di telemedicina e, ovunque vada a lavorare, cerca di
coniugare le sue conoscenze mediche con quelle tecnologiche. L’e-mail è
uno strumento che ha rivoluzionato il modo di comunicare, abbattendo le
distanze e il tempo (ma quasi sempre anche la poesia). Personalmente,
non riesco più a fare a meno, anche perché la posta elettronica è ormai
diventata indispensabile per il mio lavoro. Tuttavia, vivo senza
telefonino. Una cosa, questa, talmente inusuale che, quando lo
confesso, nessuno mi crede.
Verso le nuove tecnologie ho un rapporto di accettazione, ma allo
stesso tempo di sospetto. Ad esempio, in quanto ambientalista
(convinto), mi infastidisce molto vedere i prodotti tecnologici durare
sempre meno, non tanto perché non funzionino più quanto perché vengono
superati da altri più aggioati e di cui – come ci fanno credere
pubblicità martellanti ed invadenti – sembra non si possa fare a meno.
Purtroppo, computer, telefonini, videoregistratori, televisori,
stampanti e quant’altro si trasformano in rifiuti altamente inquinanti
e di difficile smaltimento. In media, in Europa ogni cittadino produce
20 (venti!) chilogrammi di spazzatura elettronica all’anno. La
direttiva europea (http://europa.eu/) sui «Rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche» (Raee), in inglese Waste from electrical
and electronic equipment (Weee), non sembra essere adeguata all’entità
del problema. Gli europei (con gli italiani nelle primissime posizioni)
cambiano il proprio cellulare in media ogni 15 mesi. Quanti di essi
sanno che i telefonini contengono cassiterite e tantalio (coltan) e
che, per avere questi metalli, nella martoriata Repubblica del Congo si
combatte, si sfrutta, si commette ogni genere di violenza?  

Quando si viaggia nel Sud del mondo si incontrano sempre più spesso
internet cafè. Dunque, la tecnologia arriva veramente ovunque? Lascio
la risposta a Geneviève Makaping, antropologa del Camerun, che al
Convegno di Mani Tese (http://www.manitese.it) ha tristemente
sintetizzato la situazione: «In Africa i miei nipotini hanno il
telefonino ma nessuno li chiama. Hanno la parabola satellitare ma la
usano per scegliere il paese in cui emigrare. Le ragazze vanno nei
tanti internet cafè per contattare uomini che le portino in Europa,
dove finiscono sulle strade a prostituirsi». Quella della professoressa
Makaping è una provocazione, anche se non troppo lontana dalla realtà.
Vale la pena di ricordare che l’analisi svolta da The Economist
(http://www.economist.com), la bibbia del capitalismo mondiale, sulle
nuove tecnologie informatiche e della comunicazione nei paesi poveri
arrivava a questa conclusione: «Un computer non serve se non hai cibo,
non hai elettricità e non sai leggere. (…) La telefonia mobile è la
tecnologia con il più grande impatto sullo sviluppo» (10 marzo 2005).
Altro problema delle nuove tecnologie è la loro invasività. Oggi si
diffondono i microchip polifunzionali che si  impiantano sotto
pelle (come il Rfid, Radio frequency identification, che identifica
automaticamente e a distanza persone, animali e oggetti). E domani che
sarà? Ecco perché sono d’accordo con le preoccupazioni espresse dal
professor Umberto Galimberti («Psiche e techne. L’uomo nell’età della
tecnica», Feltrinelli 2000): «Non c’è più nessuno che sia in grado di
controllare la tecnica, ma è la tecnica a divorare gli uomini, compresi
quelli che hanno il potere di immettere nel circuito le informazioni.
Essi infatti devono tener conto dei gusti degli utenti e questi gusti a
loro volta sono indotti dal mezzo. Insomma nel conflitto tra uomo e
macchina perde sempre l’uomo».
Un altro filosofo, il francese Jean Baudrillard, non vede affatto bene
questa invasione della tecnologia: «La peculiarità dell’essere vivente
è di non arrivare al limite delle sue possibilità, mentre l’oggetto
tecnico fa il contrario: esaurisce le sue possibilità e le dispiega a
dispetto di tutto, anche dell’uomo, determinando più o meno a lungo
termine la sua scomparsa. (…) Non c’è analogia più bella, per
illustrare questo passaggio all’egemonico, della fotografia diventata
digitale, liberata nello stesso tempo dal negativo e dal mondo reale. I
due passaggi, naturalmente su scale diverse, hanno conseguenze
incalcolabili. Significano la fine di una presenza singolare
dell’oggetto, visto che può essere costruito digitalmente. Fine del
momento singolare dell’atto fotografico, perché l’immagine può essere
immediatamente cancellata o ricomposta. Fine della testimonianza
irrefutabile del negativo».

Ogni fine anno Time, il noto settimanale Usa (http://www.time.com),
sceglie il personaggio che, a suo dire, più ha segnato l’anno appena
concluso.
La copertina dell’ultimo numero del 2006 raffigurava un computer a
schermo piatto su cui si riflette l’immagine del lettore, perché
«L’uomo dell’anno sei tu. Sì, sei proprio tu. Tu controlli l’era
dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo». Insomma, l’anonimo utente
di internet sarebbe il cuore della «nuova democrazia digitale».
L’enfasi di Time arrivava a tal punto da titolare un articolo: Power To
The People, Potere al popolo. Ironia della sorte, proprio nei giorni
dell’uscita di questo numero si scopriva che i servizi segreti degli
Stati Uniti potranno mettere il naso nelle e-mail e nelle transazioni
delle carte di credito dei passeggeri europei che vanno negli Stati
Uniti. Ad ulteriore conferma dell’ambiguità delle nuove tecnologie e
della pericolosità di una loro adozione acritica.
Non è certo, infine, se la scelta del settimanale Time sia stata
completamente autonoma o piuttosto influenzata da interessi
commerciali. Questo è forse il punto centrale della questione: dove
finisce l’utilità di una nuova tecnologia e dove inizia il consumismo
ingiustificabile e insostenibile?

Paolo Moiola

Paolo Moiola

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