Un volto, un nome, un fratello

Nel «Centro Allamano» di Iringa alcune volontarie collaborano con le missionarie
della Consolata, nella prevenzione e assistenza ai malati di Aids. Una dottoressa e una volontaria raccontano le lore esperienze di sofferenza di fronte al dolore umano e di gratificazione per quanto ricevono dai pazienti.
I malati che vi ricevono attenzione e cure, vengono coinvolti nell’aiutare gli altri a lottare con coraggio contro il nemico comune dell’Hiv/Aids.

A distanza di un anno, sono tornata in quel pezzetto d’Africa, dove ho lavorato come medico, seppure solo per due anni. Già l’anno scorso questa generosa terra di Tanzania mi si è presentata diversa da come me la ricordavo. Alcuni progressi, certo: più strade asfaltate, più mezzi di comunicazione, più telefoni… Ma, nel complesso, la nazione è peggiorata per via del flagello dell’Aids.
Lo si legge su riviste impegnate in prima linea in questa lotta impari; a volte, gli echi di tale strage silenziosa giungono persino sulle pagine di alcuni nostri quotidiani. Le grandi promesse dei politici del G8 non hanno sortito finora alcun risultato concreto, in termini di progetti fattibili. Un’altra cosa è, però, vedere con i propri occhi. Per quanto una foto o un servizio televisivo siano realizzati bene, non si prova lo stesso effetto di quando si entra in un ospedale, dove i malati giungono spesso ridotti in condizioni pietose, sapendo di non poter guarire, ma almeno certi che non moriranno soli e senza alcuna consolazione.
Così, pur sapendo bene cosa avrei visto e quali tragedie umane avrei incontrato (o almeno sfiorato per pochi giorni), sono tornata in quell’Africa subsahariana dove povertà, malnutrizione e malattie endemiche hanno trovato in questo virus un alleato formidabile per fare strage di un’intera generazione, rendere orfani migliaia di bambini (spesso infettati dalla nascita) e provocare una reazione a catena con ripercussioni sociali ed economiche che solo ora il mondo sta conoscendo, anche se fa comodo a molti mettere la sordina, per evitare probabili contraccolpi economici a livello planetario.
I ricordi si affollano, non so da quale storia cominciare, anche perché sono tutte ugualmente tragiche.
M aria è ha meno di vent’anni; è malata di Aids e, nel momento in cui scrivo, forse è già morta. La ricordo su un pagliericcio in una stanza piccola, ma dignitosa e pulita. Fuori, nel piccolo cortile davanti alla porta, alcuni bambini fanno festa alle mie figlie venute con le caramelle. Dentro, con lei, i genitori, in piedi in fondo alla stanza.
Maria è «pelle e ossa», rannicchiata sotto una coperta di lana, malgrado i trenta gradi di oggi. Le viene messa una flebo, appesa a un chiodo nel muro; non riesce più a nutrirsi, perché un germe le ha infettato le mucose dalla bocca fino all’intestino, che non riesce più a assorbire i cibi, causandole una dolorosa diarrea.
Gli occhi infossati mi guardano: qualcuno le ha spiegato che sono un medico e negli occhi le si è accesa una luce di speranza. Vorrei dirle qualcosa, ma il mio swahili fa cilecca (è soltanto un problema di lingua?); riesco solo a balbettare alcune parole di cordoglio e poi le lacrime mi annebbiano la vista. Le prendo la mano per qualche istante. Forse il gesto serve più a me che a lei. Mi occorre sentirla, quella mano fredda e malata; almeno un contatto umano, al di là delle parole. Vorrei uscire, scappare; ma il ricordo di Maria non mi lascia proprio.
Passano pochi minuti e con Paola, una volontaria italiana che lavora al «Centro Allamano» di Iringa, torniamo alla base. Rientrano anche le altre infermiere che hanno finito il giro di visite domiciliari. E le storie si ripetono: un bambino è morto stanotte, una mamma è stata ricoverata in ospedale in fin di vita; pochi sono quelli che migliorano.
È la tragedia dell’Aids in Africa, ove i farmaci sono per pochi, troppo pochi. Paola abbozza un po’ di numeri: «Qui abbiamo in cura domiciliare circa 1.500 malati di Aids: a tutti portiamo da mangiare e, poi, cerchiamo di curare le infezioni, alleviare il dolore, dare ai malati un po’ di dignità. Solo per 130 abbiamo i farmaci; è stato difficile inserire i pazienti nella lista dei candidati alle cure.
Seguiamo le indicazioni del ministero tanzaniano della sanità, ma molti sono fuori dal programma di trattamento, a causa della mancanza di fondi; perché i farmaci adesso arrivano, ma per loro sono troppo costosi (una cura costa più dello stipendio annuale). Solo per il supporto alimentare a domicilio, i vestiti e le rette scolastiche per i figli, spendiamo circa 10 mila euro al mese. Abbiamo fra i nostri utenti 150 bambini, ma sono destinati a morire, perché non possiamo fornire loro i farmaci.
Ecco, se già prima avrei voluto scappare, adesso rimango senza parole e, a distanza di 20 giorni da quell’incontro, ancora mi tornano alla mente i 150 bambini destinati a morire. E questo non è che uno dei tanti luoghi che ho visitato, dei tanti missionari che ho incontrato; le storie si ripetono, ognuno ha centinaia di malati da curare, migliaia di orfani da assistere.

C erto, ai ricordi tristi si alternano anche momenti di gioia, come l’esperienza vissuta al villaggio di Ihela, nella regione dell’Ukinga, ove spesso si reca suor Emelina, missionaria della Consolata. Insieme incontriamo la gente del villaggio e pranziamo con loro. Qui, l’anno scorso abbiamo cominciato un progetto di adozioni a distanza dei bambini orfani. È una esperienza di «gemellaggio», di vicinanza, di familiarità con i più poveri, che ha riempito di gioia il cuore mio e di quelli che erano con me, ricordandoci quanto sono vere le parole di Gesù: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere».
E, ancora, i ricordi belli: tante persone che abbiamo incontrato e che stanno dando la vita a servizio di chi soffre, missionari, ma anche laici, come il dottor Gerold, un medico tedesco che lavora come volontario a Ikonda. Egli mi ha impressionato, oltre che per la sua professionalità, per la sua grande umanità verso i malati, che cura con amore e dedizione totale.
Ora non ho che un sogno: vedere tanti bambini sorridere, avere tante mani da stringere e scorgere finalmente la speranza sul volto di questi fratelli e sorelle che il Signore mi ha dato la gioia di incontrare sul cammino.

Marina Barcella Franceschi

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