Tracce di consolazione

Problemi e prospettive di pastorale ed evangelizzazione missionaria fra gli indigeni del Chimborazo

Gli indios del Chimborazo, fra cui lavoriamo, come missionari della Consolata, nella diocesi di Riobamba, sono divisi in nazioni, secondo distinzioni originarie che risalgono al periodo preincaico. Si avvertono, tuttavia, forti influenze, pressioni sociali e mescolanze (sovrapposte e trasversali), frutto di più di 500 anni di impero ispanico.
Abbiamo di fronte, quindi, un ritratto culturale, politico e organizzativo ufficiale, che include, però, un volto nascosto e invisibile. Pubblicamente, la società indigena si presenta con un’ identificazione amministrativa secondo schemi comunitari (dal cabildo locale alla federazione intercomunale), che vive all’ombra di un’organizzazione classista, che si impone sempre di più come movimento sociale e politico. Tuttavia, a ben vedere, la realtà etnico-culturale che si manifesta, raggiungendo dimensioni drammatiche, è la solitudine: i bambini vanno soli, i giovani vanno soli, gli adulti vanno soli, le donne vanno sole. Le affermazioni unitarie, da parte delle varie giunte locali e organizzazioni, sono pura pubblicità senza una vera applicazione alla realtà perché, in fin dei conti, frutto di un’imposizione.

N onostante il contesto conflittuale, dovuto allo sforzo di promuovere e formare persone nel nostro territorio pastorale, si vedono già alcuni segni di consolazione. Questi segni traspaiono negli uomini e nelle donne che sentono l’esigenza di una riflessione critica, che iniziano ad interrogarsi, che si chiedono la ragione delle decisioni prese. A queste persone, ora, bisogna giustificare i passi intrapresi e la veridicità dei proclami pubblici.
Dal 1990, quando gli indios, per la prima volta, fecero sentire con forza la loro presenza e pretesero di essere considerati e consultati nelle decisioni, comincia una nuova fase. Emerge una presa di coscienza chiara, anche se ancora racchiusa dentro i segni incerti di un processo che è appena agli inizi e, perciò, ancora lento.
Un altro segno di consolazione appare nell’urgenza di ritornare alle caratteristiche culturali proprie: idioma, usanze, tradizioni. Si parla di pensiero proprio, codici di comportamento propri, anche di sistemi giudiziari e penalizzazioni sancite secondo antiche tradizioni popolari. Si afferma il bisogno di identificarsi con schemi differenti da quelli nazionali e, nella nuova costituzione, si parla di un Ecuador multietnico e plurilinguistico. Si riconoscono, perfino, come diritti costituzionali, i diritti collettivi delle differenti presenze etniche: nazioni indie e nazioni di origine africana.
Non mancano, tuttavia, segni di desolazione; uno dei quali è, senza dubbio, la mancanza di un concetto chiaro di «consolazione». Nell’idioma quichua ordinario, la lingua degli indios, il verbo «consolare» arriva solo a esprimere il «soffrire assieme». Il significato che noi diamo alla parola consolare, quello, cioè, di «fare felice qualcuno» non entra ancora nel linguaggio comune. «Maria Consolata» diventa così «dolorosa», colei che soffre i nostri mali.
Un altro segno di desolazione è la «comunitarietà», identificata e venduta come caratteristica peculiare della comunità, soltanto da chi non è in grado di leggere molto a fondo la realtà. Di fatto, manca la intercomunitarietà negli eventi quotidiani della vita interfamigliare e sociale. La mentalità chiusa e la diffidenza tra comunità vicine fanno pensare ad una mancanza di riconoscimento dell’altro a livello basico.
La nostra risposta religiosa e missionaria, a livello istituzionale, parte con buone intenzioni ma, certamente, non è in grado di andare oltre le parole e le inquietudini.
Lo sforzo per programmare incontri, a ogni livello di categoria e geografia, è intenso. Dialogare è un fattore estremamente positivo e, senza dubbio, mai prima d’ora, si era verificata tanta promozione di dialogo come oggi. Si corre però il rischio che tutto questo dialogare si risolva, alla fin fine, in meri incontri organizzati per «esigenza di copione», in cui non riesce ad emergere la chiave di lettura della realtà. Non si riescono a vedere cambi di mentalità, sforzi sinceri per verificare le posizioni programmatiche e un lavoro che conduca a valutazioni schiette della realtà. Si avvertono critiche, lamentele, malesseri: l’arca è grande e, alla fine, c’è posto per tutti e per tutto. Si continua a parlare di famiglia, ma in realtà i problemi di convivenza fratea sono feriti e minimizzati. È preferibile, quindi, insistere a parlare di comunità, perché, in fondo, la comunità è un ufficio grande, dove i professionisti possono convivere benissimo otto ore al giorno, per poi ritornare ciascuno alla propria famiglia, alla propria solitudine e ai problemi di sempre.

P enso che ci sarebbe la possibilità di esprimere il nostro carisma in sintonia con il contesto reale. Lavoriamo per costruire una chiesa che sia comunione di fede, speranza e carità. In tal modo, la consolazione lavora per inserire nella chiesa una volontà caratteristica di apertura, disposta a restituire la visibilità culturale e spirituale propria, interrotta nel passato.
Se la chiesa è davvero sacramento universale, gli indigeni dovrebbero riuscire a diventae segni idonei. Dovrebbero «rivestirsi di Cristo», senza scartare le proprie memorie; arricchirsi del pensiero cristiano, senza disattivare completamente il proprio pensiero.
Ci sono dei paradigmi, oggi, in grado di esprimere l’esigenza di rispettare ed esprimere il «proprio» culturale. Si potrebbe cominciare con un paradigma di inculturazione pastorale. Il primo passo dovrebbe essere quello di «indigenizzare» i posti pastorali, facendo in modo che gli agenti di pastorale indigeni siano una maggioranza e che, di conseguenza, si possano fare programmazioni e valutazioni, partendo dalle forze locali. In questo modo, risulterebbe più facile capire se la diversità culturale ha davvero l’opportunità di essere avviata verso un’interculturalità creativa, per un rinnovamento pastorale nella pratica della evangelizzazione.
Noi siamo ancora troppo legati a consolazioni «materiali». Si continua a lavorare in ambiti di promozione sociale, di assistenza giuridica nei casi di ingiustizia contro i poveri, di sviluppo e formazione della leadership, nel tentativo di creare una mentalità comunitaria in grado di affrontare problemi di disabilità e altri ritardi o limiti, fisici e mentali.

L a chiesa locale, dal canto suo, non va oltre la «stagione della parola». I documenti sono coraggiosi per la critica e l’indignazione che esprimono. Diventano lettura ardita e meditazione interessante; ma rimangono solo buone intenzioni. Quelli che hanno firmato i manifesti incontrano insuperabili difficoltà a realizzare quanto scritto e, arrivati al dunque, a puntare esplicitamente il dito contro i colpevoli.
Per agire, si dovrebbe essere capaci di rispondere con decisione alle seguenti domande:
1. Che tipo di consolazione si considera necessaria per gli oppressi, oggi?
2. Che stile di presenza missionaria esige un ideale così impegnativo?
3. Che aspetti e atteggiamenti dovremmo approfondire e trasformare, a livello personale e comunitario, come regione e come continente, per vivere con maggior coerenza il nostro carisma di consolazione nell’oggi della storia?
Sono tutte eccellenti domande che si scontrano, oggi come oggi, con la nostra povertà «numerica» e qualitativa e che, molto difficilmente, potrebbero essere elaborate in risposte credibili e vissute. Consoliamoci, almeno, con la nostra caratteristica misericordiosa, che emerge nonostante tutto e che aiuta a superare la tristezza di quello che passa il convento.
Diceva Fito Paez (cantante argentino): «Quién dijo que todo está perdido? Yo vengo a ofrecer mi corazón…» (chi ha detto che tutto è perduto? Io vengo a offrire il mio cuore).

Giuseppe Ramponi

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