DOSSIER KOSSOVONel bus dei kossovari

Da Peja-Pec (Kossovo) a Rovereto (Italia)

Un viaggio sulle strade di Kossovo,
Albania e Italia diventa un’occasione per guardare al recente passato.
E cercare di immaginare un possibile futuro.

È presto quando arrivo davanti all’agenzia viaggi da dove dovrebbe partire l’autobus. L’appuntamento è per le sei meno dieci: arrivo puntuale ma non c’è nessuno, solo un signore con giacca, pantaloni scuri e camicia nera. Vestito comodo per viaggiare, penso io.
Dopo un quarto d’ora si parte, ma da Peja siamo solo in tre passeggeri. Da qualche parte salirà qualcun altro e un altro autobus arriverà da Pristina. L’albanese non lo parlo bene e lo capisco meno, ma questo è sufficiente per le formalità: «Dove vai, dove ti fermi, sei italiano?». C’è anche un uomo che parla italiano.
Intanto siamo diretti verso Prizren e riconosco posti e tratti di una strada percorsa tante volte, tre anni fa. Alla periferia di Peja una casa serba che avevo fotografato per documentae lo stato alla padrona che era scappata è ora utilizzata come deposito di bottiglie di birra o altre bibite. Poi c’è il cimitero albanese curato e con tombe nuove e quello serbo integro, ma abbandonato. La visione di insieme è più normale rispetto ai miei ricordi. Ora ci sono i tetti sulle case, cioè il telo rosso d’emergenza è stato sostituito dalle tegole. C’è poi Ljubenic, dove sono state uccise 60 persone e ora c’è un monumento a ricordarle; un altro villaggio più avanti era stato bombardato nel ’98 dall’aviazione serba ora è, alla vista, totalmente ricostruito.
Arriviamo a Decan, anche qui monumenti e un paio di passeggeri. Arriviamo a Gjakova, non prima di aver passato la zona industriale in parte bombardata e ancora abbandonata. La stazione dei bus a Gjakova è di fronte alla caserma del contingente italiano, negli spazi di una ex caserma serba.
Un ragazzo saluta un uomo più anziano e un bambino. Si allontanano su una macchina con targa tedesca, probabilmente dono del figlio immigrato. Compro del burek e del pane per il viaggio: non spendo molto e mi pare di aver fatto un affarone.
Si riparte. Altro paesaggio noto, reso più normale dall’avvenuta ricostruzione. Le casette a schiera costruite dal regime per accogliere serbi nella regione e tentare di serbizzare il Kossovo ora come tre anni fa sono abitate da albanesi, risparmiate dal fuoco vendicatore. Passiamo poi da un paese (di cui non ricordo il nome); c’è un deposito di gas bombardato dalla Nato tale e quale a come lo ricordavo. Vedo l’imboccatura della strada per Suva Reka, ma non ho rimpianti per non essere stato anche da quelle parti a trovare i vecchi amici. In cuor mio so che, a breve, sarò di nuovo qui.
Più avanti ricordo le vigne, un albergo abitato da gente senza casa che oggi è vuoto (tutti hanno un loro tetto ora). Dove 4 anni fa (quando percorsi la prima volta questa strada) c’era ancora un monumento ai partigiani e al Bratsvo iedinstvo (fratellanza e unità), le corone di fiori per le vittime albanesi di una strage avvenuta durante i bombardamenti sono diventate un monumento che ha preso il posto di quello vecchio.
Siamo ormai a Prizren, ma non si passa dal centro, quindi non posso apprezzare la bellezza di questa città che ricordo bella. Altra sosta: arrivano quelli da Pristina. Siamo ancora pochi, forse una quindicina. Si parte.
Poco fuori dalla città ci si ferma per fare acquisti, poi di nuovo in marcia e vedo la frontiera di Morini, che era il segno della fuga albanese e che tanto triste era nei telegiornali e nei filmati dei nostri volontari e tanto era giorniosa quando, il 20 giugno del 1999, anch’io la attraversai sulle tracce di quei profughi che tornavano a casa. Passare quella frontiera voleva dire la fine di un incubo.
La parte che era stata occupata dai serbi ora non fa più paura anche se un poliziotto internazionale bulgaro parla serbo.
Il trattamento da parte della polizia Unmik e di quella internazionale non è però tanto educato. Ci fanno scendere tutti e ci mettono in fila. Un poliziotto tedesco guarda i nostri documenti e analizza minuziosamente i visti tedeschi sui documenti dei miei compagni di viaggio. Quando arriva a me, mi chiede il permesso di soggiorno. Prontamente, rispondo: «Sono italiano: non mi serve il permesso di soggiorno».
Passa oltre e controlla particolarmente due ragazzi. Uno viene fermato: pare che utilizzasse un passaporto non suo. Un altro ragazzo è tartassato un po’. Alla fine, si parte verso i controlli della polizia albanese; siamo uno in meno.

ALLA FRONTIERA ALBANESE

Alla frontiera albanese ci sono lavori in corso e la strada è dissestata. Ci vengono dati i cartellini per il «visto»: il risultato è che io con il passaporto italiano pago 10 euro, quelli col passaporto Unmik o jugoslavo nulla e quelli con il travel document tedesco due e mezzo.
Dei bambini che vendono sigarette salgono sull’autobus, sono molto insistenti e vengono cacciati a malo modo. Ciò nonostante continuano a sostare nei pressi del mezzo, finché non arrivano altri potenziali clienti.
Passiamo oltre e l’Albania si presenta povera e triste come la ricordavo, ma forse la stagione, il verde o il tempo mi fanno pensare che in qualche cosa sia migliorata. Ci sono i bunker e il paesaggio duro, pastori e contadini che falciano l’erba, vecchie case malandate e un container con una croce rossa dipinta sui lati è diventato un baracchino dove si vendono bibite e altri generi di conforto.
Kukes appare brutta, ma forse meglio di 4 anni fa. Stanno facendo lavori di consolidamento sulla strada. Lo scheletro di una fabbrica o di una miniera domina la città come allora. Cerco le tracce dei campi profughi ma non riesco a ricordare o ad individuare la loro ubicazione. Mi colpisce una scritta che inneggia all’Uck, forse lì dal tempo del soggiorno dei kossovari.
Avanti il paesaggio albanese ha la costante dei bunker disseminati sul territorio all’epoca di Enver Hoxa. Incontriamo bambini che tornano da scuola. C’è chi ci saluta e chi ci fa gestacci con la naturalezza tipica dei bambini. Il paesaggio è aspro, povero, ma bello e affascinante. Rimpiango di aver lasciato la macchina fotografica nello zaino che sta nel bagagliaio. Mi assopisco, ma poi mi sveglio. Siamo fermi.
Una Mercedes bianca è ferma avanti a noi, c’è un poliziotto, una specie di finanziere visto che ha una fascia con scritto «dogana». Non capisco quale infrazione ci contesti, ma poi siamo costretti a caricare dei pacchi di riviste (destinate agli immigrati in Germania) sulla macchina del finanziere, che stranamente ha targa kossovara; chissà come il finanziere ha importato la sua auto con targa kossovara in Albania. Ci viene contestata una certa infrazione sulle regole di importazione.
La contrattazione è concitata e continua. Non capisco i termini dell’accordo, ma quasi tutti i pacchi di riviste tornano sull’autobus. Più tardi ne sfoglio una e mi accorgo che è una specie di Settimana enigmistica in forma albanese. Siamo proprio dei criminali incalliti: siamo stati fermi per quasi un’ora su di una strada di montagna in Albania per importazione illegale di enigmistica!
Il viaggio continua. Incomincio a conoscere i miei compagni: tutti uomini che da anni lavorano in Germania, chi con tutta la famiglia al seguito, chi da solo, cioè con moglie e i figli rimasti in Kossovo.
C’è anche Norbert, il ragazzo tartassato dalla polizia Unmik. Lui sta sempre zitto, non parla praticamente albanese (figlio di immigrati, penso).
Dormo a tratti, ma la curiosità per il paesaggio più che la strada accidentata non mi permette un sonno prolungato.
Facciamo una pausa presso un ristorantino molto carino e pulito, ma io non mangio (questioni di budget e di linea), poi il burek di Prizren mi ha riempito lo stomaco.

AL PORTO DI DURAZZO

Arriviamo piuttosto presto a Durazzo, dove facciamo una prima sosta ad un distributore di benzina moderno e di stile occidentale (molto diverso da quelli incontrati nell’interno). La sosta serve per il lavaggio dell’autobus. Noi passeggeri aspettiamo e osserviamo le fasi del lavoro.
Converso con l’unico viaggiatore che parla italiano. Lui è arrivato a destinazione. Si ferma a Durazzo per un matrimonio, poi ritoerà in Kossovo. L’uomo mi racconta di aver lavorato per la Croce rossa italiana e ora per una Ong inglese di nome War Child, che si occupa di bambini.
Mi racconta di aver vissuto molti anni in Croazia, ma poi con l’inizio della guerra nel ‘91 è tornato in Kossovo, dove il destino gli ha regalato la guerra del ‘99. In Croazia ha perso casa e negozio, in Kossovo altrettanto. La sua famiglia ora vive in Canada. Parla dei serbi come la causa di tutte le guerre dei Balcani, anche se ammette che non sono tutti criminali.
Parliamo in generale della Jugoslavia di Tito e lui dice che gli albanesi comunque non sono mai stati liberi e che il regime ha sempre impedito lo sviluppo del Kossovo. Qui si arrampica sugli specchi e mi dice: «Guarda le città albanesi come sono ben costruite urbanisticamente, con le strade larghe, non come in Kossovo» e mi indica la superstrada costruita un anno fa, che abbiamo di fronte.
Dopo una giornata passata sul sistema viario albanese, mi sento di smentire questa affermazione. Hoxa dal punto di vista urbanistico non era meglio di Tito, anche se giudicare due dittatori dal sistema viario dei loro paesi mi sembra limitato.
Saluto l’amico che parla italiano che parte su una macchina guidata dai parenti dello sposo e risaliamo sull’autobus. Ormai faccio parte del gruppo con l’appellativo di «italiano».
Altra sosta, ad un crocevia. Dobbiamo aspettare che arrivi quello dell’agenzia che ci venderà i biglietti del traghetto. Passano moltissime macchine di lusso e altrettante cadenti segno delle contraddizioni albanesi; molte di queste automobili hanno targa italiana, tutti gli autobus sono italiani, passano anche mezzi della Kfor italiana, segno che qui c’è qualche base logistica. Aspettiamo un’ora e mezza durante la quale familiarizzo ulteriormente con i miei compagni di viaggio. Chiaramente si finisce a parlare di donne, particolarmente di quelle kossovare. Loro smentiscono il fatto che nei villaggi sia pericoloso avvicinare le ragazze, io faccio molte volte il segno del fucile e dico in un albanese maccheronico: «Khalash, kossovar gelos». Loro negano. Non ci credo. Comunque sia, io non sono mai stato in Kossovo per le donne.
La geografia è un altro argomento che va per la maggiore: da dove vieni?, dove vai?
Finalmente arriva l’addetto dell’agenzia. Entriamo in un ristorante bar, dove una scrivania funge da ufficio distaccato. L’uomo dell’agenzia è un vecchio minuto, un po’ sgarbato, che raccoglie tutti i nostri passaporti e incomincia a compilare una lista sollevando e abbassando continuamente gli occhiali, che nulla possono contro la sua miopia. Quest’uomo, che da tutti poi verrà chiamato semplicemente «plaku» (vecchio), mi ricorda uno dei personaggi del film Lamerica.
Dopo un po’, ci chiama uno ad uno: 35 euro senza cabina, 45 euro con la cabina. Norbert, il ragazzo albanese che non parla albanese, viene aiutato dagli altri che parlano il tedesco. Al gruppo si aggiungono altri due ragazzi, albanesi d’Albania: uno si fermerà a Bari, mentre l’altro proseguirà per la Germania.
Quando, finalmente, ci dirigiamo al porto già comincia a far buio. Arriviamo davanti ai cancelli e sullo sfondo c’è il nostro traghetto. Nota caratteristica di questo viaggio da qui in avanti sarà l’attesa. Aspettiamo davanti al cancello, sorvegliato da un poliziotto, una mezz’oretta. Poi «plaku» ci dice che il nostro traghetto non partirà: ha un’avaria, dobbiamo muoverci verso un altro molo, dove è attraccata la nave Palladio della Tirrenia.
Il biglietto ci costerà 10 euro in più per il passaggio ponte, mentre per chi, come me, sognava una cabina il prezzo è proibitivo. Aspettiamo un altro po’. Ora per «plaku» il problema è trovare i biglietti per questa nave. Facciamo i controlli di polizia: gli albanesi non mi chiedono il permesso di soggiorno e una bella ragazza mi timbra il passaporto in uscita. Raggiungiamo la nave e inizia una nuova, lunga attesa. Non abbiamo i biglietti e non possiamo salire.
Intanto alcuni di noi mancano all’appello, rallentati dai controlli di polizia. Aspettiamo almeno due ore: arrivano tutti tranne Norbert (l’albanese che non parla albanese). Lui rimane a terra: pare che la foto sul passaporto non gli somigliasse molto.
Sono già le undici quando il «plaku» ci porta i nostri biglietti. La nave è piena di gente e, oltre al personale, penso di essere l’unico italiano in coperta. Sono tranquillo, ormai sono uno del gruppo e, come tutti i kossovari, nell’attesa e poi sulla nave, ho modo di criticare i fratelli albanesi d’Albania. Salgo sul ponte per vedere la partenza. Poi mi trovo una poltroncina e dormo quasi tutta la notte, in uno stanzone con altre 60 persone.
Quando mi alzo, siamo già in vista della costa. Finalmente attracchiamo a Bari e già sogno casa, anche se so che ci sono almeno 10 ore di autobus. In qualità di italiano, supero tutta la fila degli albanesi e un poliziotto in borghese, dopo aver dato una occhiata veloce al mio passaporto, mi dice: «Vai Bettini, vai».
Sono fuori per primo tra il mio gruppo. Il nostro autobus arriva poco dopo, ma avverto che c’è qualche problema: l’assicurazione montenegrina è scaduta da qualche giorno e finché non si ha un’assicurazione valida non si parte. Intanto, nell’attesa, vado a vedere se arrivano gli amici kossovari. Un poliziotto in divisa mi chiede il passaporto e il perché io, italiano, mi trovo a viaggiare su un autobus di immigrati, albanesi kossovari. Rispondo naturalmente che sono povero come loro e che ho vissuto due anni in Kossovo. Fortunatamente, il poliziotto non è maleducato e questo impedisce che la mia indignazione prenda corpo.
Alla spicciolata arrivano tutti, solo il fax con la conferma dell’avvenuto pagamento assicurativo tarda. Poi tutto d’un tratto la cosa si risolve e si parte: sono le undici e mezza.
Ci fermiamo ad un autogrill, dove non faccio nemmeno caso all’altro autobus, parcheggiato di fianco al nostro. Poi vedo che gli altri scaricano i bagagli e, dopo aver chiesto informazioni nel mio albanese oramai perfetto, capisco che stiamo facendo un cambio di automezzo. Altre persone, anch’esse kossovare, salgono sul bus dal quale scendiamo noi. Capisco poi che il nostro bus con targa montenegrina toerà subito verso il Kossovo per questioni assicurative, trasportando delle persone che fanno il viaggio in senso contrario al nostro.
Il nuovo bus è anche più vecchio del precedente e ha targa KS ossia kossovara.
Finalmente mangio un panino col prosciutto, mentre i miei compagni di viaggio si deliziano guardando videocassette popolari del tipo «gzuar 2003» o ancor peggio del sano umorismo nazional-popolare, condito di canzoni patriottiche con tanto di cantante davanti alla casa di Adem Jashari a Drenica, ora Skenderaj.
La scorta di videocassette dura almeno fino a Verona. Io mi difendo con il walkman e un po’ dei «Ventitre giorni della città di Alba» di Beppe Fenoglio.
Ad ora di cena ci fermiamo nuovamente presso un autogrill. Andiamo verso il bagno e un’addetta alle pulizie dice qualche cosa del tipo: «Arrivano anche i kossovari». Non capisco bene il senso della frase, ma mi verrebbe voglia di sbatterle in faccia il mio passaporto italiano e chiederle cosa ha contro i miei amici albanesi. Mi stizzisco e, quando esco, non le lascio la mancia.
È strano sono in Italia e altri italiani mi credono straniero e mi guardano come tale. Trovo la cosa interessante ed istruttiva, per questo mi sforzo ancor più di parlare albanese… Nessuno ti dice nulla, ma sono gli sguardi quelli che parlano. Alla donna delle pulizie mi verrebbe da dire che i kossovari, che lei guarda come pezzenti, probabilmente in Germania guadagnano più di lei.
Finalmente le montagne prendono il posto della pianura e in un batter d’occhio siamo a Rovereto. Saluto tutti, ormai siamo amici.
Ciao, compagni di viaggio, buona fortuna, Rruga moor. •

Fabrizio Bettini

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