MGONGO (TANZANIA) tra i ragazzi di strada

LA CASA CHE RESTITUISCE I SOGNI

Iniziata con una ventina di ragazzi di strada,
oggi la Faraja house (casa della consolazione)
ne accoglie 130, con storie di emarginazione
che stanno diventando storie d’amore e solidarietà:
le racconta l’iniziatore di quest’opera.

Il 1° maggio del 1997, a Mgongo,
periferia di Iringa, c’era un edificio
con un gruppo di 11 bambini:
nasceva così la Faraja house (casa
della consolazione) per i ragazzi di
strada. Oggi è un grande villaggio
con tante case e casette, scuola elementare,
scuola tecnica, dispensario,
strutture per allevamenti e, al centro
del tutto, una bella chiesetta. E poi
tanti bambini e ragazzi di ogni età, figli
della miseria e abbandono. Le loro
storie sono una litania di abusi, fame,
furti, prigione… lotta per la sopravvivenza.

Il nostro diario è pieno di racconti
e avvenimenti, successi e insuccessi,
ma sempre conditi d’amore ed entusiasmo,
nonostante tutto.

VOGLIA DI CAREZZE
I primi arrivati ora sono «giovanotti
» e frequentano i corsi tecnici o
o le scuole superiori. Abi è uno di essi:
una storia dura per lui e per me;
un cammino difficile, ma fruttuoso.
Era un bambino pauroso e introverso.
Dodicenne era già condannato
a sette anni di carcere per aver rubato
una radio. Dopo due anni riuscì
a scappare. Vagabondò per un
altro anno, finché fu accolto in un
centro per ragazzi di strada che, sotto
il nome di Ong, ancora oggi sfrutta
bambini con impunità e la connivenza
di qualche pezzo grosso. Raccontava
che là picchiavano sodo e si
mangiava poco.
Scappato dalla casa di accoglienza,
Abi si fece altri sei mesi in galera
a Iringa; poi fu trasferito al carcere a
Mbeya. Riuscì quasi subito a evadere,
ma fu ripreso e sottoposto a botte,
lavoro, fame e castighi. Riuscì
nuovamente a evadere e fuggì a Iringa
dove si aggregò a una piccola banda
di ragazzi che vivevano di espedienti:
diventò maestro di furti e bugie
per sopravvivere.
Arrivò a Mgongo nel luglio del ‘97.
Mi raccontò la «sua» storia, quasi
tutta inventata: diceva che i genitori
erano morti quando lui era piccolo;
ma si lasciò sfuggire il nome del villaggio
d’origine, lontanissimo, nel
nord del Tanzania. Riuscii a risalire
alla famiglia attraverso il parroco del
luogo: suo padre pretendeva che il
figlio tornasse in prigione. Decisi di
tenermelo senza far sapere dov’era.
Dopo mesi arrivò la mamma, avvertita
in segreto. Era partita da casa
con uno stratagemma, perché il marito
non sapesse. S’informò del figlio,
che non vedeva da tre anni. Raccontò
che il padre lo odiava visceralmente,
perché il bambino era un ladruncolo
fin da piccolo. Una volta gli bruciarono
le mani, legate con erba secca;
ma non era servito a niente.
Quando Abi vide la mamma si
voltò dall’altra parte e si rifiutò di salutarla.
Mi sussurrò: «Quando ne avevo
bisogno, lei dov’era?». Era solo
un bambino abbandonato e «stanco
», ma con tanta voglia di carezze.

IN CERCA DI RADICI
Alì è uno degli ultimi arrivati. Lo
incontrai al mercato mentre ero in
giro con amici di Torino. Era affamato,
sporco, cencioso. Lo avvicinammo
e fummo subito circondati
da una turba di ragazzi e giovani habitué
del mercato che mi supplicarono
in coro: «Baba Faraja, prendilo
con te, perché è troppo piccolo e
non riesce a sopravvivere».
Guardai gli amici e lo invitammo
a salire in auto per parlargli con più
calma. Chi sei? Da dove vieni? Hai
parenti? Dalle poche parole che
riuscii a tirargli fuori, seppi
che aveva un padre e abitava
nei sobborghi della
città, l’ultima casa ai piedi
della montagna. Decidemmo
di andarlo a
trovare, anche se avevamo
fretta: stava per
scendere la sera. La capanna
era chiusa. Si avvicinò
un giovane e gli
chiedemmo informazioni. Arrivò una
donna che, dopo lunghe spiegazioni,
si presentò come «zia». Quante zie in
Africa. Risulterà poi essere la matrigna.
Il bimbo era spaurito. Pareva avere
8-9 anni; ma la zia disse che ne aveva
almeno 15. Ci spiegò che il padre
era al kilabu (osteria). Lo incontrammo
per strada: era ubriaco.
A vedere il figlio con dei bianchi,
l’uomo si spaventò e cercò di spiegarci
che «lui non c’entrava»: aveva
solo collaborato a metterlo al mondo;
la madre se n’era andata e non si
era fatta più vedere; per questo il ragazzo
era con la «zia».
Domandammo anche a lui quanti
anni avesse il figlio. Rispose che ne
aveva 17. Era chiaro che, passata la
sbornia, lo avrebbe fatto ringiovanire.
Lo invitammo a venire
al centro la domenica
seguente, per
foirci, a mente
lucida, altri chiarimenti,
ventilando,
se non si fosse
presentato, un’eventuale
denuncia
alla polizia per abbandono
di minore.
Per questo ci affidò il
figlio molto volentieri. A casa cominciò
un arduo lavoro di restauro
per renderlo presentabile: era pieno
di vermi, scabbia, pidocchi e altro.
Alì ha 12-13 anni, ma non li dimostra.
La madre morì quando ne aveva 2.
Se n’era preso cura una zia, vecchia e
sola, ma poco dopo lo aveva riportato
al padre: cominciò per lui una tremenda
vita di stenti, vagabondaggi,
fame, botte; finché andò a vivere sulla
strada.
Ora Alì va a scuola. Vuole rompere
col passato: si fa chiamare Rich, come
il protagonista di un film. Almeno
i sogni nessuno glieli può rubare.
È arrivato anche Fabian, amico inseparabile
di Alì-Rich: la notte dormivano
in un mucchio di crusca vicino
ad un mulino per tenersi caldi e
nascondersi; di giorno, in giro a cercare
di che sfamarsi, raspando tra i
rifiuti del mercato. Rimasto solo alla
stazione delle corriere, è venuto pure
lui, piuttosto malconcio, a chiedere
di essere accolto alla Faraja.
Fabian era scappato da casa dopo
la morte della madre. Veniva da molto
lontano, oltre 300 km da Iringa,
da qualche paese dell’Ukinga, di cui
non ricorda il nome. Per tre mesi, a
piedi, vagabondò di villaggio in villaggio.
Da 5 anni faceva vita da randagio
per le strade di Iringa.
Ho fatto delle ricerche, ma è stato
come cercare un ago nel pagliaio: il
suo cognome, Sanga, in quella zona
è comunissimo. Ora è con noi, senza
radici; ma ha ritrovato l’amico e una
casa per sognare. Ha solo 12 anni.

CARCERE DELLA VERGOGNA
La domenica molti ragazzi di strada
della città vengono alla Faraja per
lavarsi, mangiare e giocare con i nostri;
verso sera li riportiamo sulla
piazza del mercato. Intanto mi faccio
raccontare le loro storie. A seconda
dei casi, cerco di rintracciare
i parenti; li aiuto ad andare a scuola;
li tiro fuori dalla prigione. Con qualcuno
ci sono riuscito.
Anche Dicki, sorriso accattivante e
ladruncolo imbattibile a12 anni, mi
ha raccontato la sua storia di violenze:
arrestato per vagabondaggio, fu
buttato in prigione e rinchiuso in un
camerone con 52 adulti. Due di loro
l’hanno ripetutamente violentato di
fronte agli altri, senza che nessuno si
sia mosso a pietà delle sue grida.
Il giorno dopo il suo racconto, feci
irruzione nell’ufficio dell’assistenza
sociale con tanta rabbia in corpo
e grande sconforto: gli addetti a tale
ufficio fanno poco o niente; d’altronde
sono pochi, quasi senza mezzi
e con meno voglia e autorità.
La rabbia più forte la scaricai sul
capo delle prigioni: un omone mellifluo
e panciuto, da gran bevitore,
che, tra le altre cose, mi disse vigliaccamente
che ragazzi come Dicki
ci sono abituati e ci stanno. Mi viene
da credere che sia tutto combinato:
che ogni tanto arrestino qualche ragazzino
della strada per darlo in pasto
ai carcerati.

SOLIDARIETÀ DEI POVERI
Pochi giorni fa, passando per il
mercato, trovai una grande folla che
vociava e sghignazzava. M’informai
e mi dissero che stavano picchiando
un piccolo ladro. Sceso dall’auto, mi
avvicinai. La folla aprì un varco; tutti
mormoravano: «Baba faraja». Arrivato
sul luogo della scena, vidi che
alcune «guardie» del mercato stavano
bastonando Jonny e un energumeno
lo prendeva a calci in pancia,
mentre Tray cercava di frapporsi col
suo corpo e invocava pietà.
La mia presenza fermò i bastoni; i
ragazzi mi spiegarono l’accaduto:
Jonny aveva voluto aiutare un europeo
a portare la borsa per guadagnarsi
qualche soldo; ma qualcuno
aveva frainteso il gesto e si era messo
a gridare: «Al ladro! Al ladro!».
In tali occasioni tutti si trasformano
in «giustizieri» e diventano spietati,
fino a uccidere il malcapitato a
botte, oppure gli legano le mani, gli
infilano al collo un vecchio copertone
inzuppato di petrolio e danno
fuoco. È successo pure che a qualcuno
hanno bucato gli occhi.
Presi per mano i due ragazzi, veramente
malconci, e li portai all’ospedale.
Ancora oggi, Jonny e Tray
portano in faccia e sulle gambe i segni
di quelle botte. Tray ne è fiero:
«Solidarietà tra reietti!».
Questi bambini sono i famosi «ultimi
» del vangelo, destinati a «primi
». In certe occasioni si risveglia il
buon cuore anche dei più monelli,
tanto che bisogna frenarli. Nell’ultima
quaresima, per esempio, alcuni
ragazzi decisero in assemblea di «dare» qualcosa ai più poveri di loro. Le
idee erano tante: una delle squadriglie
(così sono organizzati i 130 ragazzi)
propose di rinunciare alla colazione
del mattino e dare l’equivalente
in denaro. Alla fine fu deciso
che il giovedì pomeriggio, invece della
solita partita a pallone, avrebbero
raccolto pietre da costruzione sulle
montagne vicine per poi venderle.
Per me il giovedì pomeriggio si trasformò
in un incubo, al vedere i fianchi
della montagna brulicare di bambini
e ragazzi che facevano rotolare
a valle grossi massi, preceduti e seguiti
da tante ansiose raccomandazioni.
Tra l’altro, temevo che da sotto
i massi uscisse qualche serpente,
anche se non credo che i ragazzi si sarebbero
spaventati più di tanto.
Ne raccolsero tre camionate. Il ricavato
lo usammo per aggiustare la
casetta di Huruma, un’orfana di 12
anni, che vive con la nonna cieca: oltre
ad accudirla, trova il tempo di andare
a scuola.

ADULTI DA SENSIBILIZZARE
Il numero dei ragazzi di strada
continua ad aumentare, anche a causa
dell’Aids. Orfani a causa di tale
pestilenza, essi non sono più assorbiti
nel tessuto sociale dei villaggi,
perché sono diventati troppo numerosi;
non resta loro che sciamare per
le strade delle città, organizzarsi in
bande e diventare facilmente piccoli
delinquenti.
È difficile trovare per tutti una soluzione
definitiva. Intanto, abbiamo
fretta di aprire un ufficio in città: un
centro di prima accoglienza o di primo
soccorso dei bambini in difficoltà
e, al tempo stesso, un mezzo
per spiegare e sensibilizzare gli adulti,
le comunità parrocchiali e i «capoccia
» di ogni genere, perché passino
dal disprezzo e paura a capire,
aiutare e (perché no?) amare
anche questi «figli di
Dio» meno fortunati.

Franco Sordella

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