TANZANIA – Alunno con gli alunni

Mettersi a scuola dei propri discepoli
può diventare un’esperienza simpatica e arricchente.
Ce la racconta un missionario.

«Mkwawa» è il nome di una delle molte scuole superiori nella città di Iringa, che la rendono quasi una piccola capitale dell’educazione. Ai tempi coloniali si chiamava «Scuola di Sant’Alberto e San Giorgio»: due nomi di tipica connotazione inglese. Ma, con l’indipendenza, era giusto che fosse battezzata col nome di «Mkwawa», un soldato che a Lugaro, vicino ad Iringa, il 17 agosto 1891 sconfisse i tedeschi e per parecchi anni li tenne in scacco.
Mkwawa, straordinario eroe dell’etnia dei wahehe, tutto scaltrezza e audacia, tradito, non aspettò la morte da parte dei suoi nemici, ma se la inflisse lui stesso. Oggi è lui il padrino dell’omonima grande scuola, dai molti fabbricati, che conta 1.705 studenti, tra ragazzi e ragazze. Poiché (per costruire unità nel paese) è prassi del governo mescolare studenti di tutte le tribù e di ogni provenienza e chiesa, qui ogni zona del Tanzania è sicuramente rappresentata. Sono fieri i ragazzi, per i buoni risultati scolastici, di essere stati scelti per questa scuola di reputazione nazionale che li prepara all’università o ad altre istituzioni di alto livello.
Sorprendentemente, metà degli alunni sono cattolici. Da alcuni mesi, nel desiderio di avere un contatto pastorale diretto, sono il loro cappellano. Sono giovani svegli ed è una gioia celebrare la messa con loro.
Organizzati in vari gruppi e associazioni, discutono volentieri (e a lungo) nei loro dibattiti. Per conoscere meglio la realtà giovanile, esservi sensibile e «aderente» nelle omelie, mi venne l’idea di impegnarli in un’intervista. Il suggerimento fu accolto con entusiasmo. Subito si trovarono 5 ragazze e altrettanti ragazzi disposti al martellamento delle mie domande. E così, in due sedute, potei raccogliere opinioni, riflessioni e sentimenti.
Non fui deluso nelle mie aspettative. Nessuna reticenza, ma loquacità, forza, convinzioni. E così, la scuola che frequento… divenne maestra anche per me, proprio come desideravo.
Dieci gli interlocutori: Edgar, Renalda, Anna, Yohane, Anastazia, Edward, Beatrice, Catherine, Joseph e Shukran (quest’ultimo nome significa «ringraziamento»), dai 19 ai 22 anni. La loro provenienza: dalla zona del Kilimanjaro a quella del Ruvuma, cioè dal nord al sud, specchio della scuola stessa.
Ecco alcune delle domande poste.

Cosa ne pensi della scuola?
Le risposte si ripetono.
L’ambiente è bello e piacevole, con piante e fiori. Buone le relazioni degli studenti tra di loro e con i maestri. Questi si impegnano, tuttavia sono solo 51, mentre al minimo dovrebbero essere 78. Gli alunni hanno un vero desiderio di studiare. Sono molti però i problemi strutturali: costruzioni vecchie, mancanza di libri, biblioteca inadeguata, laboratori per le materie scientifiche non equipaggiati, ecc. L’acqua (purtroppo non pulita) scarseggia e, spesse volte, si prende il tifo!

Com’è la relazione dei cattolici con gli studenti delle altre chiese e religioni?
I giudizi sono convergenti e rispecchiano la realtà, in generale, del paese.
La relazione è facile e bella. Si instaurano buoni rapporti di cooperazione e condivisione, anche nella preghiera, con gli studenti della comunità luterana e anglicana, raccolti in un’unica associazione. Faticoso è, invece, il rapporto con i gruppi di estrazione pentecostale e fondamentalista, che continuano ad accusare i cattolici delle stesse cose: culto della croce, adorazione della vergine Maria, ecc.
Più difficile ancora con i musulmani, che sono circa 150-200. Il problema non è a livello personale, ma di gruppo: si sente che è una fede diversa; per cui sono piuttosto appartati, non partecipano alle attività extracurriculari, si considerano i soli e veri credenti, manifestano disprezzo per i cristiani. Non desiderano che ci si avvicini alla loro moschea e che si partecipi alle loro attività; si aiutano tra di loro, ma tutti gli altri ne sono esclusi.

A «Mkwawa», l’aspetto «tribale» fa problema?
Una risposta è corale: «Non c’è tribalismo né tra gli studenti né da parte degli insegnanti. Ci aiutiamo a vicenda in tutte le nostre difficoltà, senza considerare la tribù o il posto di provenienza. Ci sentiamo una sola famiglia e nazione».
Ma anche nel coro ci può essere una voce stonata. Ed ecco uno affermare che gli studenti di una certa regione hanno costituito il loro gruppo: lo vede come un’espressione tribale.

Quali sono i maggiori problemi del nostro Tanzania?
Non è facile confessare le proprie povertà, sia a livello personale che comunitario. Ma gli studenti lo hanno fatto con molta schiettezza e «compassione». Sono i problemi che vivono le loro famiglie, le difficoltà vere del loro quotidiano e riscontrabili, purtroppo, ovunque.
«Il nostro paese è povero, non produce, non ha risorse. Ha un grande debito internazionale, che mortifica i suoi sforzi di sviluppo. È molto indietro nel campo della tecnologia e telematica e questo ci fa chiedere come sarà il futuro per noi. Mancano strade e quelle che ci sono non ricevono la dovuta manutenzione; per cui comunicazioni e trasporti sono difficili. La disoccupazione è preoccupante, le prospettive di impiego quasi nulle… Molti genitori non possono far studiare i loro figli. L’area della salute è a rischio; non si trovano medicine e il servizio ospedaliero è carente. Molte le malattie che imperano: malaria e tifo; a volte esplode il colera. L’Aids causa un alto numero di orfani e depaupera il paese di forze giovani.
Quanto alla politica, non è ancora chiaro ed efficace il sistema pluripartitico come strumento di vera democrazia».

Quali le caratteristiche «positive» del nostro paese?
Alla litania dei problemi e delle sfide, segue quella degli aspetti positivi.
E sono tanti: «Pace, accoglienza, uguaglianza, assenza di guerre tribali e fratricide. Frateità e condivisione, particolarmente nei momenti di festa e lutto. Si sono pure svolte due elezioni politiche con il sistema di più partiti e non ci sono state difficoltà rilevanti; tanto meno c’è stato spargimento di sangue. È assicurata la libertà di azione e appartenenza ai vari partiti e chiese. Le relazioni con i paesi confinanti sono ottime. Il Tanzania, per decenni, è stato generoso nell’accogliere rifugiati. La chiesa cattolica è numerosa e forte nella fede. Gode di stima, è impegnata nel sociale e nello sviluppo. Possiede una buona leadership e mantiene rapporti di cooperazione con le altre chiese, religioni e governo».
È stato certamente un grande dono del Tanzania, fin dall’indipendenza, il non avere avuto significative divisioni. Anche il futuro sembra incamminato in tale direzione. Le parole più ricorrenti durante le ultime elezioni politiche erano: pace, frateità e sviluppo. A volte, però, ci si chiede se non sia una pace… troppo pacifica. Non sarebbe meglio dare più voce alle proprie sofferenze, ingiustizie sociali e diritti? La pazienza e la sopportazione in Tanzania sono smisurate.

Gli studenti di «Mkwawa» sono passivi o dinamici?
Dovuto anche al loro numero, a dire di tutti gli intervistati, gli studenti cattolici sono una vera forza. Organizzati in varie associazioni (Tanzania Young Catholic Students, Legio Mariae, Terziari francescani, Gruppo vocazionale, Coro…), sono in prima linea nella carità: visitare gli ammalati e i prigionieri ogni domenica. Appaiono sempre là dove l’aiuto e la solidarietà sono richiesti: pulizia nei vari posti, donazioni di sangue, interventi di emergenza.
«Ci vogliamo bene. Ci aiutiamo. Siamo additati agli altri come esempio. Ci sono giovani veramente maturi nella fede come persone»: sono le loro espressioni. È la loro percezione di se stessi.
Vi aspettereste risposte diverse? Un pizzico di orgoglio per la propria identità ci vuole pure! Ma (e sarà orgoglio anche il mio?) so che queste affermazioni sono la verità. L’avevo notato fin dall’inizio: molti incontri e attività caritative, sempre ben preparate e organizzate, con molti che vi partecipano.

Che cosa farai nella vita?
«Difficile prevedere il futuro: è nelle mani di Dio. Inoltre il nostro paese nella sua povertà offre poco e la vita è veramente difficile. Ma non mancherà l’aiuto di Dio per disceere, scegliere e agire».
Nonostante titubanze e incertezze, alcuni si esprimono chiaramente circa il proprio futuro. Yohane ed Edgar desiderano essere medici. Joseph non lo sa; chiede luce al Signore, ma di una cosa è certo: vuole proclamare il vangelo con tutta la sua vita. Anche Renalda ancora non ha scelto una professione, ma si propone di essere una buona laica. Anna e Beatrice pensano alla consacrazione religiosa. Catherine: la sua passione è essere ingegnere e buona madre di famiglia. Anastazia mira ad essere maestra o avvocato. Edward e Shukran contemplano il sacerdozio.

C’è una connotazione lodevole nelle risposte di tutti: una dimensione apostolica in qualsiasi professione. Tutti qualificano la loro risposta, dicendo che vogliono essere testimoni della parola di Dio, annunciarla nella vita e nell’aiuto agli altri.
Sono soltanto parole, buoni propositi al vento, o frutto di una vera maturità, acquisita nella frateità, nell’aiuto vicendevole e con la formazione in varie associazioni? C’è di tutto, e ci sarà di tutto. Ma non sono sicuro che in questi giovani (rappresentanti di tutti gli altri) c’è un seme vero e fecondo. Lo dicono il loro impegno e serietà.
C i sono state altre domande e risposte, ma queste bastano per dare un’idea del clima della scuola.
A titolo di informazione: mi hanno chiesto di continuare a «stimolarli» con dibattiti simili, per non «accontentarsi» ed essere sempre critici con la realtà e se stessi. Lo farò. Non è comune una richiesta del genere. I giovani hanno bisogno di coltivare i semi di bene che portano dentro. L’alba promettente di Mkwawa può diventare una piccola luce per il paese e la chiesa.

Giuseppe Inverardi

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