Un calcio al “resistol”

Le storie di Kelvin, Nelly, Carla, Jimmi, Juan Carlos si assomigliano tutte. Sono bambini cresciuti
sulle strade di Tegucigalpa, tra indifferenza e fastidio, vivendo di espedienti, spesso inalando
il «resistol», la terribile droga dei poveri. Poi la sorte li ha portati a «Casa Asti», un centro di amicizia, solidarietà, tenerezza e integrità, diretto da Susanna Arrighi,una psicologa astigiana.

Avevo percorso la calle Real con Susanna, ma quella era la prima volta in cui camminavo da sola per le strade di Tegucigalpa, la capitale dell’Honduras. In quel momento, la città mi parve racchiudere una realtà ancora più tragica.
Bambini addormentati sui marciapiedi sopra i cartoni (1), uomini e donne, con mutilazioni e deformazioni di ogni genere, seduti ai margini della strada a chiedere l’elemosina. E ancora: venditori ambulanti (soprattutto donne e bambini), che urlavano in cerca di clienti; bambini che inalavano resistol, la droga dei poveri (2), fermi davanti alle vetrine di locali nella speranza di poter rubare immagini di vita felice dalla televisione; macchine e pullman che correvano all’impazzata sulle strade, indifferenti a tutto e a tutti.
Mi soffermai a guardare un grande albero secco, situato sulla riva del fiume, sul quale si erano posati grossi rapaci neri (zopilotes) e mi chiesi in quale razza di posto fossi finita. Mi voltai e, per concludere lo scenario, lo sguardo cadde su rifiuti, detriti, macerie risalenti ancora all’uragano Mitch (1998) e bambini scalzi che frugavano nell’immondizia. Erano le 8 del mattino e la città era nel pieno della vita.

Ero triste pensando a quei bambini, ai loro diritti e all’impossibilità di farli valere. Presa da questi pensieri, improvvisamente mi sentii chiamare: «Profesora, profesora».
Era Kelvin, un niño de la calle, che frequentava saltuariamente «Casa Asti».
– Hola! – gli dissi -. Vieni con me al centro?
– No – rispose secco.
Conoscevo bene la motivazione. Il suo capogruppo apparteneva alla squadra che abitava sotto il ponte e gli aveva detto di non andare a «Casa Asti», in quanto avrebbe dovuto guadagnare qualche lempira (la moneta locale) per comprare il resistol.
Io allora dissi a Kelvin che mi sarei fermata un po’ a fargli compagnia. Che gioia provai quando vidi i suoi occhi illuminarsi. Stetti con lui cercando di farmi capire (era solo una settimana che stavo in Honduras e a mala pena conoscevo lo spagnolo). Gli mostrai alcune cartoline dell’Italia, raccontando come si vive nel nostro paese. Dopo un’ora, ci salutammo con la promessa che sarebbe venuto a «Casa Asti».
Ero felice. Tutti i pensieri tristi dell’inizio-mattinata erano spariti. Ancora oggi, pensando a Kelvin, ho impresso il sorriso di quel giorno. Kelvin incominciò a frequentare regolarmente il centro. Diceva agli altri niños: «L’ho promesso alla profesora».
Con il tempo incominciò ad aprirsi, a dialogare raccontando di sé e della sua famiglia. Adorava disegnare, ma preferiva farlo da solo, in una stanza tutta per lui. Era uno dei pochi momenti in cui poteva avere un luogo «suo».
Si prendeva un peluche sulle gambe e dava libero sfogo alle emozioni: disegnava sempre una casa e un albero (è facile intuire quale forte desiderio comunicavano queste raffigurazioni). All’inizio, nei suoi disegni, il cielo era coperto da nuvole e pioveva; poi incominciò a spuntare il sole e, infine, quest’ultimo brillava alto nel cielo.
Un giorno mi venne vicino e felice mi disse: «Emanuela, sono tornato a casa!».
Andai a trovarlo. Viveva in una guarderia, una grande baracca fatta di tavole di legno e lamiera nella quale si ricavano quartos (stanze). Ho ancora presente l’odore di quei locali. Sono un po’ come le cantine dei nostri alloggi. Eppure Kelvin era orgoglioso della sua stanza.
Mi presentò la sua famiglia: la mamma, le sorelle, la zia. Raccontò loro che era mio amico e che io abitavo in un paese lontano (dovevo prendere ben tre aerei!).

Kelvin è uno dei tanti niños de la calle che ho conosciuto: ma ci sono anche Freddy, Nelly, Carla, Jimmi, Juan Carlos e tanti altri. Tutti hanno in comune il forte desiderio di trovare qualcuno che gli dia un po’ d’amore e affetto.
E tutto questo è ciò che Susanna Arrighi, una mia concittadina, sta cercando di fare con il progetto che, da più di un anno, è nato in Honduras.
Il progetto si chiama «Casa Asti» perché Susanna è un’astigiana. Ma «Asti» è anche un acronimo: a come amistad (amicizia), s come solidaried (solidarietà), t come tenuria (tenerezza) e i come integridad (integrità).
Il lavoro si rivolge ai «niños de la calle» (con l’ambizione di estendersi anche alle famiglie che si sono trovate a dover vivere per strada, dopo il disastro provocato dall’uragano Mitch e le false promesse di aiuto da parte del governo). Moltissimi bambini vivono, dormono, vagabondano, rubano, chiedono l’elemosina… Tutta la loro vita si svolge sulle strade della città, tra l’indifferenza generale.
Sono come un fenomeno di costume, fanno parte del paesaggio, nessuno si ferma a parlare con loro, la gente li evita, ha paura e ribrezzo. Eppure sono bambini!
Non aspettano che una parola buona, che qualcuno li consideri, li veda, dia loro un po’ di attenzione. E Susanna cerca di dare tutto ciò. «Casa Asti» è un rifugio dove poter vivere una giornata da bambini normali. Possono giocare, dormire, studiare, guardare un po’ di televisione, fare – perché no? – anche i capricci.

I niños de la calle vengono avvicinati per le strade. Si offre loro qualcosa da mangiare, vengono medicate le ferite, spiegato brevemente cos’è «Casa Asti», dove si trova, come arrivarci.
Se decidono di conoscerla subito, li si accompagna, in bus o camminando, approfittando del momento per conoscersi un po’ di più. Una volta giunti, li si presenta agli altri, li si invita a lavarsi e cambiare la roba che indossano. Viene offerta loro la colazione e vengono integrati alle varie attività che si sviluppano nel progetto, rispettando tempi, gusti, preferenze di ciascuno. Possono leggere, scrivere, disegnare, giocare, guardare la televisione, fare lavoretti di manualità, dormire, imparare a lavorare il vimini, discutere in gruppo, avere un supporto terapeutico; essi stessi possono suggerire argomenti ed attività agli educatori. Quando le loro condizioni fisiche lo richiedono, vengono accompagnati alle visite mediche, generiche o specialistiche (del cui costo si fa carico «Casa Asti»).
Non esistono regole rigide, a parte il rispetto reciproco e gli orari dei pasti, nonché la condivisione dei compiti (come aiutare nelle faccende domestiche: scopare, lavare i pavimenti, spolverare, ecc.). I niños possono venire all’ora che vogliono ed andare via all’ora che vogliono, o fermarsi tutto il tempo.

Il progetto si rivolge anche alle famiglie aiutandole in interventi di natura burocratica (fare i documenti, iscrivere i bambini a scuola, ecc.), medica (visite, vaccinazioni, medicinali, ecc.), socio-assistenziale (ricerca di un lavoro o di un impiego migliore e meglio retribuito, o di una casa più dignitosa, acquisto di mobilio di base, ricerca di un hogar dove eventualmente ospitare i bambini, ecc.), legale (denunce per maltrattamenti, violenza domestica e familiare, dichiarazioni di stato di abbandono o negligenza, ecc.), psicologica (supporto terapeutico, gruppi di auto-aiuto, ecc.), religiosa (battesimi, cresime, matrimoni, ecc.).
Tutti questi interventi richiedono molto tempo per la loro esecuzione, sia per la cultura imperante (un machismo esasperato, una autostima femminile bassissima) sia per il livello di ignoranza di molte famiglie. Senza dimenticare la grande diffidenza verso gli estranei e i problemi burocratici e legali, per lo scarso appoggio da parte degli enti governativi. C’è, infine, l’esiguità dei mezzi economici di cui «Casa Asti» dispone.

Il cammino è ancora lungo, la sfida è grande, le difficoltà sono tante. I problemi, a volte, paiono insuperabili, ma la consapevolezza di fare qualcosa, per poco che sia, per qualcuno di questi bambini, costituisce lo stimolo più forte per andare avanti.
Il sorriso dei bambini che, dopo mesi di vita di strada, hanno trovato la forza di lasciare il ponte sotto il quale vivevano e soprattutto il barattolo di resistol, è una ricompensa che ripaga le sofferenze e le fatiche di un progetto così grande.

NON MANCAVA CHE L’URAGANO

L’Honduras è una delle sei repubbliche che costituiscono l’istmo che lega America settentrionale ed America meridionale. Zona equatoriale dunque, tra i due oceani, l’Atlantico e il Pacifico.
Come superficie è un terzo dell’Italia, con una popolazione stimata di 6 milioni di persone. La parte nord, quella sull’oceano Atlantico, è la più sviluppata. Nelle pianure intee ci sono le grandi coltivazioni di banane, caffè, mais, tabacco, ananas. Il suolo, ove non presenta rocce o colline brulle e di non facile accesso, è generoso dal punto di vista agricolo. I raccolti dipendono molto dalle condizioni atmosferiche. Si sono alternati negli anni periodi di siccità forti e prolungati a periodi di allagamenti ed inondazioni. L’ultima, forse la più catastrofica, si abbattè con la violenza dell’uragano «Mitch» (fine ottobre 1998). Tutto il paese fu toccato brutalmente dalle forze della natura coalizzatesi nei turbini prodotti da venti ed acque fluviali terrificanti.
Il 51% degli honduregni è costituito da bambini e adolescenti. La popolazione dell’Honduras è dunque molto giovane. Il 46% dimora nelle aree urbane (la capitale Tegucigalpa conta circa un milione di abitanti) ed il restante 54% in zone rurali. Le famiglie in situazione di povertà sono ben il 76%, delle quali il 45% in condizioni di autentica miseria. Considerando la sola popolazione dei minori di anni 18, ben il 61% vive in stato di povertà estrema. E, come avviene in tutti i paesi in via di sviluppo, l’incremento demografico è dell’ordine del 3% annuo.
Secondo l’«Organizzazione degli stati americani» (Osa), tra tutti i paesi del continente per qualità e durata della vita l’Honduras è penultima, precedendo la sola Haiti.
Per ciò che riguarda la sanità, le condizioni sono ritenute «inadeguate» in termini di abitazioni, controllo igienico della persona e degli alimenti, acqua potabile, strutture ospedaliere ed ambulatoriali, fognature e raccolta di rifiuti.

Se vogliamo dare uno sguardo alle problematiche infantili, ne ricaviamo un quadro disastrato. Si stima che migliaia di ragazze, tra i 14 e i 17 anni, siano madri (madres solteras): esse, per le condizioni in cui vivono, sono esposte ad aborti o a procreare figli che nascono sotto peso. Abbandonate dalle famiglie d’origine, a loro volta queste ragazze, con una certa frequenza, abbandonano i figli.
Quanto all’educazione scolastica, 7 bimbi su 10 non ricevono attenzione prescolare, soltanto 3 su 10 terminano le elementari (durano 6 anni), il 24% dei bimbi in età dai 6 ai 13 anni non frequentano nulla. L’analfabetismo si aggira attorno al 45-50%.
E questo a confermare l’ennesimo fallimento dell’Onu. La «Convenzione sui diritti del bambino» era stata votata all’umanità dall’assemblea generale delle Nazioni Unite alla fine del 1989. Dopo 10 anni, la situazione è notevolmente peggiorata. In Honduras e in tutti i paesi del cosiddetto «Terzo mondo».

Nel 1990 quando conobbi Emanuela, essa frequentava le scuole superiori ad Asti. Con altri compagni di classe, si era impegnata nel finanziare un’adozione a distanza in Honduras, dove io nacqui nel 1922. Nello stesso anno (1990) ero ritornato a Tegucigalpa, la capitale, per occuparmi di bambini, i niños de la calle.
Così Emanuela incominciò ad accostarsi a quel paese. Sono trascorsi 10 anni ed Emanuela, come raccontato nell’articolo, ha trascorso le ferie a «Casa Asti». Durante queste vacanze ha anche visitato l’Hogar don Bosco, nato nel 1990 per iniziativa di un missionario salesiano, padre Ottavio Sabbatin, e sviluppato fino ad ospitare 50 bambini interni ed altrettanti estei nell’asilo nido (guarderia). Oggi è gestito da una associazione honduregna presieduta da un missionario salesiano spagnolo, padre Edoardo Martin, e ha l’appoggio economico di un nutrito gruppo di benefattori veneti. Per fortuna, l’uragano Mitch ne ha risparmiato le strutture.

(*) A «Casa Asti» è volontaria la figlia di Edoardo Arrighi, Susanna, psicologa. Per informazioni contattare l’autore al numero telefonico 0141.215051.

Emanuela Musso

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