Beirut rivuole il paradiso

Il piccolo paese mediorientale è un laboratorio
religioso: cristiani, musulmani-sunniti
e musulmani-sciiti cercano una via di convivenza.
Ma i problemi non sono pochi. Dopo due guerre civili
(1958 e 1975), oggi il Libano patisce
una doppia occupazione (Siria e Israele) e ospita
mezzo milione di profughi palestinesi (musulmani).
Certamente la loro presenza ha contribuito
a rompere il fragile equilibrio del paese,
spostando l’ago della bilancia a favore
della componente islamica.
Per la «terra dei cedri» tornare alla prosperità
di un tempo è un sogno difficile da realizzare.

Francesca ha tanti amici in tutto il paese. Un paese piccolo e molto popoloso, il Libano, dove è facile incontrarsi, specialmente se si visitano i luoghi legati alla sua millenaria storia. Quando si incontrano, i libanesi si baciano tre volte, sulle guance, con affetto e simpatia. Possono essere drusi o armeni oppure maroniti, come lei. Ma per Francesca un amore ancora non c’è anche se sono passati già 13 anni da quella sera di pasqua, quando il suo ragazzo fu ucciso da un cecchino.
Si era nell’86 e i due giovani, che si erano conosciuti all’università, si erano dati appuntamento la sera, per uscire insieme. «Pensavo mi avesse fatto uno scherzo; per cui non volli cercarlo, per ripicca». Quando il mattino seguente la radio annunciò più volte la morte del ragazzo, Francesca ascoltava, ma non capiva. Sentiva ripetere quel nome «Samir, Samir…» e sua madre la guardava e non osava parlarle. «Era bello, intelligente, di buona famiglia, avevamo gli stessi interessi, gli stessi ideali». Per 7 anni Francesca non volle vivere, lavorava soltanto. Studiava e lavorava agli scavi archeologici, una sua passione. La vita continuava, ma la ferita era troppo grande. Molti giovani uomini sono caduti durante i 17 anni di guerra civile. Pare però che le ragazze libanesi siano molto richieste, come mogli, da europei e americani che ne apprezzano le doti.
Francesca mi accompagna in questo viaggio e mi ringrazia per aver avuto il coraggio di ritornare, a oltre 4 anni dalla mia prima visita. Le cose non stanno andando bene, come si sperava allora.

Al mio arrivo dall’Italia ho assistito al corteo festoso che attendeva l’arrivo in aeroporto da Tel Aviv, via Francoforte, di 5 ostaggi liberati dagli israeliani. Ieri un’auto-bomba, guidata da un «martire» hezbollah, ha ferito alcuni civili, mentre tentava di colpire una colonna israeliana.
Il fatto è avvenuto a pochi chilometri da Tiro, nel sud vicino al confine con Israele. Il sud è un altro mondo: la costa è verde di piantagioni e bananeti; la collina è ricoperta di ulivi. Entrando in città, vedo un manifesto con la bandiera a stelle e strisce, dove le stelle sono teschi e le strisce grondano sangue. Le scritte denunciano le responsabilità degli Stati Uniti nel dramma irrisolto del sud occupato; altri cartelli portano le immagini di capi sciiti con barba e turbante.
Tiro è Terra santa. Qui, secondo una tradizione, ricordano ancora i luoghi prediletti dalla Madonna per sostare in attesa del figlio, entrato in città a predicare. Visitiamo i resti grandiosi della città, che il mito dice patria di Europa, la bellissima amata da Giove. Settimio Severo, l’imperatore di Leptis, la volle abbellire, ma gran parte dei resti antichi di 6.000 anni giacciono sotto i nuovi palazzi, che non saranno mai demoliti. Li occupano le famiglie degli eroi della guerra, e dalle loro finestre si abbraccia il porto fenicio, l’ippodromo immenso, l’acquedotto e le vie lastricate col colonnato e la necropoli.
Sento che qualcosa ci lega profondamente a questa terra. Prima di arrivare a noi, la cultura d’Oriente si è fermata su queste rive, ha preso forma nella parola scritta, si è arricchita e si è irradiata in tutto il mondo. Il mare lambisce queste rovine malinconiche. Unici visitatori siamo noi, con una famiglia di libanesi di Montreal, per la prima volta a Tiro coi loro bambini. «In Canada si vive benissimo, ma vogliamo far conoscere il Libano ai ragazzi». Mi dice il padre. Forse non toeranno mai più. C’è tristezza nelle sue parole.
Ho incontrato libanesi nei luoghi più remoti, tutti impegnati negli affari. Gestiscono alberghi e imprese commerciali. La maggioranza è benestante, unita in associazioni che mantengono stretti legami con la madrepatria. Quasi tutte le famiglie libanesi all’estero hanno un figlio o un parente a Beirut.
Siamo nel Chouf, la valle dei drusi, a pochi chilometri da Beirut. Deir el Qamar era il sogno di Fakardino, l’emiro druso che fu profondamente influenzato dall’educazione cristiana e dai contatti con la cultura italiana.
Accanto a eleganti palazzi, una sinagoga (ebrei spagnoli giunsero qui nel ’700) e moschee di pietra dorata, c’è una chiesa del quinto secolo, Sayidet et-Tallè, dove incontro Frate Raimondo, un giovane maronita che ha scelto la famiglia francescana per aiutare i poveri. Indossa il saio e non teme di usarlo anche quando è a Tiro, la sua città nel sud occupato dagli israeliani. Parliamo dei problemi della popolazione, degli hezbollah che continuano a lottare per liberare la loro terra.
«In questo paese le fila delle lotte armate sono tenute in mani lontane, in paesi stranieri che fanno i loro interessi. Ma non è così anche in Italia?». Fuori stazionano guardie armate. Forse sono siriani anche questi giovani col mitra, che sorridono contenti di essere fotografati.
La storia del Libano è anche quella di personaggi carismatici e delle loro grandi famiglie. La storia dei drusi è affascinante, la loro fede misteriosa, esoterica. Il feudo della famiglia Jumblatt (nobili signori drusi, legatissimi alle vicende del paese) è molto esteso. I palazzi sono di un’eleganza raffinata, in stile arabo con influenze fiorentine. La storia di Kamal, che studiò dai padri lazzaristi e fu ucciso nel 1977 dagli uomini di Assad, è riassunta nel museo a lui dedicato; e ora suo figlio Walid Jumblatt è uno dei politici più in vista, in questo Libano pesantemente controllato dalla Siria.

Nabil è un soldato druso, e lo si capisce dall’andatura e dalla stazza. Ora fa l’autista, ma al tempo della guerra ha combattuto, sui monti tra Aley, la sua città, e la valle della Bekaa, la valle dove, secondo la leggenda, Caino uccise Abele. Suo padre, che era nella polizia, morì a 50 anni d’infarto, lasciando una vedova con 9 figli. Una vedova saggia, che seppe crescere la numerosa prole nella cultura tradizionale.
I saggi, presso i drusi, sono coloro che hanno la conoscenza, gli unici a poter accedere ai testi sacri. Sin da bambini devono dimostrare di possedere una particolare sensibilità, e ricordare le vite vissute precedentemente. Allora vengono cresciuti dagli anziani, sulla base delle scritture, che comprendono, oltre al corano, anche i primi cinque libri della bibbia, il vangelo e le lettere degli apostoli. Sono loro che continueranno la tradizione, all’interno di una comunità che ha forte coesione e non può fare proseliti.
Il classico costume nero, con il lungo velo bianco per le donne e il copricapo per gli uomini, viene ormai indossato solo dagli anziani, che abitano queste montagne o alcune regioni del sud della Siria e in Israele. Le sorelle di Nabil sono tutte sposate e vivono in Canada e in Brasile.

Rientro tardi dalla messa in San Francesco, quando il traffico sempre intenso si è fermato: pare che nelle strade buie di Hamra vi sia il coprifuoco. Padre Jussuf, il parroco cappuccino che non porta il saio per non urtare la sensibilità degli abitanti del quartiere, tutti musulmani, mi ha fatto gli auguri. Poi mi ha raccomandato i poveri della parrocchia. Vedove o mogli di carcerati, tutte musulmane e molte anziane e sole, che possiamo «adottare» con offerte che consentano loro una vita dignitosa.
Salendo a piedi, tra le botteghe ancora chiuse per il ramadan, sento gli scoppi di petardi e sussulto. Non sono segni di festa, tra questi edifici ancora segnati dalla guerra, che le luci al neon e le facciate nuove non riescono a nascondere. Uno scoppio a poca distanza, sulla strada, con il fumo acre e passi nel buio che mi fanno sussultare. Col nodo alla gola rientro, passando veloce davanti al gigantesco portiere in tuba e giacca con le code. Un uomo imponente, con baffi neri girati all’insù, che sembra uscito da un circo equestre. Gli altri, i siriani della sicurezza o i poliziotti, che passeggiano tra ingresso e vie laterali, hanno il solito aspetto guardingo. Chissà a quale gruppo, a quale milizia appartengono. Al «Bristol» pare scendano personaggi importanti.
L’altra sera un tabellone annunciava la presenza dell’ambasciatore iraniano, per un convegno del partito Amal. Stasera invece vedo gruppi di libanesi eleganti, accompagnati da donne forse troppo truccate. Sostano nella hall, poi entrano nel salone dove ci sarà la festa. La musica è orientale, le luci sono basse e l’ambiente fumoso.
Troveremo il solito traffico intenso sulle arterie che ci portano a nord est. In Libano vi è una vettura ogni due abitanti e i servizi pubblici sono rari. Prima sostiamo in piazza dei martiri, davanti all’albero di natale coperto di palline rosse di luce. I contorni della chiesa armena, rimasta intatta, sono illuminati da file di lampade che la fanno sembrare più imponente. In fondo al piazzale vuoto scompaiono nel buio le moschee, ex antichissime chiese cristiane. Oltre, si intravedono le sagome delle nuove, lussuose costruzioni, ancora vuote, del progetto Solidère dell’ex primo ministro Hariri. Un quartiere nuovo e miliardario, tra le moschee e il nuovo porto turistico.
Superiamo la «linea verde», che tagliava la piazza e separava la zona musulmana da quella cristiana. Le insegne al neon, commerciali e natalizie, ci seguono lungo la direttrice che porta verso nord est. Superiamo Antelias, il quartiere armeno con la chiesa e la sede del catholicos, e attraversiamo Jounieh, tutta decorata di luci, presepi e slitte con le renne e i babbi natali. Lassù in cima al monte vigila la gigantesca statua della madonna di Harissa. Forse è troppo ostentata la potenza della chiesa, in questo paese oramai in gran parte islamico.
Con il loro carretto ricolmo, i venditori di fave aspettano clienti. Noi ci fermiamo presso la grotta dedicata a San Giorgio, per accendere un cero insieme ai devoti.

Hanno riaperto il «Casino du Liban». Era un luogo mitico, pare, negli anni dorati di Beirut, prima della guerra. L’edificio ricostruito del casinò si affaccia ora su un promontorio verde di giardini, con vista sulla città e la baia. Abbiamo un tavolo riservato per la festa di mezzanotte: oggi è il 31 dicembre del 1999 e in tutte le capitali del mondo si preparano i festeggiamenti.
«Chi non ha vissuto a Beirut, prima della guerra, non sa cosa sia il paradiso sulla terra». Sembra esagerata questa affermazione della signora armena seduta con la figlia accanto al mio tavolo, nella sala martingala, al primo piano del casinò.
È una donna malinconica, dal lungo naso e dagli occhi neri e penetranti, che ricorda con rimpianto gli anni in cui la vita a Beirut era proprio bella. Vedova, la signora Zekunian è tornata a Beirut, dopo quindici anni di esilio forzato a Parigi. «Per nove anni, fino all’83, abbiamo resistito qui, sperando che la guerra sarebbe finita presto. Poi mio marito ha trasferito gli affari in Francia, dove mia figlia ha compiuto i suoi studi. Sono tornata ora, perché sono rimasta sola. Qui sono le mie radici, qui abitano i miei parenti e noi libanesi siamo molto legati alla famiglia».
Nel 1982 infatti i palestinesi ricchi avevano lasciato Beirut, Arafat si era trasferito in Tunisia, e i grandi capitali erano stati ritirati dalle banche libanesi. Il paese era entrato in crisi e la lira libanese aveva subìto una pesante svalutazione. La speranza ora sta nella figura carismatica e, pare, onesta del presidente Lahoud, il generale che liquidò Aoun.
La vita a Beirut non sarà mai più la stessa. La lunga guerra non ha solo devastato il paese, alterando col cemento della ricostruzione l’armonia delle città e del paesaggio mediterraneo; ne ha inquinato l’anima, seminando diffidenza, sfiducia e anche paura tra gente che aveva sempre convissuto bene, da secoli. Facendosi i propri affari e lasciandoli fare agli altri. Dall’oggi al domani, durante quegli anni, chi era amico poteva diventare nemico, e viceversa.
La mezzanotte arriva, ma non vi è un segno che lo indichi. Guardiamo l’orologio, mentre nel resto del mondo si festeggia con fuochi d’artificio, che forse qui fanno paura. Il profilo della città pare tranquillo, attraverso la vetrata, mentre il pianista indugia ancora nel suonare canzoni francesi di mezzo secolo fa. Al piano terreno hanno sospeso per poco i giochi e le slot machines per assistere a una rumorosa processione di suonatori che salgono e scendono dalle scalinate. Donne in abito lungo e giornielli vistosi sostano interdette dallo spettacolo. Hanno distribuito i cotillones, ma dopo pochi minuti nessuno è disposto a continuare di fingere divertimento. La musica ora è quella napoletana, per noi che abbiamo scelto questo luogo per entrare nel 2000.

UN GIGLIO IN MEZZO ALLE SPINE

Rappresentano la più numerosa tra le varie comunità cristiane presenti in Libano. Nel paese mediorientale vi sono, infatti, anche gruppi di assiri, caldei, siro-cattolici, siro-ortodossi, greco-cattolici, greco-ortodossi, latini, protestanti, armeni-gregoriani e armeni-cattolici.
Marone era un eremita che viveva in odore di santità presso il fiume Oronte, in Siria. Dal suo monastero partivano i missionari, suoi discepoli, tra i quali sono ricordati molti santi, per evangelizzare le genti pagane di lingua aramaica che abitavano i monti del Libano. Tra i cristiani di Siria, i seguaci di Marone furono i soli ad aderire alle decisioni del concilio di Calcedonia: Cristo è vero Dio e vero Uomo. Nel 628 essi accettarono il monotelismo, dottrina di compromesso tra monofisiti e calcedonesi, approvata dal papa. Ricevettero quindi i favori dagli imperatori cattolici, ma ebbero anche molti martiri, a causa di gruppi di monofisiti a loro avversi. Accerchiati dall’islam, con la sconfitta dei bizantini i maroniti furono tagliati fuori dalle vicende della chiesa di Roma. Costretti ad abbandonare il loro monastero, distrutto dagli arabi, si rifugiarono nella valle Qadisha, sul monte Libano, dove nel 939 si stabilì il patriarcato. La «valle santa», ricca di eremi e monasteri, è ancor oggi il loro centro spirituale. Furono di aiuto ai crociati, indicando la via migliore per raggiungere Gerusalemme, e vennero da loro ricordati come valorosi soldati. I crociati porteranno la testa di San Marone in Italia, e ora si trova nel duomo di Foligno.
Non esistono prove di una costante fedeltà a Roma dei maroniti, né di una loro eresia. Essi si considerano gli unici ad essere sempre stati cattolici, anche se in occidente li hanno a lungo considerati tra gli «uniati» (termine spregiativo, usato dagli ortodossi per i membri delle loro comunità tornati all’unione con Roma).
Con la partenza dei crociati, i maroniti subirono la vendetta dei mamelucchi. Alcuni si rifugiarono a Cipro, altri rimasero arroccati nella loro valle, isolati ma fedeli a Roma. Leone X darà loro l’appellativo di «un giglio in mezzo alle spine». A quel tempo, ogni centro maronita aveva un preposto che governava a nome del vicerè di Tripoli, con dignità seconda solo al sacerdote. Sotto la dominazione ottomana viene incoraggiato l’insediamento di agricoltori maroniti nel sud. L’emiro druso Fakardino utilizzava governatori maroniti nei suoi domini e costruì conventi per i cappuccini. Fiorirono a quel tempo gli ordini religiosi e sorsero centri culturali e università, che, promuovendo studi e scambi culturali con l’Europa, furono cerniera tra la cultura d’Oriente e d’Occidente. Con la dinastia sunnita Chehab si ebbero numerose conversioni al cristianesimo. Questa relativa pace spinse i gruppi delle chiese uniate a trasferirsi in Libano: i melchiti nel 1725, gli armeni nel 1739, i siro-cattolici nel 1783. Il patriarca maronita era il solo capo religioso ad essere ricevuto alla corte ottomana come un capo di stato. Tuttavia, vi furono, a volte, persecuzioni e martiri che rifiutavano l’abiura. Nel 1860 il massacro operato dai drusi spinse molti maroniti ad emigrare nelle Americhe. Nel 1943 essi si vedono attribuire, col «patto nazionale», il seggio di presidente della repubblica. C.C.

Claudia Caramanti

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