
La giunta militare, al potere dal 2021, ha chiuso la breve parentesi democratica del Paese. Intanto le milizie etniche si sono alleate sottraendo all’esercito metà territorio. Quasi 8 milioni di persone hanno lasciato le loro case. L’economia è in crisi. Le scuole sono chiuse. E la Chiesa porta aiuti.
A Banmaw, città (si stima) di 65mila persone, nello stato Kachin, nel Nord del Myanmar, non ci sono elettricità né acqua, né linea telefonica.
Il centro abitato si è svuotato, come i villaggi delle aree circostanti. La popolazione è dispersa nelle foreste dove ha improvvisato insediamenti di tende e capanne e si sostenta con difficoltà, tra frutti spontanei e piccole risaie.
Anche le comunicazioni sono difficili, o del tutto tagliate dalla giunta militare al potere.
Per contattare il mondo esterno, padre Wilbert Mireh, gesuita birmano che aiuta il parroco nella chiesa cattolica di san Michele, nella zona rurale intorno a Banmaw, ha dovuto spingersi in una località al confine con la Cina per trovare corrente elettrica e internet.
Da quella postazione precaria ha raccontato che il centro pastorale della parrocchia in cui lavora è stato colpito dall’esercito birmano. «Cinque proiettili e due bombe aeree sparate contro il complesso della nostra chiesa hanno colpito la struttura ma non hanno ferito nessuno», ha riferito.
Mosaico etnico e militare
Banmaw – a 200 km a sud di Myitkyina, capoluogo dello stato Kachin -, ha una popolazione in prevalenza di etnia kachin, ma anche bamar, shan e han.
Il Myanmar è un Paese nel quale si registrano 135 gruppi etnici diversi, e Banmaw è un crogiolo di lingue ed etnie nel quale a un gruppo maggioritario si affiancano diverse minoranze.
In modo simile, si configurano anche gli altri sei stati (Chin, Shan, Kayah, Kayin, Mon e Rakhine) che compongono il Paese asiatico assieme alle sette regioni e al territorio amministrativo della capitale Naypyidaw.
Gli stati – macro regioni che insieme non costituiscono un vero e proprio stato federale – ospitano i popoli delle minoranze etniche: i diversi gruppi, con i relativi eserciti locali, da 60 anni rivendicano l’autonomia e combattono per l’autodeterminazione in un Paese che è stato governato costantemente da un regime militare, e che, solo nell’ultimo tratto della sua storia, a partire dal 2015 e fino al 2021, ha faticosamente provato la strada della democrazia.
La svolta democratica è stata bruscamente interrotta nel febbraio 2021 dal colpo di stato della giunta militare guidata da Min Aung Hlaing, il generale che controlla l’esercito nazionale detto «Tatmadaw»: «Le forze armate», ma anche «La potenza».
Da allora, dopo un’iniziale protesta pacifica e un movimento di disobbedienza civile, ben presto soffocato con la forza, nel Paese si è sviluppata una lotta armata che ha visto nascere milizie spontanee, le Forze di difesa popolare (Pdf, nella sigla inglese), composte soprattutto da giovani di etnia bamar, quella dominante nel Paese (il 65% della popolazione complessiva), cui appartengono anche il gruppo dirigente della giunta e le fila del Tatmadaw.
Le Pdf fanno riferimento al Governo di unità nazionale (Nug), il governo in esilio, formato soprattutto da ex parlamentari della Lega nazionale per la democrazia, il partito al potere prima del golpe, fondato e guidato dalla premio Nobel per la pace Aung San Suu Kiy, tuttora agli arresti domiciliari.
Il conflitto, che si è sviluppato e diffuso nel Paese negli ultimi quattro anni, ha registrato una svolta quando le forze popolari si sono saldate con gli storici eserciti delle minoranze etniche.
L’alleanza è riuscita a infliggere pesanti sconfitte sul campo all’esercito birmano, soprattutto nelle aree periferiche del Paese e negli Stati di frontiera, utilizzando tattiche di guerriglia che hanno portato al graduale ritiro dei militari di Tatmadaw dai territori più remoti.

Una nazione divisa
Al quinto anno di guerra, la giunta al potere controlla, secondo gli osservatori, il 50% del territorio nazionale, arroccata con il grosso delle forze militari nella parte centrale del Paese e nelle città principali come Mandalay, Naypyidaw, Yangon.
Il resto del Paese è ormai costituito da territori che vengono definiti dalla resistenza «zone liberate», sottratte al controllo della giunta.
In questa situazione di violenza generalizzata che ha fatto oltre 50mila morti in un Paese che oggi conta 51,3 milioni di abitanti, gli espatriati toccano oramai quota 3,7 milioni e gli sfollati interni 3,8 milioni, secondo dati dell’Armed conflict location and event data project (Acled), organizzazione che monitora i conflitti nel mondo.
Nelle zone liberate, l’esercito continua a bombardare con forze aeree o artiglieria, aumentando il numero delle vittime civili e delle persone che fuggono.
In tali azioni indiscriminate, spesso sono state colpite strutture civili o religiose che accolgono profughi e non hanno nulla a che fare con il conflitto.
«Ringraziamo Dio di essere salvi – rimarca padre Wilbert Mireh, il primo gesuita birmano -. Qui la gente stenta a sopravvivere: non ci sono scuole, cliniche, né commercio. Dopo l’ennesimo attacco, i fedeli pregano perché l’arcangelo Michele ci protegga», racconta. «La messa, solitamente, la celebriamo sotto gli alberi perché stare in chiesa è troppo pericoloso, e l’edificio è già stato colpito e danneggiato.
Ma, nonostante la sofferenza e le condizioni precarie, lo spirito è forte e ogni giorno affidiamo la nostra vita a Dio».
Il religioso, accanto alla cura spirituale dei battezzati, ha sempre lavorato nell’apostolato sociale e nell’istruzione.
Aggiunge: «Ora i bambini non hanno scuola, una grave conseguenza del conflitto».
In questa situazione di precarietà, «continueremo a vivere per il bene, la verità e la giustizia», conclude.

Il vescovo profugo
Nel suo territorio si consuma lo scontro tra l’esercito regolare e l’Esercito per l’indipendenza Kachin (Kia), una delle milizie etniche meglio organizzate, attiva da decenni.
Il gesuita in passato ha svolto servizio pastorale anche più a Sud, a Loikaw, diocesi nello stato Kayah, nell’Est del Paese, un altro territorio martoriato dalla guerra, dove la comunità cattolica conta 90mila battezzati dispersi in un territorio in cui si registrano, da tempo, duri scontri tra l’esercito e le forze di opposizione.
Tutta la popolazione condivide qui una sorte fatta di sfollamento, fame, freddo, con la fatica di una vita quotidiana trascorsa nei campi profughi o improvvisata all’addiaccio nelle aree boschive.
A Loikaw, in particolare, la Chiesa locale è segnata da una ferita profonda: la cattedrale diocesana di Cristo Re, e l’annesso complesso pastorale, sono stati sequestrati e occupati a novembre del 2023 dai militari che ne hanno fatto un campo base dell’esercito. Il vescovo Celso Ba Shwe ha dovuto abbandonare il centro pastorale e si è trasferito nella parrocchia della Madre di Dio a Sondu, vivendo da «profugo tra i profughi».
«Questa Chiesa è divenuta uno dei nostri centri di pellegrinaggio giubilare», racconta padre Paul Pa, delegato della diocesi per l’Anno santo del 2025.
Le parrocchie della diocesi si sono del tutto svuotate di fedeli e allora i sacerdoti sono divenuti «preti itineranti»: si muovono di continuo nel territorio per confortare i fedeli, celebrare i sacramenti, portare aiuto.
Nel celebrare il tempo del Giubileo, ha detto il vescovo Ba Shwe, «la speranza viene dalla solidarietà e dalla carità reciproca in questo tempo di deserto, di sofferenza e di sfollamento».
Padre Paul Pa racconta che a Loikaw oggi il ministero dei sacerdoti «è soprattutto un ministero di consolazione, è consolare gli afflitti».
Accanto al conforto umano e spirituale, vi è l’impegno a fornire aiuti umanitari ai più bisognosi, oggi soprattutto i bambini senza istruzione, gli anziani e i malati, in una situazione in cui anche i centri sanitari e le cliniche gestite dalla comunità cattolica sono chiusi o registrano gravi difficoltà e carenze.

A Occidente, i Rohingya
Nella parte occidentale della nazione, verso il confine con l’India, lo stato Chin (altra minoranza etnica) è saldamente sotto il controllo delle milizie locali Chinland defence force (Cdf), mentre all’esercito non resta che bombardare da lontano: così nei mesi scorsi è stata colpita la chiesa cattolica del Sacro Cuore di Gesù a Mindat, chiesa prescelta come cattedrale della neonata diocesi di Mindat, eretta il 25 gennaio scorso dalla Santa Sede.
Più a Sud, in un altro scenario di crisi, si registrano violenti combattimenti nello stato Rakhine (o Arakan), nella parte centro occidentale del Myanmar: qui si scontrano l’esercito Arakan, la milizia locale, e i militari di Tatmadaw. Il conflitto civile che si è intensificato nello stato Rakhine ha generato un’impennata di vittime e sfollamenti per il popolo dei Rohingya, gruppo etnico di fede musulmana che convive con la maggioranza della popolazione di etnia rakhine, buddhista.
Data la situazione sul terreno, continua il flusso di rifugiati rohingya che cercano rifugio e protezione in Bangladesh: è quanto avviene a sette anni dal primo esodo di 750mila Rohingya che fuggirono dalle violenze e dalle persecuzioni in Myanmar, varcando il confine e stanziandosi nella località bangladese di Cox’s Bazar, dove il governo di Dacca, con il sostegno di organismi Onu e della comunità internazionale, li ha organizzati in campi profughi di vaste dimensioni.
La situazione dei Rohingya è critica su entrambi i versanti della frontiera. In Myanmar, oltre 130mila civili, in particolare i bambini e le famiglie, sono coinvolti nel fuoco incrociato dello scontro tra esercito regolare birmano e miliziani.
L’accesso di organizzazioni umanitarie in Rakhine, come in altre regioni, è diventato estremamente difficile. I servizi essenziali, come l’accesso all’acqua potabile e all’assistenza sanitaria, scarseggiano, aggravati dai blackout di elettricità e telecomunicazioni.
Anche oltre frontiera, in Bangladesh, la vita nei campi profughi appare critica per le difficoltà nella distribuzione di beni di prima necessità e la mancanza di istruzione, sviluppo, reinserimento sociale o occupazione. Un ritorno «dignitoso, volontario e sostenibile» dei profughi in Myanmar – nella loro terra di origine – resta la soluzione auspicata, ma non vi sono le condizioni per renderla possibile, data l’escalation del conflitto.

La testimonianza di fede
Lo scenario che si registra nello stato Rakhine è comune a diversi altri stati del Paese, così come è comune la modalità della presenza della comunità cattolica: la vita spirituale, pastorale e sacramentale, l’assistenza e il conforto agli sfollati dispersi nel territorio, proseguono con grande dedizione e fede, nonostante le difficoltà e la precarietà.
Esempio di questa dedizione è la vicenda del primo sacerdote cattolico birmano ucciso: si tratta di don Donald Martin Ye Naing Win, quarantaquattrenne prete dell’arcidiocesi di Mandalay.
Il suo corpo senza vita, mutilato e sfigurato con colpi di arma da taglio, è stato ritrovato il 14 febbraio scorso da alcuni membri della comunità nel complesso di Nostra Signora di Lourdes, dove era parroco.
La chiesa si trova nella regione di Sagaing, nel centro Nord del Paese, una di quelle zone dove sono quotidiani i combattimenti e gli scontri tra le Forze di difesa popolare e l’esercito birmano.
Padre Donald Martin cercava di stare vicino alla comunità sofferente, e per questo aveva organizzato un servizio scolastico per i bambini del territorio: infatti, nella regione di Sagaing, il sistema statale è collassato, non vi sono servizi pubblici e l’istruzione va avanti solo grazie a sporadiche iniziative spontanee, come quelle attivate dalle parrocchie.
Secondo due donne testimoni dell’aggressione a don Donald Martin, dieci uomini provenienti da un villaggio vicino hanno colpito il prete, per motivi non chiari.
Il capo della banda ha intimato al sacerdote di inginocchiarsi di fronte a lui. Don Donald lo ha osservato e, mantenendo un tono mite, ha risposto pacificamente: «Mi inginocchio soltanto davanti a Dio», e ha proseguito: «Cosa posso fare per voi?».
In preda alla rabbia, l’uomo ha sguainato un coltello e ha colpito ripetutamente il sacerdote sul corpo e alla gola.
Don Donald, secondo le testimoni, non ha pronunciato una parola né un lamento e non ha reagito.
La vicenda è in mano all’amministrazione parallela delle aree controllate dalla resistenza.
Lì non esiste un quadro giuridico definito. Non sarà dunque facile indagare e fare giustizia.
Paolo Affatato
Myanmar, la crisi in cifre
- Popolazione: 51,3 milioni di persone (erano 54 milioni prima del golpe del 2021).
- Etnie: Bamar 68%; Shan 9%; Karen 7%; Rakhine 4%; Cinesi 3%; Indiani 2%; Mon 2%; altri 5%.
- Religioni: buddhisti 87,9%; cristiani 6,2%; musulmani 4,3%; indù 0,5%; culti tribali 1,1%.
- Lingue: oltre 120.
- Emigrazione: 3,7 milioni di persone espatriate nel triennio 2021-2023.
- Grave insicurezza alimentare: 19,9 milioni di persone.
- Sfollati interni: 3,8 milioni.
- Pil: -12% tra 2020 e 2021.
- Inflazione: 25%.
- Accesso all’elettricità: 48% della popolazione.
- Produzione agricola: contrazione del 16%.
- Vittime mine antiuomo: 1.052 persone nel 2023.
- Scolarizzazione: sistema scolastico interrotto nel 50% del Paese. Da tre anni, 4,5 milioni di bambini sono senza istruzione.
P.A.
dati Onu, Unicef, Banca mondiale.
Il sisma
Il 28 marzo scorso, nel Mynamar centrale, lungo la faglia tettonica che attraversa da Nord a Sud il Paese, la terra ha tremato. Un violento sisma ha causato devastazioni nella regione di Mandalay e Sagaing e in grandi città come Yangon e Naypyidaw, con un bilancio (ancora provvisorio quando MC va in stampa, ndr) di oltre 3.500 morti e 5mila feriti.
Dopo l’appello della giunta militare al potere, un flusso di aiuti umanitari dall’estero ha raggiunto le aree colpite, che già prima del terremoto ospitavano il 45% dei 3,8 milioni di sfollati interni provocati dal conflitto civile.
Il sisma ha rotto l’isolamento internazionale della giunta militare, che ha aperto canali per la risposta umanitaria.
La Chiesa e altre organizzazioni hanno chiesto una tregua nel conflitto per consentire l’arrivo degli aiuti. Interagendo con altri Paesi e con enti internazionali, il generale Min Aung Hlaing si è imposto come unica autorità pubblica del Paese. Solo con il tempo si capirà se la tragedia del 28 marzo sarà un’occasione per la risoluzione del conflitto o un fattore che acuirà lo scontro.
P.A.
