Kosovo. Lo specchio appannato

Visita al monastero di DeČani

Un momento della celebrazione del Natale ortodosso nella chiesa del monastero. Foto Valentina Tamborra.
Kosovo
Valentina Tamborra

Serbi e albanesi si fronteggiano nel Nord del Kosovo. Un conflitto complicato e di difficile soluzione. Nel monastero ortodosso di Dečani, l’abate padre Sava Janjić predica la riconciliazione.

È il 6 gennaio, vigilia del Natale ortodosso. Mi sono appena lasciata alle spalle Mitrovica, una città che incarna le frustrazioni delle comunità serba e albanese nel Kosovo contemporaneo. Spesso teatro di fiammate di violenza, espressione del conflitto latente, la città è divisa in due comuni: Mitrovica Nord, a maggioranza serba, e Mitrovica Sud, a maggioranza albanese. Questa divisione, simbolica e reale, rappresenta le tensioni che affliggono l’intera regione. Per la comunità albanese, Mitrovica è il segno visibile della mancata attuazione delle sue aspirazioni di indipendenza, mentre per i serbi costituisce un bastione di resistenza. Ancora oggi, il ponte tra Mitrovica Nord e Mitrovica Sud è presidiato dalla Kosovo force (Kfor), forza militare internazionale a guida Nato con la partecipazione dei carabinieri italiani.

La mia destinazione è il monastero Visoki Dečani, dodici chilometri a Sud della città di Peja (in albanese, Pèc). Il distretto di Peja, istituito dall’Onu nel 1999, si è dichiarato unilateralmente Repubblica indipendente, secessionista della Serbia, per la quale è una provincia autonoma. Lungo la strada, sventolano bandiere rosse dell’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo), e ci si imbatte spesso in blindati della Kfor. Per raggiungere il monastero, la più grande chiesa medievale del Kosovo, nonché simbolo della Chiesa ortodossa serba, è necessario addentrarsi fra le montagne.

Da qualche giorno nevica fitto e i boschi sono ricoperti da una soffice coltre bianca. Tutto intorno è silenzio e pace. Eppure, proprio questo luogo è stato uno dei simboli del conflitto: tra il febbraio 1998 e il giugno del 1999, il paese è stato attraversato da un’ondata di odio e violenza di cui ancora oggi sono visibili gli strascichi.

Attorno alla tavola, i monaci si apprestano a consumare il pranzo natalizio. Foto Valentina Tamborra.

L’arrivo al monastero

Dopo una curva, ecco apparire i primi cartelli militari: divieto di accesso, vietato fotografare, vietato riprendere, vietato varcare alcune sbarre che sembrano bloccare l’ingresso non a luoghi abitati, ma al bosco.

Filo spinato circonda questo monastero fondato nel 1327 da Stefano Dečanski, re serbo dal quale prende il nome. È qui che vive padre Sava Janjić, archimandrita, abate del monastero. Il mio obiettivo è incontrarlo per un’intervista, cosa non semplice, a maggior ragione alla vigilia di Natale. Varcato il cancello di accesso, Visoki Dečani si staglia meraviglioso e imponente contro le montagne.

Alla sua destra, dodici abeti piantati in cerchio rappresentano i dodici apostoli. Anche qui regna il silenzio. Di tanto in tanto si vede un militare o un monaco attraversare il grande piazzale antistante la chiesa e scomparire dietro una delle porte in legno che conducono alle celle. All’interno della chiesa sono conservati grandi e importanti affreschi ortodossi che, nonostante i ripetuti attacchi, non sono andati distrutti.

È un novizio a fornirmi l’occasione per poter chiedere udienza a padre Sava. Uscita dalla chiesa, infatti, vengo invitata a bere un caffè nell’area ristoro. Qui incontro due militari italiani che, per ragioni di sicurezza, desiderano rimanere anonimi. Sono loro a fare da portavoce, dopo aver dato loro i miei documenti e le mie generalità. Ottengo così un appuntamento per l’indomani, dopo la messa di Natale.

Il giorno seguente torno a ripercorrere la strada fra le montagne. Mi accorgo che non sono moltissimi i fedeli che hanno sfidato la neve. La cerimonia natalizia dura due ore e più ed è intensa e commovente: partecipano, oltre ai militari e ai pochi fedeli serbi, due suore dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta che deve al Kosovo i suoi natali.

Padre Sava è alto, imponente: la lunga barba gli incornicia il volto severo. Non comprendo le parole, ma vengo invitata a avvicinarmi, a partecipare da vicino a questa funzione che riunisce persone così distanti fra loro. Alla fine della celebrazione, anch’io ricevo la benedizione.

La strada che conduce al monastero: la zona è sotto protezione della Kfor. Foto Valentina Tamborra.

Con la mente e il cuore

La conversazione con padre Sava non inizia dal conflitto dei Balcani, bensì da un pensiero che appartiene alla cultura greca, quello della «metanoia».

Il termine significa «cambiamento di mente» e rappresenta un invito a una trasformazione interiore profonda. Per padre Sava, questo concetto va oltre il semplice pentimento. Implica un vero e proprio rinnovamento del cuore e della mente: «Metanoia è un processo attivo di purificazione del cuore, un modo di vedere il mondo e le persone in una luce nuova», afferma.

Nelle sue riflessioni, padre Sava sottolinea che la metanoia è essenziale per superare l’odio e la divisione. In un contesto come quello del Kosovo, dove le tensioni etniche sono palpabili, egli crede che la vera trasformazione possa avvenire solo attraverso un cambiamento della propria prospettiva e un impegno a vivere secondo valori di amore e comprensione. Padre Sava utilizza la metanoia come strumento di riconciliazione. L’abate invita le persone a guardare oltre le loro differenze e a riconoscere l’umanità comune.

«L’odio è un sintomo di disordine interiore», afferma, e il suo superamento richiede un profondo lavoro spirituale. La speranza di padre Sava è che le nuove generazioni possano abbracciare questo messaggio, superando le divisioni etniche e costruendo ponti di dialogo.

In un mondo dove il nazionalismo e le tensioni identitarie sono in aumento, la visione di padre Sava è un richiamo alla pace. Propone modelli di convivenza pacifica, come quello dell’Alto Adige, dove diverse comunità coesistono rispettando le proprie identità. «La metanoia può guidarci verso una società inclusiva, dove ogni voce è ascoltata», sostiene.

L’abate del monastero di Visoki Dečani, padre Sava Janjić. Foto Valentina Tamborra.

La deriva dell’odio

Quest’uomo, nato a Dubrovnik, è stato segretario del vescovo della diocesi dal 1997 al 2002, con speciali responsabilità per le relazioni pubbliche e con i media. Dal giugno 1999 al 2001 ha vissuto presso il monastero di Gračanica per obbedienza al vescovo della diocesi. In seguito, è tornato al monastero di Dečani e ha assunto regolari incarichi monastici.

Durante la guerra ha dato asilo ad albanesi e serbi, occupandosi dei feriti e dei morti con la medesima cura e umanità: «Non c’è distinzione agli occhi di Dio». Eppure, nonostante la fede profonda, anche padre Sava ha avuto e ha paura. Ci tiene a raccontarlo mentre intorno a noi i monaci e i pochi ospiti ascoltano rapiti le sue parole.

Ascoltare padre Sava è d’ispirazione per chiunque, credente o meno che sia. Quando parliamo della paura, egli ci tiene a specificare che il suo timore non è legato alla sofferenza fisica o alla morte. Non ripercorre con la memoria i rischi corsi in passato e neppure si proietta su ciò che potrebbe accadere a lui e agli altri monaci, bensì il suo pensiero è rivolto alla possibile deriva spirituale derivante dall’odio. Padre Sava, infatti, ha assistito all’orrore, alla violenza cieca, ad atti tanto efferati da poter corrompere il cuore di chiunque. Ed è questo che teme: la perdita di lucidità. «Immagina il cuore come uno specchio lucente: riflette l’immagine di Dio. Questo specchio può essere appannato dall’odio e dalla paura, ma non distrutto. Dobbiamo applicare la metanoia, il cambiamento di prospettiva, per far sì che questo specchio torni lucido e pulito e capace di ricordarci che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. Dobbiamo aprirci alla sua presenza anche quando ci appare lontana, è questa la vera fede».

Un momento della celebrazione del Natale ortodosso nella chiesa del monastero. Foto Valentina Tamborra.

La cecità dei governi

Quando parliamo dell’attuale situazione politica, padre Sava ha una visione molto chiara: è infatti convinto che difficilmente il governo serbo possa riconoscere l’indipendenza del Paese e che continuerà a considerarla illegale. In ogni caso, prima di parlare di qualsiasi forma di riconoscimento, il governo serbo vuole che venga stabilita un’associazione dei comuni a maggioranza serba, come concordato fra Belgrado e Pristina nel 2013 e successivamente confermato nel 2015. L’accordo, però, non è mai stato rispettato.

Ad oggi, la Serbia considera inaccettabile la condizione posta dalle autorità kosovare di riconoscere prima il Kosovo e poi discutere di una qualche forma di protezione per i serbi. Questa condi-

zione è percepita da Belgrado come una sorta di ricatto.

Secondo padre Sava, in Serbia il livello di sostegno per l’indipendenza del Kosovo è pari a zero, e persino il sostegno all’Unione europea è diminuito, e questo è diretta conseguenza del comportamento delle autorità kosovare e della mancanza di un approccio bilanciato da parte di alcuni rappresentanti europei.

Foto Valentina Tamborra.

La Chiesa serba in Kosovo

Padre Sava Janjić descrive la Chiesa ortodossa serba in Kosovo come una parte fondamentale del tessuto della società locale: le chiese, infatti, costituiscono un elemento importante dove si intrecciano le tradizioni del popolo serbo, ma anche quelle di altre comunità che, infatti, hanno sempre rispettato questi luoghi, come dimostra la sopravvivenza del monastero di Dečani per 700 anni.

L’ortodossia, del resto, ha radici profonde in Kosovo: i serbi qui hanno vissuto per secoli, lasciando numerose tracce come chiese, monasteri e cimiteri.

Nonostante periodi difficili, la Chiesa ha beneficiato della protezione di diverse forze nel corso della storia, come l’esercito turco all’inizio del XX secolo, l’esercito italiano durante la Seconda guerra mondiale e, successivamente, la Kfor.

Il diritto delle altre comunità non serbo ortodosse di vivere in Kosovo non è messo in discussione per padre Sava e, men che meno, quello di mantenere le proprie tradizioni, ma è necessario insistere sul rispetto reciproco. Il Kosovo, dunque, non dovrebbe essere inteso come uno stato etnico albanese, ma come un luogo dove tutti si sentano sicuri. Tuttavia, la tendenza attuale pare opposta, costituendo una fonte pericolosa di instabilità per la regione e per l’Europa.

Padre Sava sottolinea le sfide attuali per la comunità serba, aggravate dal ritiro dei rappresentanti serbi dalle istituzioni kosovare. Questo ha portato a una situazione di instabilità e all’ascesa di figure albanesi che non rappresentano la maggioranza della popolazione e il cui comportamento è percepito dai serbi locali come repressivo e provocatorio. Mantenere il sistema educativo e sanitario serbo è cruciale per preservare l’identità e lo stile di vita della comunità serba (lo scorso 15 gennaio in varie località del Paese il governo kosovaro ha chiuso decine di istituzioni serbe, tra cui alcune «amministrazioni parallele», ndr).

Il mancato riconoscimento dell’accordo del 2013/2015 sull’istituzione dell’associazione dei comuni a maggioranza serba è un serio problema che ha portato a un’empasse con le autorità kosovare che ora richiedono il riconoscimento del Kosovo da parte della Serbia come precondizione per ulteriori discussioni.

Infatti, nonostante i serbi in Kosovo abbiano la cittadinanza e rispettino le leggi, non si sentono trattati in modo paritario dalle attuali autorità kosovare, caratterizzate da un forte nazionalismo etnico.

Il dialogo con padre Sava è chiaramente improntato a una ferma condanna per ogni forma di violenza. Sottolinea come la Chiesa sia impegnata nella ricerca di soluzioni pacifiche e nel dialogo. Ricorda che, durante il periodo di Slobodan Milošević, lui stesso e il vescovo precedente si erano schierati contro le violazioni dei diritti umani degli albanesi, pur mettendo in guardia anche contro il loro nazionalismo.

Viene impartita la benedizione a una giovane fedele. Foto Valentina Tamborra.

I pericoli dei nazionalismi

Prima di recarci a pranzo, padre Sava ci tiene a lasciarmi con una riflessione sulle nuove generazioni.

La sua speranza è che superino le mentalità tribali e settarie, vivendo in armonia al di là delle differenze etniche e religiose. Oggi come oggi però, dice, il nazionalismo balcanico è in crescita e non solo in Kosovo ma anche in Serbia, Croazia e in generale ovunque nei Balcani.

Anche sul primo ministro del Kosovo (Albin Kurti, il cui partito nazionalista – «Vetevendosje» – ha vinto le elezioni del 9 febbraio 2025, ndr), padre Sava ha opinioni chiare: a suo dire, rappresenta il nazionalismo etnico albanese e il suo comportamento è autocratico. Il timore è che si voglia creare una «Grande Albania» andando così di fatto a peggiorare la condizione della minoranza serba in Kosovo e a inasprire i rapporti con la Serbia.

L’intervista viene conclusa dall’arrivo di un novizio: è pronto il pranzo.

Ci spostiamo in un’ala del monastero normalmente chiusa al pubblico. Sotto volte affrescate, sono apparecchiati tre lunghi tavoli in legno. I monaci, guidati da padre Sava, iniziano a cantare. È una preghiera dalla quale, pur non comprendendo le parole, arrivano forti suggestioni. Qui, fra le montagne, è possibile sentirsi accolti, essere «in pace», uniti oltre le provenienze, la lingua, la religione.

Un carico di doni

Quando lascio il monastero, il silenzio del paesaggio circostante è interrotto solo dal suono delle campane. Ripenso al messaggio di padre Sava che trascende le sue parole. È un richiamo a tutti noi, un invito a intraprendere un cammino di metanoia, a trasformare il nostro cuore e la nostra mente. Le sue parole ci portano a immaginare un futuro dove le generazioni di oggi e domani possano vivere senza il peso delle divisioni etniche, dove l’amore e la comprensione possano sostituire l’odio e la paura. Tentare di guardare ogni persona non attraverso il filtro delle differenze, ma attraverso la lente della dignità e dell’umanità condivisa. La sfida che padre Sava ci pone è semplice: possiamo scegliere di essere portatori di pace, di diventare architetti di un dialogo autentico e costruttivo. Con il cuore aperto e la mente pronta a cambiare, possiamo costruire insieme un futuro migliore, un Kosovo e un mondo in cui la speranza trionfi sull’odio. E così, come il monastero che resiste nel tempo, anche noi possiamo diventare simboli di resilienza e amore, pronti a scrivere una nuova storia di unità e riconciliazione.

Valentina Tamborra

Il monastero ortodosso di Visoki Dečani con in primo piano la chiesa. Foto. Valentina Tamborra.

 

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