Cana (3) Un vangelo, tanti autori

Il racconto delle nozze di Cana (3)

Il racconto delle nozze di Cana è un momento centrale del quarto vangelo perché annuncia, anticipandola, «l’ora della glorificazione» di Gesù, cuore della teologia di Giovanni. Il racconto si colloca nella tradizione profetica, perché Gesù moltiplica il vino, come Elia moltiplicò la farina e l’olio per la vedova di Sarepta (1Re 17,7-16) e come Eliseo moltiplicò l’olio per una vedova (2Re 4,1-7) e i pani per il popolo (2Re 4,42-44).
Scopo di questa rubrica biblica è aiutare i lettori a leggere la parola di Dio in modo più approfondito, anche se in un linguaggio semplice, che tenga conto dei risultati della scienza esegetica, senza scadere nel tecnicismo, è importante che prima percorriamo le stesse tappe, attraverso le quali il vangelo si è formato fino a raggiungere il testo che oggi abbiamo in mano, e in secondo luogo cerchiamo di individuare la figura dell’autore, che ci aiuterà a capire il motivo e la finalità del racconto delle nozze di Cana, il «primo dei segni» che Gesù fece all’inizio della sua carriera di rabbi, riportato solo nel quarto vangelo.
Per il vangelo di Giovanni, come persinottici, l’identificazione dell’autore o degli autori è sempre un problema aperto, anche se ormai, alla luce di studi complessi, si possono tirare se non tutte, almeno alcune conclusioni definitive. Oggi la critica biblica attribuisce con sufficiente certezza la redazione finale dei rispettivi scritti a Marco e Luca; la questione si complica un po’ per Matteo e Giovanni, due opere particolari, che hanno visto un processo formativo complicato, che è impossibile solo sfiorare nello spazio di un articolo divulgativo. Prima però è necessaria una parentesi che apriamo e chiudiamo con la nota.
Imparare a pensare come gli antichi
Quando parliamo dell’«autore» di un libro, oggi siamo spinti a immaginare una persona seduta alla scrivania intenta a comporre a mano, o al computer, una storia «ordinata», organizzata sulle fonti con puntiglioso riferimento alle date, ai luoghi e alle persone. Oggi si dispongono anche delle video registrazioni che fanno vedere «quel momento» passato come se fosse contemporaneo: si possono ascoltare le parole e pure «vedere» la persona che parla, anche se morta.
Dobbiamo dimenticare tutto questo, quando prendiamo in mano un vangelo o un libro antico; al contrario dobbiamo cercare di documentarci sui metodi di trasmissione delle opere. Per noi è difficile immaginare che, al tempo dei vangeli, solo pochissime persone sapevano leggere e scrivere e che non esisteva la stampa, né la carta come la possediamo oggi. Nei tempi antichi i testi scritti erano pochi e per di più su materiale fragile e costoso come il coccio, papiro, pelli di capra, ecc.
I vangeli canonici, compreso quello di Giovanni, nella loro stesura definitiva non sono opera di un solo autore, ma sono il risultato di un lungo processo e anche di molte mani di persone di generazioni diverse. È evidente che nello spazio di un articolo non possiamo dare conto di tutte le ipotesi e di tutti gli studi che sono sterminati, ma possiamo garantire di offrire una sintesi onesta e corretta dei risultati condivisi dalla quasi totalità degli studiosi.
Per dare una risposta alla domanda «chi è l’autore del quarto vangelo?», bisogna procedere per gradi e percorrere i singoli momenti con attenzione, ripercorrendo brevemente le diverse tappe.

Nota
Il problema della ricerca biblica sui vangeli si è complicata da quando, nel 2007, la Rizzoli ha pubblicato il primo volume di una riflessione biblico-teologica di papa Benedetto xvi dal titolo «Gesù di Nazaret». Il papa ripassa i momenti salienti della vita di Gesù attraverso i vangeli, collocandosi sul binario tranquillo della tradizione e facendo alcune riserve su alcuni metodi di esegesi. È importante dire una parola su questo libro, che sta generando molti problemi nella chiesa, anche a livello di studio e di ricerca.
Fin dalla sua comparsa il libro è diventato un «testo di riferimento» per la catechesi nelle parrocchie e la predicazione dei preti, che si sentono tranquilli dal punto di vista dell’ortodossia, in forza dell’assunto «se lo dice il papa!», nonostante il papa stesso abbia scritto che il «libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore” (Sal 27,8). Perciò ognuno è libero di contraddirmi» (p. 20).
Ci troviamo di fronte a una confusione enorme: il papa dice che il suo è un libro «qualsiasi», che può essere criticato come qualsiasi altro libro; dall’altra parte molti fedeli e operatori pastorali lo prendono come «testo sicuro», anche in contrapposizione ad altri libri di persone più competenti del papa, che non è esegeta o teologo biblico. Il fatto che in Italia nessun biblista o teologo abbia recensito criticamente il testo del papa, la dice lunga sul condizionamento che esso sta producendo. Sarebbe opportuno che si ritornasse al vecchio codice (1917) che per queste ragioni vietava ai papi di scrivere libri opinabili: i papi, infatti, devono parlare per magistero.
A quanto mi risulta solo il cardinale Carlo Maria Martini, biblista di fama internazionale e già direttore del Pontificio istituto biblico, ne ha parlato in una conferenza a Parigi, dichiarando con molta schiettezza che dal punto di vista esegetico, il libro è pieno di inesattezze e anche errori e che comunque non vi si trova il Gesù dei vangeli, ma il Gesù che piace al papa, che «non è esegeta, ma teologo… non ha fatto studi di prima mano per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento». Secondo Martini, c’è un problema fin dalla copertina, dove sono abbinati il nome di Joseph Ratzinger e quello, a caratteri cubitali, di Benedetto xvi che sovrasta l’altro: «È il libro di un professore tedesco e di un cristiano convinto, oppure è il libro di un Papa, con il conseguente rilievo del suo magistero?» (Sede dell’Unesco a Parigi, 23 maggio 2007; cf testo integrale su Il Corriere della Sera 24-5-2007). Lo stesso concetto egli ribadisce in una recensione su La Civiltà Cattolica (C. M. Martini “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger – Benedetto xvi in La Civiltà Cattolica, quaderno 3768, II [2007] 533-537).
Per quanto ci riguarda, il libro del papa si pone anche la questione dell’autore del quarto vangelo e quindi sul suo valore storico. Egli rifiuta alcune interpretazioni (Rudolf Bultmann), ne condivide parzialmente altre (Martin Hengel), non ne prende in considerazione molte altre, ma giunge a una «sua» conclusione: «Lo stato attuale della ricerca ci consente perfettamente di vedere in Giovanni, il figlio di Zebedeo, il testimone che risponde con solennità della propria testimonianza oculare identificandosi anche come il vero autore del Vangelo» (p. 252).
Accogliendo l’invito del papa stesso a una critica serena, rilevo, per quanto mi concee, che questa è l’opinione di Joseph Ratzinger, ma non è affatto una certezza nel campo degli studi, anzi è una tesi ormai superata. Nella nostra ricerca non terremo conto del «Gesù di Nazaret» secondo il credente Ratzinger, perché appartiene più al versante della meditazione spirituale edificante che della esegesi biblica. Con ogni dovuto rispetto. (Fine Nota)

Prima tappa: da Gesù agli apostoli
a) Gesù vive in Palestina tra il 6/7 a.C. e il 30 d.C. per un totale di circa 36 anni, di cui gli ultimi tre o due pubblici, perché li impiega predicando come un rabbino itinerante dentro e fuori la Palestina. Egli non lascia scritto nulla, anzi l’unica volta in cui abbiamo testimonianza che scrisse qualcosa, scrisse sulla polvere per terra, durante il processo alla donna adultera (Gv 8,8).
b) Dopo la morte di Gesù e la sua risurrezione, gli apostoli, superata la paura e lo smarrimento, si mettono a «predicare» in pubblico per convincere che Gesù di Nazaret è il messia atteso da Israele (cf At 2,1-47). La prima predicazione degli apostoli si rivolge agli ebrei e il contenuto di essa è solo e quasi esclusivamente il «mistero pasquale», cioè la passione, morte, risurrezione, ascensione (glorificazione) di Gesù e il dono dello Spirito Santo. Gli apostoli non si preoccupano di scrivere.
c) Qui si colloca la prima tappa della «tradizione/trasmissione» del vangelo: la tradizione orale che si tramanda da persona a persona, da generazione a generazione. Chi parla descrive quello che crede e la propria esperienza con la passione di chi vuole convincere gli ascoltatori, non con la freddezza dello studioso a tavolino.
Anche l’apostolo Giovanni ha cominciato a predicare in Palestina, da dove con ogni probabilità si è trasferito in Asia Minore, nell’attuale Turchia, con epicentro Efeso, dove c’era un gruppo di giudeo-cristiani che viveva all’interno di una comunità di origine greca. Qui infatti aveva operato l’apostolo Paolo circa 30 anni prima, dimorando per quasi tre anni a Efeso (dal 53/54 al 56/57).
In questo contesto «plurale», l’apostolo Giovanni è l’iniziatore, il primo anello di partenza della tradizione giovannea, che lentamente si andrà formando sul suo insegnamento e sulla sua predicazione. È probabile che a Efeso, dopo la distruzione di Gerusalemme e l’espulsione dei giudei (70 d. C.) si costituisca un’autentica «scuola giovannea», che riflette e sviluppa la predicazione che fa riferimento all’apostolo Giovanni, che è così l’iniziatore di una corrente o scuola, ma non l’autore materiale del vangelo come oggi lo possediamo.

Seconda tappa:
dagli apostoli alla vita della comunità
La comunità è una realtà viva, che si struttura attorno alla fede in Cristo: essa celebra la liturgia, testimonia con la vita, subisce persecuzioni e naturalmente raccoglie testimonianze su Gesù o liste parziali di miracoli, insegnamenti, parabole per scopi immediati come la liturgia o la catechesi. Nel vangelo di Giovanni, per esempio, si trovano solo sette miracoli (già il numero sette è emblematico, perché simbolico), che l’autore preferisce chiamare «segni», per riportarsi a un livello più profondo che non sia quello esteriore del miracolistico eclatante. Tutti questi «sette segni» sono costruiti in modo diverso da quelli narrati nei vangeli sinottici. Ecco di seguito l’elenco:
1. le nozze di Cana (Gv 2,1-11);
2. guarigione del figlio del funzionario romano (Gv 4,46-54);
3. guarigione del paralitico alla piscina di Betesda (Gv 5,1-18);
4. moltiplicazione dei pani (Gv 6,1-14);
5. guarigione del cieco nato (9,1-41);
6. risurrezione di Lazzaro (11,1-42);
7. pesca miracolosa (Gv 21,1-14).
Tutti questi «segni» hanno lo stesso schema: sono dialogati, c’è sempre un’azione, un crescendo che si sviluppa a volte in discorso lungo e articolato come nella moltiplicazione dei pani, un intermezzo e infine una lenta risoluzione verso la conclusione positiva. È evidente anche al lettore più sprovveduto che non ci troviamo più di fronte al «fatto storico» nudo e crudo, come possiamo intenderlo noi oggi.
Bisogna capire che le prime comunità cristiane hanno avuto una vita travagliata anche sul piano della fede e non hanno capito chi fosse Gesù da subito, ma hanno elaborato lentamente una «cristologia» che ha fatto fatica a prendere piede, in mezzo a eresie, rifiuti, contrapposizione di gruppi, di idee che spesso culminavano in reciproche scomuniche o esclusioni. Dai testi possiamo rilevare, e gli studi lo confermano, che la comunità che fa capo all’apostolo Giovanni, è una comunità divisa, frantumata, lacerata da divisioni, come lo sono anche quelle di Paolo (v. 1Gv 2,18-27; 4,1-6; 2Gv 7-11; 3Gv 9-11; per Paolo: 1Cor 1,10-16). Non bisogna lasciarsi ingannare da quanto scrive Luca: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune» (At 2,44), perché non rispecchia la realtà primitiva, ma idealizza ciò che dovrebbe essere la comunità.
Negli ultimi decenni del sec. I d.C. (80-90) le comunità sono abbastanza strutturate e hanno una vita propria e sviluppano un livello di riflessione avanzata, dove ormai  il dato storico è, se non abbandonato, per lo meno superato. Ciò è logico anche perché non c’è più il contesto originario, che all’evangelista non interessa più. Con ogni probabilità, indipendentemente dal contesto storico e geografico originario, tutti questi «segni» sono stati raggruppati in una raccolta «pronto uso» per la catechesi o per la liturgia.
In Giovanni, per esempio, a differenza dei sinottici che riportano decine di parabole (basta pensare a Matteo che sul tema del «Regno di Dio» ne riporta sette e tutte raggruppate nel capitolo 13), ne troviamo solo due che non si trovano negli altri vangeli: la parabola del «Pastore bello» (Gv 10,1-16) e quella della vite e i tralci (Gv 15,1-8): tutte e due queste parabole sono legate alla formula di auto rivelazione divina «Io-Sono», di cui parleremo in altra rubrica. A questo secondo livello della trasmissione, si cominciano, dunque, a possedere scritti parziali, omogenei e indipendenti per uso personale o comunitario, senza ancora un progetto organico.

Terza tappa: la 1a edizione scritta del vangelo
La terza tappa del lungo cammino formativo del vangelo è quella che gli studiosi, unanimemente, chiamano la tappa della prima edizione del vangelo scritto. Fino ad ora ci siamo trovati di fronte a figure singole o collettive anonime, che identifichiamo genericamente con il termine «comunità», non avendo altri riferimenti precisi. Da questo momento, da quando cioè il vangelo appare nella prima stesura scritta si può parlare di un singolo autore, cioè dell’evangelista che comunemente indichiamo con un nome: «Vangelo secondo Giovanni».
Tra gli studiosi c’è unanimità su questo punto: nella comunità giovannea vi erano due persone con lo stesso nome: uno è l’apostolo Giovanni che possiamo definire la «fonte» da cui ha origine il fiume della tradizione orale; e l’altro è Giovanni l’evangelista, presbitero dell’Asia Minore, figura eminente di teologo, a cui risale la prima edizione del vangelo scritto che è all’origine del vangelo attuale. L’esistenza di due persone con lo stesso nome ha creato una grande confusione d’identità, come testimonia anche lo storico antico sant’Eusebio (Storia ecclesiastica 2,31,3; 3,39,6) che parla dell’esistenza a Efeso di due tombe diverse per due Giovanni distinti.

Quarta tappa: la 2a edizione scritta del vangelo
La quarta tappa della trasmissione del vangelo di Giovanni è la pubblicazione della seconda edizione di un nucleo di scritti, più ampia e più organica della prima con aggiunte che riflettono situazioni nuove di epoche più recenti. Sembra, per esempio, che nella comunità giovannea vi fossero problemi ad accettare la figura di Pietro come autorità: il quarto vangelo, infatti, presenta la fede del discepolo prediletto sempre come superiore a quella di Pietro (cf Gv 13,23; 20,4.8; 21,7). Anche san Paolo ha conflitti spesso feroci con Pietro (cf Gal 2,11-14).
All’interno di questa dialettica, in epoca posteriore una mano diversa dalla prima aggiunse il capitolo 21, dove a Pietro si attribuisce la funzione di «pastore» che non ha riscontro in tutto il vangelo precedente (cf Gv 21,5-7).
Un altro esempio si trova nel racconto del cieco nato (Gv 9): l’evangelista annota che i genitori prendono le distanze dal figlio guarito «perché avevano paura dei giudei» (Gv 9,22), annotazione che non fa alcun problema, ma ciò che segue immediatamente sì, perché l’evangelista aggiunge una spiegazione di natura storica: «Infatti, i giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come Cristo, venisse espulso dalla sinagoga» (Gv 9,22-23). Questa notizia non può che essere di molti anni dopo, posteriore al 90 d.C., quando i giudei espulsero definitivamente i cristiani dalla sinagoga. Un autore diverso dall’evangelista ha aggiunto queste parole, proiettando al tempo di Gesù una situazione drammatica del suo tempo.
La tensione tra giudei e cristiani alla fine del sec. I era tale che gli ebrei composero una apposita «maledizione» (in ebr. birkat hamminìm – benedizione [contro] gli eretici) aggiunta alla preghiera ufficiale, detta delle «diciotto benedizioni» per stanare i giudei che erano diventati cristiani e che erano considerati eretici.

Quinta tappa: la 3a edizione scritta del vangelo

L’ultima tappa della trasmissione del testo del vangelo di Giovanni corrisponde alla terza edizione scritta del vangelo come testimonia un papiro datato intorno al 120-130, trovato in Egitto vicino al Cairo in una casa privata (papiro Rylands, scoperto nel 1896) che riporta due piccoli brani della passione: Gv 18,31-33 e 37-38). Questo piccolo papiro è di somma importanza perché ci dice che all’inizio del sec. II il vangelo di Giovanni come lo abbiamo oggi circolava anche in Egitto, fuori della Palestina, lontano da Efeso, segno che il testo era ormai definito e utilizzato; ne consegue che il testo definitivo, cioè la terza edizione scritta, deve collocarsi come data probabile negli ultimi due decenni del sec. I.
Nel frattempo anche gli altri tre vangeli si sono affermati, sedimentati nella tradizione e nella liturgia, viaggiando insieme, ma sviluppando quattro prospettive degli stessi eventi, quattro angoli di visuale per uno stesso progetto: la fede nel Signore Gesù. Intoo al 150 d.C. i quattro libretti che camminavano separati, furono messi insieme, cuciti in un solo volume e da quel momento la comunità dei credenti, fino a noi, hanno tra le mani un solo libro con cinque volumi: i quattro vangeli canonici e gli Atti degli Apostoli.
Fin qui la storia complessa, che abbiamo semplificato oltre ogni umana tolleranza, per dire che il vangelo di Giovanni non si può attribuire alla mano di un solo autore, ma alla vita, alla testimonianza, alla liturgia e alla fede di una comunità, dove vivevano alcune personalità di spicco, autorevoli e degni di stima che ci hanno tramandato non la vita di Gesù, che è impossibile scrivere, ma solo quei fatti sufficienti «per la nostra salvezza» (Dei Verbum, 11; cf Gv 20,30-31; 21,24-25).

Chi è l’autore del quarto vangelo?
Alla luce di quanto abbiamo detto, dobbiamo superare la nostra convinzione che autore e scrittore siano la stessa persona. Per quanto ci riguarda possiamo dire:
1. L’apostolo Giovanni, il figlio di Zebedeo, è l’autore del quarto vangelo come l’antenato sta al pronipote. Egli è autore perché la sua predicazione e testimonianza stanno all’origine della tradizione giovannea; prima in Palestina e poi in Turchia, a Efeso; qui altri hanno ripreso contenuti e testimonianza di Giovanni e l’hanno sviluppata, integrando, arricchendo e incarnandolo.
2. L’apostolo Giovanni non è autore come possiamo intenderlo noi oggi, perché non ha confezionato alcun libro e non vi ha messo il sigillo del copyright. La sua testimonianza di e su Gesù si è diluita nel tempo, diventando vita di una comunità, che non ha mai pensato di tramandarci un testo da museo, ma l’annuncio giornioso che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio (cf Mc 1,1). Di lui, come autore nel senso che abbiamo spiegato, parlano sette testimonianze al di fuori del NT (Ireneo di Lione, Papia di Geràpoli, il Canone muratoriano, il Prologo monarchiano, Clemente Alessandrino e tutti sono databili tra il II e III secolo).
3. Il quarto vangelo in cinque testi parla di un «discepolo che Gesù amava» (Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20) e in altri due di un «altro» discepolo non meglio identificato (Gv 1,35-40 e 18,15). Probabilmente si tratta di due persone diverse. Il primo appellativo potrebbe essere dato dallo scrittore del vangelo che ricordando il suo maestro, l’apostolo Giovanni, ne parla anche con affetto, mettendo in evidenza la sua familiarità particolare con il Signore. Nello stesso tempo «il discepolo che Gesù amava» può anche estendersi a tutti coloro che entrano in contatto con Gesù nella fede e lo accolgono come Figlio di Dio, per cui partecipano alla vita d’amore del Signore come i lettori che siamo noi. Le due interpretazioni si integrano a vicenda.
4. Avviandoci alla conclusione, possiamo dire che la «voce» che ha dato origine al vangelo, attraverso la predicazione, è quella di Giovanni l’apostolo; una voce così forte e potente che si estese presto in tutto l’Oriente dove, in Turchia, trovò un discepolo che la raccolse e la volle divulgare ancora di più, fissandola per iscritto perché molti altri ne potessero usufruire.
5. Egli non si limitò a riportare la «voce», ma insieme ad essa raccolse la sua eco, aggiunse testimonianze che integrò con altre fonti dando corpo al testo come è arrivato fino a noi. Questo evangelista scrittore non è palestinese, ma con ogni probabilità un greco che aveva assorbito la cultura multietnica di Efeso, si era imbevuto anche di un «sapere» giudaico, vivendo all’interno di una comunità mista fino al punto da fare del giudaismo lo sfondo culturale e ambientale del suo vangelo, come cercheremo di mettere in rilievo studiando il racconto delle nozze di Cana.
6. Questo vangelo è indirizzato sia ai cristiani provenienti dal giudaismo, sia a quelli che provengono dall’ellenismo, ai quali l’autore presenta un vangelo che educa alla maturità della fede. Chi ha incontrato Gesù per la prima volta come un catecumeno (vangelo di Marco), ed è poi diventato un discepolo di Gesù (vangelo di Luca), divenendo anche un catechista (vangelo di Matteo), ora può bere alla fonte spirituale e contemplativa del quarto vangelo. Senza fretta perché in Gv ogni parola ha un significato ovvio e uno nascosto, che bisogna cercare, ruminare, centellinare e assaporare, lasciando alla Parola, attraverso le singole parole, la possibilità di depositarsi nell’intelligenza e nel cuore, per diventare alimento e bevanda di vita: «Io-Sono il pane della vita; Io-Sono la vite, voi i tralci» (Gv15,5).  (continua – 3)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella

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