La croce, con tantissimi poveri cristi – Speciale BRASILE

Dall’alto del Corcovado

Inaugurata nel 1931 come segno
della lotta contro il comunismo,
la mastodontica statua del Redentore,
dall’alto della collina del Corcovado,
domina Rio de Janeiro e l’intero Brasile.
Un simbolo, ma non solo.

Una cosa è certa: la chiesa del Brasile non può passare inosservata, con 119 milioni di abitanti che si dichiarano cattolici.
«La storia del Brasile mostra una chiesa identificata con la vita del popolo. Essa è stata presente in maniera decisiva in ogni momento, ma soprattutto nella vita quotidiana, umile e oscura»: hanno scritto i vescovi del Brasile nel 1972, in occasione del 150° anniversario dell’indipendenza.
Non è sempre stato così. E tutto è cominciato 500 anni fa.

Lenti e non facili inizi

22 aprile 1500. Una spedizione portoghese, guidata da Pedro Alvares Cabral, sbarca sulle coste di un paese sconosciuto, battezzato «Vera Cruz». Ma la terra ha già i suoi «proprietari»: 5-6 milioni di indios.
Pochi giorni dopo, padre Henrique da Coimbra, francescano, celebra la prima messa e pianta la croce (per ricordare il gesto, il 27 marzo 1999 Giovanni Paolo II benedisse una riproduzione della croce, che percorse l’intero Brasile).
Insieme alla colonizzazione, inizia così l’evangelizzazione, che assume caratteristiche particolari. La più evidente è un «ritardo brasiliano» (sia nell’organizzazione ecclesiastica, sia nell’annuncio missionario), poiché per tutta la prima metà del 1500 il Brasile è una «colonia di riserva» del Portogallo. Non esiste né un chiaro progetto di dominazione, né una sistematica azione dei missionari. Il cristianesimo penetra lentamente attraverso vari cicli.
Il 1551 è importante: il papa nomina il re Giovanni III e i suoi successori «grandi maestri dell’ordine di Cristo», conferendo loro la responsabilità di propagare la fede, nominare i vescovi, raccogliere fondi per la chiesa, sorvegliare i tribunali ecclesiastici. Il 25 febbraio, con la bolla Super specula, Giulio III erige la prima diocesi, São Salvador de Bahia, con il vescovo Pedro Sardinha.
Questi non è all’altezza della situazione e finisce divorato dagli indios nel 1556. Ha avuto pure gravi contrasti con i gesuiti. Costoro hanno metodi missionari un po’ tolleranti; il vescovo, convinto dell’assoluta negatività dei culti locali (nonché della superiorità portoghese), li obbliga a modificare il loro stile.
Cresce intanto lo scontro tra indigeni e coloni, sempre più avidi di terre e di lavoratori per le piantagioni. Gli indios fuggono verso l’interno, aiutati dai gesuiti che, per proteggerli, creano speciali aldeias (villaggi).
Il villaggio è una «repubblica indigena»: ottiene un’autonomia quasi assoluta e giunge ad avere anche oltre 10 mila persone. Separati dai centri portoghesi, i villaggi degli indios mirano a far rispettare la loro libertà, mutae il nomadismo, evitare la presenza «scandalosa» dei colonizzatori, promuovere lo sviluppo globale.
I missionari trovano non poche difficoltà nell’evangelizzare gli indigeni, radicati anche nel cannibalismo. Simpatico è l’incontro tra un gesuita e una vecchia india, prossima a morire. Dopo averla battezzata, il padre le chiede se desidera qualcosa. «Se ti portassi dello zucchero o saporiti frutti di mare, li mangeresti?» le chiese. «Ah! – risponde la convertita – Il mio stomaco rifiuta ogni cibo. C’è solo una cosa che potrei toccare: se avessi la mano di un tenero bimbo tupuya, potrei piluccarne le piccole ossa; ma non c’è nessuno che vada ad uccidee per me!»…
Per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, arrivano anche schiavi importati dall’Africa. Si calcola che, dal 1500 al 1852 (anno in cui finì la tratta), siano stati introdotti in Brasile 3 milioni e mezzo di schiavi. Proprio nelle piantagioni si diffonde il primo cristianesimo.
Il problema degli schiavi non attira la giusta attenzione evangelizzatrice e liberatrice. I gesuiti tentano, ove possibile, di risparmiare le sofferenze agli indios, ma non ai neri, che sono abbandonati a se stessi.
In ogni piantagione c’è una cappella: ma, anziché simbolo di riscatto, diventa segno obbrobrioso dell’ordine imposto dal padrone. È lui che si sceglie il cappellano, cui spetta celebrare i sacramenti e sedare i conflitti. L’unico controllo è la visita sporadica di qualche missionario. In tale occasione cappellano e proprietario ricevono l’ospite con onore, perché si convinca che la fede viene praticata e… tolga subito il disturbo.
gesuiti all’assalto
Nel 1576 la diocesi di São Salvador viene divisa, dando origine alla prelatura di Rio de Janeiro. Solo nel 1745 (quasi due secoli dopo) sorgeranno altre due diocesi: Mariana e São Paulo. Nel 1822, anno dell’indipendenza, il Brasile conta appena un’arcidiocesi, sei diocesi e due prelature, per 4 milioni di abitanti.
Ciò è una conseguenza del «patronato», diritto che la Santa Sede ha concesso al Portogallo nel 1493, grazie al quale lo stato è responsabile dell’evangelizzazione nei territori non europei conquistati. Attraverso la Mesa de Consciencia e Ordens (organismo creato nel 1532), si decide la creazione di parrocchie e diocesi, l’installazione di ordini religiosi, la fondazione di conventi. Alla Santa Sede rimane solo la conferma delle nomine episcopali.
L’azione pastorale ha i suoi protagonisti negli ordini religiosi, sostituiti dal clero secolare alla fine del xviii secolo: primi i francescani, seguiti da gesuiti (1549), benedettini (1582), carmelitani (1584) e cappuccini (1612). La maggioranza è portoghese, ma non mancano spagnoli, francesi e italiani.
Sono specialmente i gesuiti a porre le fondamenta delle grandi città, aprire scuole, costruire chiese, ponti, strade e… versare il proprio sangue, come i fratelli Pierre Correa e Jean de Souza, primi martiri brasiliani.
Tre figli di Sant’Ignazio rimangono memorabili nella storia del Brasile: Manoel de Nobrega (capo-spedizione del primo gruppo arrivato nel paese), José de Anchieta e Antonio de Vieira.
In Brasile il 9 giugno è la giornata nazionale dell’educazione ed è questa la data di morte di Anchieta (1597), definito «il primo umanista dell’America e il primo americano dell’umanità». Più discusso è Vieira (1608-1697), in cui si mescolano abilità politica (fu ambasciatore in vari paesi), passione in difesa degli indios (per cui fu rispedito in patria), visioni profetiche troppo in favore del re Giovanni iv e gaffe di fronte alla schiavitù nera.
La lotta antischiavista dura 200 anni. I gesuiti si scontrano con fazendeiros e cercatori di schiavi; sono sostenuti anche dalla corte portoghese, che però è distante; per cui le sentenze, boicottate dalle autorità locali, non sempre raggiungono lo scopo. Nel 1640 la lettura pubblica della bolla di papa Urbano (che vieta il traffico di schiavi indios) provoca tumulti a Rio de Janeiro, Santos e São Paulo. I gesuiti vengono espulsi da São Paulo.
È l’anticipo della cacciata dall’intero Brasile nel 1759: 428 gesuiti lasceranno parrocchie e collegi, causando un tonfo alla chiesa. Ristagna la vita religiosa, gli indios si vedono privati dei loro apostoli, riprende vigore lo schiavismo. Oltre alle autorità civili, anche il clero secolare e gli altri ordini non sopportano tanto i gesuiti, perché sono molto ricchi, hanno troppi privilegi e possono appellarsi a Roma e Lisbona.
Uno storico afferma che «senza i gesuiti, la storia coloniale non sarebbe nient’altro che una catena di atrocità senza nome» (Joaquim Nabuco). Ma c’è chi li accusa di aver ridotto gli indios «a regime di collegio, tenuto da preti… in cui andavano distrutti ogni spirito vitale, freschezza e spontaneità» (Gilberto Freyre).
Facendo un bilancio, la «prima evangelizzazione» è contrassegnata da ombre e luci. Dopo 250 anni di pastorale, non esiste alcun prete indigeno e il cristianesimo non è assimilato dalla popolazione. Si è invece diffusa una fede devozionale. Meticci e neri elaborano propri sincretismi religiosi, accogliendo elementi del messaggio evangelico, interpretando a loro modo i contenuti ricevuti e trovandovi conforto e speranza. La gente semplice si identifica con il Crocifisso e, guardando «all’uomo dei dolori», trova inesauribili risorse per resistere a violenze e umiliazioni.

una chiesa «impacciata»
Nel 1822 i grandi proprietari inducono Pedro i, principe ereditario del Portogallo, a proclamarsi imperatore del Brasile indipendente. Lisbona lo accetta. La Santa Sede riconosce al nuovo imperatore il diritto di «patronato».
Al sovrano si chiede persino il permesso di ordinare i preti. E dom Pedro comanda: «Giudicando che non si deve, senza necessità, aumentare il numero dei ministri della chiesa e rubare all’impero braccia che lo possano difendere contro i nemici, ordina che non si ammetta per ora alcuna persona agli ordini sacri, senza licenza previa dello stesso augustissimo signore».
È un fatto assai negativo. In Brasile nel 1872 si conta solo un migliaio di preti, concentrati specialmente nelle città della costa; all’interno, un sacerdote dirige anche 20 e più parrocchie, sparse per migliaia e migliaia di chilometri quadrati!
Sotto il regno di Pedro ii, la chiesa ha delle scaramucce con il governo. Una parte del clero si oppone alla monarchia. È il caso di Diego Feijao: partecipa alla rivoluzione liberale del 1824, viene arrestato e deportato. La rivoluzione produce anche il primo sacerdote martire repubblicano: fra’ Joaquim Caneca. Né si può dimenticare l’influenza della massoneria nella «questione religiosa». L’epilogo è il processo, la condanna e la prigionia dei vescovi di Olinda e Pará, rei di aver difeso i diritti e la libertà della chiesa.
Con Pedro II inizia la «seconda evangelizzazione» del Brasile. I vescovi, insoddisfatti della situazione, riformano le comunità secondo uno stile tradizionalista: origine divina di ogni potere, alleanza fra trono e altare, primato dello spirituale sul sociale, lotta contro le forze sataniche (come la massoneria).
Per attuare il progetto, ci si appoggia a congregazioni straniere: ai lazzaristi si affida la formazione dei preti; ruoli importanti hanno anche cappuccini e gesuiti (rientrati nel 1846, dopo l’espulsione). Nel 1860 i francescani evangelizzano gli indios del Rio delle Amazzoni, mentre i cappuccini operano tra le tribù della costa orientale.
Spazio anche per le suore: le figlie della carità, le francescane olandesi, le suore di San Giuseppe…
Gli agenti ecclesiali dedicano attenzione particolare ai fedeli di provenienza europea (poveri immigrati che sostituiscono, nel lavoro, gli schiavi), per proteggerli dai sincretismi religiosi. Così il «nuovo cristianesimo» trova il suo habitat nelle aree di recente immigrazione: le regioni meridionali, le cittadine sorte grazie allo sviluppo economico.
Emerge una fede abbastanza disincarnata: nessun impegno sociale, ma sopportazione e buon esempio; molta devozione personale e accettazione rassegnata del proprio stato quale strumento per la salvezza dell’anima.
ripensamenti…

Nel 1889 cade la monarchia e viene proclamata la «Repubblica degli Stati Uniti del Brasile».
La nuova costituzione garantisce alla chiesa libertà e diritto di proprietà. Tuttavia, per la legge della «separazione», è vietato l’insegnamento della religione nelle scuole, è riconosciuto solo il matrimonio civile e vengono secolarizzati i monasteri. I vescovi protestano. Però alcuni si rendono conto che la «separazione» è una «liberazione» dalla protezione-oppressione dello stato.
Nel 1922 il cattolicesimo ritorna religione di stato. Precedentemente, nel 1916, Sebastião Leme, vescovo di Rio de Janeiro, aveva scritto che il Brasile è «la maggiore nazione cattolica del mondo, un paese essenzialmente cattolico». Però la religione è mal compresa. Occorre pertanto evangelizzare ogni ambiente e «cattolicizzare» le diverse realtà.
Nascono diverse opere: l’università cattolica; il Centro dom Vital come strumento di cristianizzazione dell’intelligentia brasiliana; A Ordem, la rivista del pensiero cattolico; l’Azione cattolica; le pasque collettive; la Lega elettorale cattolica; la lotta per una legislazione contro il divorzio e la stipulazione di relazioni diplomatiche con la Russia…
Alle prese con la crisi economica, il presidente-dittatore Vargas cerca l’appoggio dei vescovi. Questi fanno eleggere laici fidati nell’assemblea costituente, intervenendo nella stesura del codice civile e penale. Lo stato concede privilegi alla chiesa, ottenendo in compenso il silenzio di fronte al regime autoritario.
Ma, dagli anni ’40, la chiesa ripensa se stessa partendo dalla promozione umana, pur non osando dichiarare che è il sistema da ribaltare: però incomincia a denunciare le disumane condizioni dei contadini, appoggia le aperture riformiste, ma si oppone alle leghe contadine di ispirazione marxista.
Si discute di riforma agraria. Il 10 settembre 1950 il vescovo Inocêncio Engelke pubblica una lettera pastorale di vasta eco: «Con noi, senza di noi o contro di noi si farà la riforma agraria».
I vescovi sentono il bisogno di progettare insieme: tanto che già nel 1952 nasce la Conferenza episcopale dei vescovi brasiliani (Cnbb), più di dieci anni prima del Concilio! Anche la pratica pastorale incomincia a mutare attraverso sperimentazioni innovatrici.
Nel 1948 il movimento di Natal (nordest) avvia una pastorale fondata su équipes di laici volontari, per combattere la miseria della popolazione e con precisi obiettivi: formazione religiosa dei fedeli, alfabetizzazione degli adulti, trasformazione delle strutture socio-economiche. Significativa è l’esperienza di catechesi di Barra di Piaui (affidata a laici) e di Nizia Floresta, dove si affida a suore la responsabilità di alcune comunità.
Dal 1959 ci si interessa ai sindacati rurali e nel 1960 il Fronte nazionale del lavoro inaugura un nuovo sindacato, ispirato da cristiani nel contesto operaio urbano. Nel 1961 nasce il Meb (Movimento di educazione di base) per l’alfabetizzazione e la formazione delle masse contadine: ottiene uno straordinario successo grazie all’uso della pedagogia liberatrice di Paulo Freire.

La miccia è ormai innescata. Siamo alla vigilia del Concilio ecumenico Vaticano II. È l’evento che avrebbe dato il via ad una rivoluzione nella chiesa del Brasile, con la nascita della comunità di base, la teologia della liberazione, la scelta preferenziale per i poveri.
E questa è tutta una storia nuova.

Giacomo Mazzotti

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