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«Ogni grande cambiamento sociale deve iniziare con la costruzione di nuove narrazioni». Questa citazione sintetizza l’intento del testo dello psicologo politico Daniel Bar-Tal, professore emerito presso l’Università di Tel Aviv.
La tesi centrale dell’autore è che i conflitti diventano «intrattabili» quando sono basati su due narrazioni opposte per visione e vissuti dei protagonisti. Quando entrambe le narrazioni nascono da una cultura del conflitto violento, ostacolano la ricerca di un diverso rapporto con l’altro e, dunque, impediscono la pace.
L’autore conduce un’indagine sul caso del conflitto israelo-palestinese analizzandone gli sviluppi e le conseguenze nelle diverse fasi.

Il testo si articola in cinque parti: la prima attraversa il periodo che va dalle origini del conflitto agli accordi di Oslo del 1993; la seconda si concentra sulla ripresa e l’intensificarsi del conflitto dopo il 2000; la terza parla del prevalere dell’estremismo e della sua istituzionalizzazione, fino a Netanyahu come figura centrale della cultura del conflitto; la quarta riguarda la situazione attuale; la quinta è dedicata alle possibilità di trasformazione.
L’autore mostra come le due narrazioni contrapposte persistano e si irrigidiscano nel tempo.
La parte palestinese vede gli ebrei come immigrati e invasori. I palestinesi hanno una «legittimità esclusiva», un diritto di precedenza sulla «propria» terra.
Per la parte ebraica, la terra è l’eredità promessa da Dio, patria storico culturale, rifugio contro l’antisemitismo. I palestinesi sono parte del popolo arabo, inquilini sulla terra degli ebrei.
Su queste basi, rafforzate dal sionismo che nasconde la violenza della propria parte, Israele, che si considera «luce per le nazioni», vede se stesso come l’unica vittima, attribuendo ai soli «arabi» la volontà di distruggere l’altro.

Elementi di una nuova narrazione emergono negli anni Ottanta, in seguito agli accordi di Camp David del 1978 e al riconoscimento di Israele da parte di Yasser Arafat, leader dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) nel 1988.
Sono gli anni della prima Intifada palestinese, una lotta sostanzialmente nonviolenta, in seguito alla quale si sviluppano anche nella società israeliana nuovi atteggiamenti.
Una ricerca del 1999 mostra, infatti, che il 55% degli israeliani è favorevole alla creazione di uno stato palestinese e cambia anche la percezione della sicurezza, non più affidata alle sole armi, ma anche alla costruzione della pace attraverso la restituzione dei territori occupati.
Questa narrazione è sostenuta dallo sviluppo del Campo della pace, da esperienze come quella di Nevè Shalom e dalla sinistra israeliana.

Tuttavia, dagli anni 2000, anche in seguito al fallimento del processo di pace, all’espansione delle colonie ebraiche nei territori occupati, al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi, con la conseguente disillusione e lo scoppio della seconda Intifada (questa volta violenta), si giunge rapidamente a una escalation del conflitto e al ritorno alla narrazione negativa.
È in questo contesto che Israele usa la politica del divide et impera, sostenendo il movimento islamista di Hamas contro il partito laico di Al-Fatah, maggioritario nell’Olp e membro dell’Autorità nazionale palestinese.
L’occupazione dei territori palestinesi comporta l’arresto e l’uccisione di leader, la detenzione senza processo di migliaia di persone, anche minorenni, il rifiuto di permessi di soggiorno, la demolizione di case, la confisca di terre per gli insediamenti dei coloni, posti di blocco lunghi e umilianti per i palestinesi. Ogni protesta, anche nonviolenta, per Israele è «terrorismo».
Le condanne dell’Onu e le risoluzioni del Consiglio di sicurezza sono disattese, e violate. Israele crea uno stato di apartheid.

Anche l’educazione consolida la narrazione egemone del conflitto: fin dal 1972, infatti, il ministro dell’Istruzione Ygal Allon ha eliminato la linea verde dalle mappe ufficiali di Israele: per le nuove generazioni, il territorio tra il fiume e il mare è un unico spazio che fa parte della patria. Ciò coincide con l’ideologia del movimento sionista religioso del «Grande Israele», che fonda nuove colonie e città ebraiche nei territori occupati, e diventa una forza trainante, sviluppando vittimismo, disumanizzazione del nemico, nazionalismo.
Al culmine di tale processo sta la figura di Benjamin Netanyahu.
Il sistema di occupazione deteriora la stessa democrazia israeliana nella quale si indeboliscono le istituzioni di controllo, si limita la libertà di espressione, si violano i diritti umani, si delegittima l’opposizione e si controllano i media, si discriminano le minoranze e cresce il nazionalismo, sino al razzismo.
L’autore chiama «occupartheid» il sistema che non merita più di essere definito democratico: in cima alla piramide stanno i coloni nei territori occupati, che godono di privilegi e benefici; seguono gli altri cittadini ebrei; poi i cittadini arabi di Israele; al quarto posto gli abitanti palestinesi di Gerusalemme Est, che non hanno diritto di voto alla Knesset e, infine, gli abitanti palestinesi delle zone occupate, la cui vita è regolata dalle direttive del comando militare.

Quali prospettive di fronte a questa situazione, portata all’estremo dagli eventi del 7 ottobre e della distruzione di Gaza?
È indispensabile, per Bar-Tal, riprendere la narrazione a sostegno dei negoziati, riconoscere i palestinesi come partner legittimi, individuare obiettivi che rispondano ai bisogni di entrambi i popoli, porre fine all’occupazione, recuperare la democrazia e i suoi valori, ritrovare leader capaci di guidare il conflitto verso una de-escalation.
È necessaria una trasformazione sociale interna, condotta sia dalla società civile israeliana che dalle pressioni della comunità internazionale.
Ri-umanizzare l’avversario e comprendere che il prezzo del conflitto, per la stessa società israeliana, è più alto di quello per la pace sono i presupposti.
Se non sarà più possibile la soluzione a due stati, l’unica alternativa sarà quella dello stato unico binazionale, con uguali diritti per tutti i cittadini: fondamentale è alimentare la speranza che tutto ciò è possibile.
Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis