

Amare è servire (Gv 13)
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Nel nostro percorso lungo il Vangelo di Giovanni, siamo arrivati all’ultima cena, che nel quarto evangelista assume un carattere molto particolare perché non ci narra l’istituzione dell’eucaristia, che tutti i cristiani sanno essere accaduta proprio in quella sera. Invece, ci racconta di Gesù che si china a lavare i piedi dei suoi discepoli. Si tratta di una sostituzione intenzionale. Giovanni sa perfettamente che persino il credente più distratto e superficiale si aspetta, arrivati alla cena pasquale, che Gesù spezzi il pane e condivida il vino. Eppure, narra altro, ossia un gesto di servizio straordinario, solitamente riservato agli schiavi, da parte del «maestro e Signore». È un gesto insistito, narrato con calma, con una discussione con Pietro che attira ancora di più l’attenzione dei lettori. Quindi arriva la cena, con l’indicazione del tradimento e del traditore.
Seguirà un lunghissimo discorso di Gesù, in due tempi (di cui ci occuperemo in seguito). Ma è chiaro, intanto, che i ritmi abbastanza serrati della prima parte del vangelo, con una serie di «segni» e dibattiti raccontati, lasciano ora spazio a tempi più dilatati con una concentrazione ancora maggiore su Gesù e in particolare sulla sua ultima cena e sulla sua croce.
Il senso globale
Noi siamo abituati a raccogliere il senso di argomentazioni e dimostrazioni alla fine di un’argomentazione, come riassunto. I racconti antichi, però, spesso anticipavano all’inizio quello che aiutava a capire anche i singoli particolari che poi seguivano. È la modalità seguita da Giovanni. I primi tre versetti del tredicesimo capitolo del Vangelo sembrano una semplice introduzione, ma in realtà offrono la chiave di lettura di ciò che segue.
Anzitutto Giovanni ci dice che ci troviamo prima della festa di Pasqua (v. 1). Sappiamo già che non si tratta di una festa banale, perché ricordava e prometteva la liberazione dall’oppressione, in una dinamica di fiducia che coinvolgeva molto altro: era la festa dei pastori che abbandonavano la sicurezza degli accampamenti invernali mettendosi a rischio per arrivare ai lontani e ricchi pascoli primaverili; era il tempo del nuovo raccolto dell’orzo per cui i contadini gettavano le farine rimaste dall’anno prima, confidando che la nuova mietitura sarebbe stata abbondante; ed era soprattutto la memoria della decisione degli ebrei in Egitto di abbandonare una schiavitù che dava però anche la certezza di «mangiare cipolle», e di affrontare il rischio mortale di entrare nel mare per accogliere una promessa di vita da parte di Dio.
Nel quarto Vangelo questa è già la terza Pasqua narrata: la prima (Gv 2,13) era caduta subito dopo il miracolo delle nozze di Cana e aveva visto Gesù scacciare dal tempio i mercanti; intorno al tempo della seconda (Gv 6,4) Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci per una folla di cinquemila uomini, prima di parlare dell’eucaristia.
Ora ci troviamo dopo il ritorno alla vita di Lazzaro, quando i capi religiosi hanno deciso di mettere fine alla sfida costituita da Gesù, il quale proprio a Pasqua entra in questa dinamica di decisione fiduciosa: è il momento di osare, di fidarsi, di «scommettere» sull’affidabilità del Padre abbandonando le relative sicurezze offerte dallo starsene nascosto lontano da Gerusalemme.
In che direzione andrà questa fiducia? Qual è lo scopo di Gesù? Vuole dimostrare la propria divinità? Che è potente ed efficace? Che ha ragione? Giovanni ci dice che Gesù decide di amare i suoi che sono nel mondo fino alla fine (v. 1). È il primo elemento decisivo da tenere presente in questo racconto. Non si tratta di dimostrare la verità di ciò che Gesù proclama, né di imporre la propria forza, ma di amare. Fino alla fine. Fino a dare la propria vita. Il fulcro del discorso non è la dimostrazione di chi sia Gesù, ma del suo amare.
L’«ora», il momento decisivo, verte sull’amore. Se Gesù avesse tergiversato, se avesse atteso ancora, se si fosse ulteriormente nascosto, avrebbe cominciato a lasciar intendere che il suo amore per i discepoli, per «i suoi», era condizionato, arrivava solo fino a un certo punto, finché non rischiava troppo. Invece no, giunge fino «alla fine», alla morte, nel momento in cui il diavolo già ha ispirato Giuda a tradirlo (v. 2).

La lavanda dei piedi
Il gesto di aiuto servile che «prende il posto» dell’istituzione dell’eucaristia mira esattamente a esprimere questo dono di sé per amore, che però è a sua volta introdotto da un’altra osservazione che ci potrebbe sembrare fuori posto. Si dice, infatti, che Gesù fa questo perché sa che il Padre gli aveva dato tutto in mano (v. 3) e che dal Padre veniva e al Padre ritornava.
L’evangelista vuole che ci chiediamo perché questa osservazione sia stata inserita qui. Gesù lava i piedi ai suoi discepoli senza negare di essere «maestro e Signore» (v. 13), ma proprio perché li ama. E, infatti, invita i discepoli a fare lo stesso tra di loro, imitando il loro Signore,
seguendo le tracce del loro
maestro.
Questo gesto, però, è messo sullo sfondo del rapporto di Gesù con il Padre. Gesù si fa servo perché il Padre gli ha messo tutto in mano. Non è la servitù di chi riconosce la propria piccolezza, bensì il servizio di chi si fa umile per amore. Il cuore del discorso non è l’umiliazione, ma il servizio, l’utilità per l’altro, il bene di coloro cui si vuole bene. E nel momento in cui Gesù esprime in questo modo il proprio dono di sé ai discepoli, proprio il fatto di aver avviato il discorso esplicitando il suo legame con il Padre ci ricorda che ciò che Gesù mostra non è innanzitutto la propria umiltà o bontà d’animo, ma il cuore stesso di Dio.
È il Padre che vive la propria grandezza nel donarsi per gli altri, per i suoi amati. È Dio che mostra la propria potenza creando, ossia donando la vita ad altri. Gesù agisce come fa perché è legato al Padre, da lui viene, a lui torna, ed è il suo volto che mostra ed esprime.
Ma se tutto ciò era già stato detto nel Vangelo, e qui semmai arriva al suo culmine in quanto ci troviamo nell’ora della decisione, inizia a emergere un’altra dimensione, che per ora è appena accennata, ma che presto diventerà centrale.
Il gesto della lavanda dei piedi, che mostra il volto del Padre nelle azioni del Figlio, diventa anche quello che Gesù invita i discepoli a riprendere. Non si tratta di un’imitazione banale del lavaggio, come è ovvio, ma del suo senso: «Fate lo stesso anche voi, amatevi!» (v. 14). Gesù invita a imitare lui e il suo amore senza limiti, come segno di essere suoi veri discepoli e per essere autenticamente beati (v. 17). Ma quello che Gesù mostra è l’amore del Padre. Per la prima volta nel Vangelo, ancora quasi timidamente, si dice che l’orizzonte ultimo dell’imitazione di Gesù da parte dei discepoli sarà di mostrare il cuore del Padre e unirsi a lui. Quel Padre inarrivabile, che nessuno ha mai visto, che ci viene mostrato in Gesù, ci invita a imitare lui e a essere in comunione con lui, non solo con suo figlio Gesù, ma proprio con lui, il Padre.
Sarà un tema su cui Giovanni tornerà, ma che ha iniziato a mettere discretamente sul tavolo.
Amore e tradimenti
Chi impone una legge, decide anche le sanzioni di fronte alla sua violazione. Chi chiede amore, potrebbe porre delle condizioni, in mancanza delle quali quell’amore verrà ritirato.
Ma chi si impegna ad amare «fino alla fine», incondizionatamente, è esposto al tradimento, o almeno alla fuga. Chi ama così si fa fragile, e non mancano nella storia umana, anche nel nostro tempo, le voci che invitano a non fidarsi troppo, a non perdere nell’amore la propria dignità. Possono essere consigli forse sensati e utili nella storia umana, ma è chiaro che il Dio della Bibbia non intende seguirli. Il Dio che si mostra nella vita di Gesù ama senza condizioni, e per questo si fa fragile, si espone alle ferite, ai tradimenti. E quando questi arriveranno, come reagirà?
Gesù lava i piedi a tutti e dodici i suoi discepoli. Anche a Giuda, quindi. E non perché non sappia ancora niente, in quanto mostra di aver compreso che è arrivato il momento del tradimento, e chi sia a compierlo. Ne parla esplicitamente, tanto che i discepoli iniziano a chiedersi chi sia il colpevole (vv. 21-22) e Pietro chiede al «discepolo che Gesù amava» di indagare.
La risposta di Gesù è solo apparentemente enigmatica, in quanto indica con chiarezza un discepolo solo, che invita poi a fare subito ciò che deve fare (v. 27). Il segno con cui lo indica, però, è particolare, perché intingere un pezzo di pane nel sugo e offrirlo a una persona, è un gesto di tenerezza e affetto. Gesù è consapevole del tradimento, ma non risponde con astio o vendetta. Piuttosto, offre comunione e amore fino alla fine.
Con la stessa tenerezza quasi rassegnata anticipa anche a Pietro il suo rinnegamento (v. 38). L’amore divino non ama perché viene a sua volta amato, ma ama a prescindere, fino alla fine, qualunque cosa succeda.
L’amore dei discepoli
Quell’amore del Padre, attestato da Gesù, è l’ideale in cui Gesù chiede anche ai discepoli di entrare: «Sapranno che siete discepoli miei da come vi amerete» (v. 37). Perché a caratterizzare il volto di Dio, e quindi il volto autentico degli uomini perfetti, non è la forza, la decisione, la chiarezza di idee o di progetti, ma l’amore. E quanto più i discepoli di Gesù sapranno amarsi a vicenda, tanto meglio vivranno la loro umanità e assomiglieranno al Padre.
Gesù, tuttavia, non è un ingenuo. Prevede il tradimento di Giuda, ma anche il rinnegamento di Pietro (v. 38). In generale, ammette che là dove va lui, sulla strada dell’amore pieno, generoso, totale, senza condizioni, Pietro non può ancora andare. Pietro, ossia il primo dei discepoli, il loro rappresentante, per ora non può seguire Gesù sulla strada dell’amore pieno e incondizionato. Si tratta di crescere, di imparare, di aumentare la propria umanità imitando sempre meglio il volto di Dio. Non si può improvvisare.
Nello stesso tempo, però, l’amore divino non viene meno. Il tono è delicato, come di fronte a certi istintivi ma impossibili slanci di bambini piccoli. «Non puoi per ora seguirmi» (v. 36) implica che un giorno forse potrai, avrai imparato a imitarmi fino in fondo. Per ora, però, nonostante il nostro limite, Gesù e il Padre già lo amano. Ci amano. Senza condizioni.
Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 16 – continua)