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Ad gentes in alta quota

La scelta è il lavoro tra i popoli indigeni dell’America Latina. Nei primi anni Novanta si concretizza sulle Ande boliviane. Impegno sociale, ma anche pastorale giovanile. Studio di cultura e spiritualità dei popoli.

C’è abbastanza carburante nella Jeep (negli ultimi tempi, non sempre è così…) e le missionarie che lavorano a
Vilacaya (piccolo paesino a tremila metri di altitudine sulle Ande boliviane) decidono di andare a visitare due famiglie che vivono in borgate a circa 10 km di distanza. Il veicolo sobbalza, superando pietre e buche, mentre alza il polverone dietro di sé.

Entrambe le famiglie hanno case dipinte di bianco e azzurro, costruite da un progetto del governo, il cui partito si contraddistingue proprio per questi due colori. Entrambe sono composte da due genitori e sei figli, più o meno della stessa età. Entrambe lottano per assicurare un oggi e un domani ai piccoli di casa.

Non è facile: Vilacaya e, in generale, il Sud Ovest della Bolivia è colpito da una progressiva siccità, che rende quasi impossibile la vita delle famiglie contadine, appartenenti all’etnia quechua.

Ci sono però delle differenze: la prima famiglia cerca con tutti i mezzi di migliorare le sue condizioni, mentre la seconda è prostrata, tra le altre cose, dalla piaga dell’alcolismo e, alle volte, i bambini soffrono l’abbandono. Anche questa è una faccia della povertà.

Poopó e i minatori

Le Missionarie della Consolata sono arrivate in Bolivia nel 1991, ma se ne sono «innamorate» molto prima: nel 1989 due consigliere generali – suor Renata Conti e suor Evelia Garino – avevano visitato diversi Paesi dell’America Latina, in vista di una nuova presenza missionaria accanto ai popoli nativi. Erano passate a Poopó, centro minerario del dipartimento di Oruro, e ne rimasero profondamente toccate.

Come istituto, però, fu scelta un’apertura a Tencua, nell’Amazzonia venezuelana. Ma la storia non finì nel nulla: la direzione generale propose alle sorelle presenti in Argentina di riflettere su una possibile apertura a Poopó. E questa avvenne, appunto, due anni dopo. Quella di Tencua, come quella di Poopó, sono state una risposta all’opzione che, gradualmente, le varie presenze delle Missionarie della Consolata nel continente americano hanno fatto propria: la scelta della missione ad gentes tra i popoli indigeni e originari. All’epoca, il «movimento indigenista», appoggiato da Ong e da Chiese di varie denominazioni, era molto attivo e rivendicava i propri diritti. È stato un tempo intenso, nel quale la presenza dei Missionari e delle Missionarie della Consolata si concentrava nell’impegno per la giustizia e la pace, e in progetti di promozione umana. 

«Era chiaro che la nostra presenza non doveva essere una risposta assistenzialista», ricorda suor Marisa Soy, una delle prime missionarie giunte in Bolivia. La situazione socio economica dell’altipiano andino, all’inizio degli anni Novanta, era preoccupante: la speranza di vita era bassa e la mortalità infantile molto alta. Le sorelle iniziarono a visitare le famiglie per rendersi conto della condizione reale della gente. A livello di Chiesa, esisteva già un’equipe diocesana di pastorale sociale, quindi la collaborazione fu immediata e molto positiva. «Conoscevamo i progetti dell’équipe, e contribuivamo con il nostro lavoro e anche economicamente», condivide suor Marisa.

Oltre all’impegno sociale, le sorelle partecipavano alle comunità di base e accompagnavano la pastorale giovanile.

Bolivia, missionarie della Consolata.

Tra i contadini quechua

Bolivia, missionarie della Consolata.

Dopo venti anni di presenza, nel 2012 la riflessione ha portato a un «cambio di domicilio»: la parrocchia di Poopó aveva i suoi leader, le condizioni socioeconomiche della cittadina erano migliorate. La sfida di lasciare terreni dissodati e conosciuti, per ricercarne altri e iniziare da zero (o quasi) fa parte della missione ad gentes. Con le lacrime agli occhi, ma con il cuore pieno di gratitudine per la missione vissuta, nel 2013 si è chiusa la comunità di Poopó e si è aperta quella di Vilacaya, nel dipartimento di Potosí, una vasta regione del sud del Paese, in cui la presenza ecclesiale era quasi nulla.

L’opzione per i popoli indigeni dell’istituto ha compiuto passi significativi nel tempo. Oggi si dà molta attenzione allo studio della cultura, della lingua e della spiritualità del popolo nativo, come riconosce suor Marisa che, dopo una ventina d’anni vissuti fuori continente, è ritornata in Bolivia, questa volta a Vilacaya: «Qui ho percepito un impegno maggiore della comunità delle missionarie nel conoscere la cultura e accompagnare la gente nella riflessione sulla propria identità. È bello che protagoniste siano le persone e noi delle sorelle che le accompagnano». Con molto sforzo e convinzione, i popoli andini cercano di armonizzare le proprie radici originarie, la fede cristiana e le sfide del mondo globalizzato (paradigmi culturali nuovi e attraenti, il cambio climatico, le politiche nazionali).

Suor Nadia Leitner ha vissuto diversi periodi in Vilacaya, fin dai primi passi di questa comunità. Oggi è la sua Chiesa di origine, in Mendoza (Argentina), ad averle dato il mandato per la missione in Bolivia: «Questo mandato è un segno di fiducia e speranza, la certezza che non sono sola, e che non cammino per conto mio», ci racconta suor Nadia. «Per me significa vivere l’ad gentes del Continente America. Vivere con il popolo quechua ha tanto da insegnarmi».

Vilacaya oggi

Suor Marisa, suor Nadia e suor Maria Elena rientrano dalla visita alle due famiglie con il cuore colmo di emozioni e interrogativi: che ne sarà di questi bambini, in un ambiente così sfidante? Saranno migranti, come tanti altri, alle periferie delle città, o lavoreranno nei cunicoli delle miniere? Non ci sono risposte a queste domande, ma c’è una realtà nell’oggi di queste persone: la presenza delle suore e la visita che fanno alle comunità e famiglie, che reca sempre tanta gioia. Si percepisce molta solitudine e senso di abbandono nella popolazione quechua della zona.

«Oggi Dio mi sta chiedendo di stare qui, dare il meglio di me, perché ogni persona possa sentirsi amata da Dio, un Dio che non si dimentica dei suoi figli. Condividere la vita con la gente, significa dire alle persone che hanno valore, che i loro sogni valgono», ci dice suor Nadia.

E questa è la consolazione che fa vivo e presente lo spirito di san Giuseppe Allamano nella vita delle sue figlie. Anche ad alta quota.

Stefania Raspo

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