Rigoberta Menchu

il riscatto maya

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Guatemala
Gianni Minà

Rigoberta, il riscatto maya

In America Latina, ci sono figure profetiche che da sole spiegano e rappresentano il riscatto sociale di quel continente ancora oggi saccheggiato, ma non più completamente in balia delle nazioni occidentali. Una di queste è stata ed è Rigoberta Menchú, indigena maya del Quiché guatemalteco, che nel 1992, 500 anni dopo la «conquista» dell’America, la cosiddetta «scoperta» del Nuovo Mondo, fu insignita, per la sua dedizione alla causa dei presunti sconfitti (raccontata anche nella sua autobiografia Me llamo Rigoberta Menchú, ndr), del Nobel per la Pace. Proprio in quel lontano 1992 io avevo seguito Rigoberta Menchú in uno dei suoi tanti viaggi di speranza in aiuto al suo popolo. Con la generosità che la contraddistingue, Rigoberta aveva deciso di accompagnare il viaggio di ritorno di alcune migliaia di esuli della sua bellissima e martoriata terra, rifugiati in Messico o in altre terre del Centro America, nuovamente fiduciosi nella pace. Purtroppo quello non sarebbe stato il viaggio definitivo di ritorno a casa, né la fine di violenze, torture e desaparecidos (oltre 55mila vittime, secondo il rapporto Remhi, ndr) ma avrebbe rappresentato comunque l’inizio di una stagione di accordi di pace (firmata nel dicembre 1996, ndr) tra popolazioni autoctone e militari, pur se spesso violati o non rispettati.  Era una sera di fine anno. Al confine con lo stato di Campeche, uno dei tre dello Yucatan messicano, erano venuti a riceverla i ragazzi degli accampamenti limitrofi cavalcando rudimentali tricicli o risciò a pedali insieme a Blanche Petrich, una giornalista messicana che da tempo aveva sposato la causa degli indios guatemaltechi. L’unica luce per inquadrare questo tenerissimo benvenuto era stata il flash della cinepresa della mia troupe. Rigoberta Menchú, all’epoca 33enne, aveva scelto di trascorrere gli ultimi giorni di quel 1992 nei campi dei rifugiati del suo paese in Messico quasi come un esorcismo, sicura che le sofferenze del suo popolo stessero per finire.

Quella sera c’erano fratelli indigeni di tutte le etnie – Quiche, Kekchi, Kaqchikel, Mam, Tzutuhiles, Ixil, Kanjobal -, ai quali lei non si era stancata di predicare l’unità nella diversità e una vita che non rinnegasse i miti maya, ma fosse capace di conciliarli con una società solidale, laica, multietnica e pluralista. La figlia di Vicente, il catechista bruciato vivo nel 1980 nell’ambasciata di Spagna della capitale guatemalteca dalla repressione di un potere militare feroce, ci aveva insegnato, inoltre, a non disperare mai, come le aveva insegnato a sua volta sua madre Juana, comadrona (levatrice) nella sua terra millenaria, dove era stata torturata e uccisa.

Quella sera aveva aspettato il nuovo anno ballando il son al suono delle marimbe, mentre, attorno all’accampamento di Quetzal, facevano festa, con divertita compostezza, giovani donne che portavano come lei il delantal, un grembiule colorato segno della loro dignità e legame con la loro educazione e poi molte adolescenti, a piedi nudi, con un bambino al seno, e altre, giovanissime, con un fratellino sulla spalla o sul fianco legato con fasce coloratissime. I ragazzi vestivano con meno timidezza e avevano jeans, scarpe da ginnastica e atteggiamenti più vicini ai coetanei messicani. I vecchi, invece, erano meno numerosi, con i loro scavati profili maya e l’abitudine a osservare senza dire una parola. «Non si diventa vecchi in America Latina» ha scritto, non a caso, un poeta di quelle parti.

Per gli spietati militari del Guatemala, il premio Nobel a una indigena era stato un colpo durissimo, una notizia accolta con malcelato disagio. Il presidente dell’epoca, Jorge Serrano, l’aveva ricevuta al suo ritorno, dopo l’esilio messicano, con cortese freddezza, quasi redarguendola perché non creasse polemiche. «Una volta io, cristiana e credente – mi aveva confessato Rigoberta – venivo accusata di essere simpatizzante del comunismo, poi quando il comunismo si è dissolto, l’accusa è diventata quella di essere vicina alla guerriglia. La tecnica dei militari di casa mia, aiutata dagli istruttori israeliani, argentini e nordamericani, ricorda quella della mafia: quando non è possibile eliminare gli ostacoli rispettando le leggi, bisogna tentare di criminalizzare l’avversario. Adesso, per esempio, affermano che io voglio mettermi in politica e diventare presidente della Repubblica». Aveva concluso sorridendo.

Di tutte le battaglie che ha sostenuto negli anni, quella politica è stata la più azzardata. In due occasioni (nel 2007 e nel 2011, sempre ottenendo poco più del 3% dei voti, ndr) la sua candidatura alla Presidenza guatemalteca non ha avuto esito. È sorprendente e un po’ amaro per il prezzo che ha dovuto pagare la sua famiglia sterminata dai militari e per le lotte da lei combattute per i diritti dei fratelli maya e di tanti latinoamericani intrepidi e sognatori. Ma so che un giorno o l’altro la troverò ancora una volta in prima linea per difendere le aspirazioni di tutti, come ha fatto a New York l’11 settembre del 2001 quando l’hanno vista arrivare per prima all’Onu per offrire, se fosse stato necessario, il suo aiuto.

La ricordo in un pulmino zeppo di amici (Lula, Eduardo Galeano, Frei Betto, Dante Liano) che la accompagnavano in un giro culminato in una festa dell’Unità a Modena, dove gli organizzatori, scettici sul successo della presentazione del libro-denuncia Guatemala nunca mas, volevano cambiare il luogo della conferenza credendo che sarebbe andata deserta. Gli spettatori invece gremirono la sala. Tutti felici di premiare la caparbietà di Rigoberta e con lei tutti concordi nel non rinunciare ai propri ideali. Basta aspettare e non farsi ingannare dai bagliori della politica.

Gianni Minà

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Gianni Minà

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