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«Davanti agli occhi del mondo, il Brasile ha lanciato un messaggio a tutti gli aspiranti autocrati e a coloro che li sostengono: la nostra democrazia e la nostra sovranità sono non negoziabili». Sono le parole che il presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, ha rivolto all’assemblea generale delle Nazioni Unite lo scorso 23 settembre. Il suo intervento@ apriva la riunione di alto livello in cui parlano i capi di Stato e di governo. Molta parte del «discorso al vetriolo» di Lula, come lo ha definito il New York Times, era un attacco frontale alle «ingerenze negli affari interni» del Brasile, alle «misure unilaterali e arbitrarie contro le nostre istituzioni e la nostra economia», alle «forze antidemocratiche che cercano di soggiogare le istituzioni e soffocare le libertà», alle bombe e alle armi nucleari che «non ci proteggeranno dalla crisi climatica». In altre parole, un attacco a Donald Trump, che ha messo dazi al 50% verso il Brasile come ritorsione per aver condannato l’ex presidente Jair Bolsonaro per tentato colpo di Stato@, ha sospeso i visti e imposto sanzioni ai giudici che lo hanno giudicato e continua a definire bufala, truffa e inganno il cambiamento climatico.
Il Brasile – è il messaggio del presidente Lula – ha dimostrato di essere un grande Paese. Ha difeso la democrazia, non si è piegato a Trump, ha da poco ricevuto dalla Fao la conferma di essere uscito dalla mappa della fame@.
Inoltre, è il Paese ospitante della «Cop della verità» – cioè la Cop30, trentesima Conferenza delle parti sul cambiamento climatico, in programma a Belém dal 10 al 21 novembre -, e si impegna a lottare contro la povertà, «nemica della democrazia quanto l’estremismo», a promuovere la concorrenza nei mercati digitali e l’installazione di data center sostenibili, a spingere sul multilateralismo e a fare in modo che la voce del Sud globale sia ascoltata. Chi ama questa agenda, sembra dire Lula, ci segua.

Quinto Paese al mondo per estensione, con i suoi 8,5 milioni di chilometri quadrati il Brasile è grande quanto la metà del Paese più esteso, la Federazione Russa, mentre la supera di poco quanto alle dimensioni dell’economia: la Russia, infatti, ha un Pil di 2.174 miliardi di dollari (per 143 milioni di abitanti), mentre quello del Brasile è 2.179 miliardi (per una popolazione di 212,8 milioni): valore comparabile con quello dell’Italia (59 milioni), che ha un Pil di 2.373 miliardi@.
Diverso è invece lo scenario se si guarda all’indice di sviluppo umano (Isu, o Hdi nell’acronimo inglese), utilizzato dalle Nazioni Unite per includere variabili più raffinate del solo Pil nel valutare la condizione delle società umane, come la possibilità di condurre una vita lunga e sana, di avere un buon livello di istruzione e un reddito che garantisca un tenore di vita dignitoso@. Il valore massimo dell’Isu è 1, il Paese che nel 2023 ci è andato più vicino è stato l’Islanda (0,972), mentre il Brasile è a 0,786, occupando l’84a posizione: si trova, dunque, fra i Paesi di fascia alta, in linea con l’altra potenza regionale, il Messico, ma venti posizioni più in basso della Russia. A limitare i risultati nello sviluppo umano del Paese, influiscono diversi fattori, fra i quali il grado di diseguaglianza: la longevità, il livello di istruzione, il reddito, cambiano molto da una fascia all’altra della popolazione. «Il problema maggiore del Brasile è la disuguaglianza sociale», conferma Guglielmo Damioli, arrivato in Brasile nel 1979 per lavorare con i popoli indigeni di Roraima e oggi residente di Belém. Il Paese ha un sistema piramidale, con una élite dominante che vive negli Stati del Sud come Rio de Janeiro e San Paolo, e una grande massa di poveri nel Nord e Nordest. «Se i servizi pubblici, in particolare sanità, sicurezza, igiene, politiche abitative e infrastrutture, sono precari in tutto il Brasile, qui al Nord sono di pessima qualità, specialmente nell’entroterra». Secondo il World inequality database@, sito di statistiche fondato, fra gli altri, dall’economista francese Thomas Piketty, in Brasile il 10% più ricco detiene il 69,7% delle risorse, mentre nella nazione meno diseguale, i Paesi Bassi, ne detiene il 45%.
Ridurre le diseguaglianze non sarà né rapido né semplice. Quello di Lula, scrive padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata e responsabile della pastorale carceraria della Conferenza dei vescovi del Brasile (Cnbb), «è un governo sostenuto da un’ampia coalizione che, pur proponendosi idealmente di fare passi significativi in campo sociale, rimane fortemente limitato dal Parlamento», dominato da una maggioranza di destra, e dalle lobby agroindustriali e minerarie.
Con la pastorale carceraria, spiega ancora padre Gianfranco, «portiamo avanti la lotta contro le detenzioni di massa, usate come strumento di controllo della povertà, delle periferie, delle persone e dei corpi, e come sofisticato e moderno sistema di tortura». In questo settore, l’arrivo di Lula per ora non ha portato miglioramenti significativi, perché il governo continua a gestire il problema «a partire da una visione mercantilista e punitiva».
Qualche cambiamento lo ha invece registrato padre Juan Carlos Greco, responsabile dell’equipe dei missionari della Consolata che assiste i migranti venezuelani a Boa Vista. Sono migliorati i toni – Lula ha detto pubblicamente che migranti e rifugiati devono essere trattati «con grande responsabilità e rispetto» – e il governo ha preso alcuni impegni, come aiutare lo Stato di Roraima a garantire l’istruzione e il benessere dei rifugiati. Il presidente ha poi mantenuto il sostegno all’Operazione accoglienza per assistere i migranti in fuga dalla crisi venezuelana.
Ma i tagli dei fondi Usa per lo sviluppo imposti dall’amministrazione Trump, riporta padre Juan Carlos, hanno avuto «un impatto diretto sui programmi umanitari, la gran parte dei quali era finanziata da Usaid», l’agenzia degli Stati Uniti per l’aiuto allo sviluppo. Organizzazioni come Caritas brasiliana sono state costrette a sospendere diverse iniziative come, ad esempio, il progetto Sumaúma, che distribuiva circa 2mila pasti al giorno ai migranti venezuelani e alle persone senza fissa dimora a Boa Vista, e il progetto Orinoco, che offriva servizi igienici gratuiti a Boa Vista e Pacaraima. La sospensione dei fondi di Usaid ha portato le organizzazioni a cercare sostegno presso l’Unione europea e le Caritas di Germania e Svizzera, che hanno contribuito a riaprire in parte alcuni servizi.

Il ritrarsi degli Stati Uniti dagli impegni internazionali sta creando confusione e paura, ma ha anche aperto spazi di azione per altri Paesi. Forte del suo ruolo di potenza regionale, il Brasile da anni reclama un maggior peso nei processi decisionali internazionali. Un esempio è la sua appartenenza, insieme a Germania, Giappone e India, al G4, il gruppo di Paesi che chiedono un seggio permanente al Consiglio di sicurezza Onu.
In un’analisi pubblicata dal centro studi statunitense Carnegie endowment for international peace, il professore di relazioni internazionali alla Fondazione Getulio Vargas di San Paolo, Matias Spektor, osservava, tuttavia, che nessuna amministrazione brasiliana ha finora prodotto un documento ufficiale che dettagli la proposta di riforma. Inoltre, fra il 2018 e il 2022, gli stanziamenti annuali del Brasile per il bilancio ordinario delle Nazioni Unite sono scesi da 92 a 56 milioni di dollari (hanno cominciato a risalire dal 2023). Quella del Brasile, scrive Spektor, sembra essere stata fin qui una «strategia a basso costo»@.
Ma il ruolo del Brasile acquista un peso diverso quando si combina con quello di altre nazioni, come quelle del gruppo Brics – acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica -, diversissime fra loro, ma accomunate da un’aspirazione: fare da contrappeso all’influenza occidentale nelle istituzioni globali come Banca mondiale, G7 e, appunto, Consiglio di sicurezza dell’Onu@. Il Brics, che dal 2023 si è allargato anche a Egitto, Etiopia, Indonesia, Iran e Emirati arabi uniti, rappresenta oggi un terzo dell’economia globale e metà della popolazione del pianeta.
Il Brasile è anche uno dei Paesi del Gruppo dei 20, o G20, nato alla fine degli anni Novanta del secolo scorso per riunire ministri delle finanze e governatori delle banche centrali del gruppo e reagire alla crisi finanziaria asiatica e diventato, con la crisi globale del 2008, un luogo di negoziazione a cui partecipano i capi di stato e di governo. In un articolo sulla rivista Foreign Affairs di gennaio@ Matias Spektor sostiene che il G20 ha sostituito il G7 come principale forum per la governance economica globale. Fra i risultati ottenuti, Spektor cita il suo ruolo nel favorire l’ampliamento della rappresentanza nel Fondo monetario internazionale e nella Banca mondiale per includere le economie emergenti.
Un ambito nel quale il Brasile di Lula appare determinato a far valere il proprio primato, è quello della lotta al cambiamento climatico. Il primato è, ovviamente, quello di avere sul proprio territorio circa il 60% della foresta pluviale più grande del pianeta, la foresta amazzonica, che assorbe una quantità significativa dell’anidride carbonica, contribuisce e a regolare il ciclo dell’acqua e produce ossigeno. Già a settembre scorso il presidente brasiliano ha annunciato@ un contributo di un miliardo di dollari al meccanismo Tropical forests forever fund (Tfff, Fondo foreste tropicali per sempre), presentato dallo stesso Brasile nel 2023 durante la Cop28 a Dubai come meccanismo che garantisca ai Paesi con foreste tropicali finanziamenti stabili e continui per mantenere ed espandere la copertura forestale.
Lula sa che la questione del finanziamento è stato il principale ostacolo ai negoziati sul clima negli ultimi anni e a New York il 23 settembre ha detto: basta negoziare, è venuto il momento di agire. La scommessa di questo Fondo – che finora ha suscitato tante speranze quante perplessità – è che si possa rendere la conservazione delle foreste conveniente sia per i Paesi che le hanno sul proprio territorio che per gli investitori. Il meccanismo prevede la creazione di un fondo iniziale di 25 miliardi – il miliardo annunciato da Lula è il primo di questi – donati da governi e organizzazioni filantropiche. L’obiettivo sarebbe poi quello di attirare altri 100 miliardi di dollari da investitori sul mercato, arrivando così a 125 miliardi da prestare puntando a realizzare un profitto del 7,6%, per poi restituire agli investitori il 4,9% e realizzare così un guadagno finale del 2,7%, pari a circa 3,4 miliardi di dollari. Questi soldi sarebbero, infine, distribuiti destinando 4 dollari per ettaro di foresta ai Paesi con foreste tropicali, affinché questi provvedano alla loro conservazione@. Il meccanismo prevede che il 20% dei fondi vadano ai popoli indigeni e alle comunità locali per garantire, ha detto il presidente brasiliano, «i mezzi adeguati a chi si è sempre preso cura dei nostri boschi e foreste».

«La Cop30 è il sogno planetario di Lula e la scelta della città di Belém come sede serve ad attrarre attenzione e investimenti sull’Amazzonia». A parlare è ancora Guglielmo Damioli, ora attivo nell’associazione di agricoltori Abaa di Bujaru, nello stato di Pará. Belém, continua, è «porta e capitale dell’Amazzonia, una grande metropoli immagine e frutto della disuguaglianza sociale e della mancanza di politiche pubbliche del Paese». E l’Amazzonia «è il simbolo dell’equilibrio planetario, con la sua fragilità e con l’infinità delle sue ricchezze, umane e naturali». Ma è anche il luogo dove gli agricoltori e coloni hanno tagliato e bruciato la foresta per coltivare la terra, dove «la destra vuole sviluppare monocolture per l’esportazione, come la soia e il biodiesel, l’allevamento intensivo e lo sfruttamento minerario». La città, racconta Damioli, è piena di cantieri, gli alloggi sono insufficienti per le decine di migliaia di partecipanti attesi per la Cop30, i prezzi sono altissimi. «La gente di Belém soffre un poco il caos per i tanti lavori in corso, ma sa che erediterà una città migliore e che sarà al centro di un evento storico».
Così storico da spingere diversi osservatori a vederci un test cruciale sulla sopravvivenza del multilateralismo nel suo complesso, non solo delle Cop. Su questo concorda anche padre Dario Bossi, che sarà alla Cop30 con la Commissione per l’ecologia integrale della Cnbb. «Siamo in un momento critico per i meccanismi multilaterali, con i nazionalismi e i sovranismi che stanno tentando di smantellarne non solo i concetti ma le strutture stesse».
Padre Dario riporta una battuta che circola fra chi sta preparandosi alla Conferenza: «Qualcuno dice che sarebbe già una vittoria uscire dalla Cop30 progettando una Cop31». Ma, continua padre Bossi, a di là dei timori, ci sono alcuni elementi che non rendono scontato il risultato negativo di questa Cop. Il presidente della Cop, André Aranha Corrêa do Lago, è un diplomatico di carriera con una grande esperienza su cambiamento climatico, energia e ambiente e in questi eventi la capacità degli organizzatori nel creare un clima di fiducia fra i partecipanti è fondamentale.
La Cnbb non sarà nella zona blu, dove si svolgono i negoziati ufficiali e dove a rappresentare la Chiesa ci saranno lo Stato del Vaticano e Caritas internationalis, ma farà comunque sentire le proprie proposte insieme a quelle delle 1.100 organizzazioni riunite nella Cupola dei popoli@ e nel Tapiri interreligioso (tapiri è una parola in lingua indigena che indica una capanna dove si fermano i viandanti a riposare). Quest’anno, poi, a dare maggiore compattezza alle posizioni delle Chiese del Sud globale c’è anche un loro documento congiunto dal titolo «Un appello per la giustizia climatica e la casa comune: conversione ecologica, trasformazione e resistenza alle false soluzioni»@.
«Noi scommettiamo sul processo più che sull’evento in sé, perché la vita quotidiana delle persone e la Cop sono molto lontani. Siamo convinti che la storia del clima si cambia dai territori», lavorando con le persone per trovare soluzioni e strumenti concreti. Per questo i popoli indigeni hanno redatto i loro Contributi determinati a livello nazionale – o Nationally determined contributions, Ndc, i piani in cui gli Stati indicano le azioni che intendono portare avanti per il clima – e chiedono che vengano inclusi nel Ndc del Brasile. Non solo: dal momento che il finanziamento è un tema chiave della Cop30, i popoli indigeni hanno proposte su come usare i 300 miliardi di dollari che la Cop29 aveva destinato alla lotta al cambiamento climatico: «Le proposte si basano su esperienze reali, che hanno funzionato, e dimostrano che i popoli indigeni sono un attore decisivo per definire nuovi percorsi».
Chiara Giovetti


Dallo scorso agosto, la Fondazione Missioni Consolata è diventata un Ets, «Ente del terzo settore», ed è iscritta al Registro unico nazionale. Questo è disponibile per la consultazione online@ e permette di leggere e scaricare le informazioni e i documenti fondamentali di ogni ente, come lo statuto e i bilanci.
Al 25 settembre 2025 gli enti iscritti erano 138.014. Gli Ets possono essere di 7 tipi: organizzazioni di volontariato; associazioni di promozione sociale; enti filantropici; imprese sociali, incluse le cooperative sociali; reti associative; società di mutuo soccorso e altri enti del Terzo settore. La Fondazione Missioni Consolata fa parte di quest’ultimo gruppo.
Che cosa cambia, per la Fondazione e per i suoi sostenitori?
In primo luogo, che non ci chiameremo più Mco: la «o» finale dell’acronimo, infatti, stava per «onlus», tipologia di ente che non esisterà più a partire dal 2026. Aggiorneremo quindi la denominazione in tutti i canali che usiamo per comunicare con sostenitori, amici, lettori, fornitori, enti pubblici. Il nostro identificativo sarà Fondazione Missioni Consolata Ets.
Nulla cambia, o quasi, per quanto riguarda invece i conti correnti: gli Iban restano gli stessi, cambia solo l’intestazione dei conti, dove la sigla Ets sostituirà Onlus.
Quanto poi ai vantaggi fiscali, continueranno a esserci: riporta la pagina web di Forum terzo settore@ che ci sarà la detrazione del 30% per le erogazioni liberali delle persone fisiche a favore degli Ets (35% nel caso delle organizzazioni di volontariato) fino a un massimo di 30mila euro. A società ed enti spetta invece una deduzione fino al 10% del reddito complessivo netto dichiarato.
Non abbiamo ancora deciso il nome «per gli amici», cioè come riferirci più informalmente a noi stessi, se chiamarci semplicemente Fondazione Mc, oppure Mce. Ma saranno il tempo e l’uso a decidere, come è stato per la onlus. Nessuno aveva stabilito a priori di usare la lettura delle lettere dell’acronimo (emme-ci-o) ma piano piano ci siamo abituati, noi che ci lavoriamo e voi che ci sostenete, a fare così. Anzi, accettiamo suggerimenti: voi come ci chiamerete da oggi?
Chi.Gio
