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Il compleanno delle Nazioni Unite ha una torta con molte candeline, che minaccia di farsi sempre più piccola e con gli amici della prima ora che non sembrano avere molta voglia di presentarsi alla festa.
Per i suoi ottant’anni, infatti, l’Onu sta affrontando progetti di riforme radicali e tagli alla spesa, grossi ritardi nei contributi finanziari da parte degli Stati membri e, più in generale, molte domande su come conservare un minimo di rilevanza in un mondo che fatica a rispettare le regole che si era dato a metà del Novecento.
Lo scorso maggio, l’agenzia di stampa Reuters riportava, ad esempio,@ che il Segretariato, cioè la struttura diplomatico amministrativa che ha al proprio vertice il Segretario generale, oggi il portoghese António Guterres, si starebbe preparando a eliminare circa 6.900 posti di lavoro, con un taglio del 20% al proprio budget di 3,7 miliardi di dollari.
Anche il Programma alimentare mondiale (Wfp nella sigla inglese), ipotizza di tagliare di seimila unità il proprio staff, mentre l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) prevede una riduzione delle spese del 30%@.
Queste scelte derivano in larga parte dalle decisioni dell’amministrazione Usa guidata dal Presidente Donald J. Trump, che pare intenzionata a ridurre molto la propria quota di contributo all’organizzazione, pari, finora, a circa un quarto del budget totale.
Gli Stati Uniti erano stati i principali e più convinti fondatori dell’Onu. L’Organizzazione è infatti nata nel 1945 su iniziativa dei Paesi vincitori della Seconda guerra mondiale e, in particolare, di quattro potenze patrocinanti, cioè Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina e Regno Unito. Dopo la conferenza di Jalta del febbraio 1945, in cui i leader di Usa, Regno Unito e Urss avevano discusso l’ordine mondiale post-bellico, gli stessi Paesi convocarono la Conferenza delle Nazioni Unite sull’organizzazione internazionale. Il termine «Nazioni Unite» fu proposto dall’allora presidente Usa Franklin Delano Roosevelt già anni prima, e utilizzato per la prima volta nella Dichiarazione delle Nazioni Unite, firmata a Washington il 1° gennaio 1942 da 26 Paesi per sancire la loro decisione di cooperare per vincere la guerra contro le potenze dell’Asse, cioè Germania, Italia, Giappone e i loro alleati.
Come osserva Marco Mugnaini, professore di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Pavia, nel libro da lui curato Onu 1945 – 2025@, l’adozione della Carta dell’Onu@ il 26 giugno 1945 a San Francisco, Usa, e la sua entrata in vigore il 24 ottobre dello stesso anno, segnarono l’inizio del processo di creazione dell’organizzazione delle Nazioni Unite e degli organi, agenzie, programmi e enti che insieme costituiscono il cosiddetto sistema Onu.
Alcune di queste agenzie esistevano già da molto tempo: l’Unione internazionale delle Telecomunicazioni (Itu), ad esempio, era stata fondata a Parigi nel 1865 e compie quindi 160 anni. Altri organi, come l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), erano un’eredità della Società delle Nazioni, ente precursore dell’Onu fondato dopo la Prima guerra mondiale, mentre le istituzioni finanziarie – Banca mondiale e Fondo monetario internazionale – e l’Unesco, l’agenzia che si occupa di cooperazione nell’ambito educativo, scientifico e culturale, nacquero insieme all’Onu fra il 1944 e il 1945. Altri organi sono poi sorti per iniziativa della stessa Onu: ad esempio, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms/Who), nel 1948, l’Unhcr nel 1950, l’Agenzia internazionale per l’Energia atomica – Aiea/Iaea nel 1957.

A oggi, il sistema Onu conta sei organi principali. Uno – il Consiglio di amministrazione fiduciaria, che si occupava dei territori sotto mandato internazionale – ha sospeso le attività nel 1994, mentre cinque sono in attività: l’Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza, il Consiglio economico e sociale, il Segretariato e la Corte internazionale di giustizia. Questi organi coordinano complessivi 82 enti sussidiari alle loro dipendenze (ad esempio, l’Unicef è un fondo che fa capo all’Assemblea generale), 16 agenzie specializzate, come Oms e Unesco, e 10 organizzazioni indipendenti dall’Onu ma a essa legate da accordi, come la Aiea, l’organizzazione mondiale del Commercio (Omc/Wto) o la Corte penale internazionale (Cpi/Icc)@.
Secondo le statistiche ufficiali della stessa Onu, nel 2023 – anno più recente disponibile – l’organizzazione@ ha speso circa 68,5 miliardi di dollari. Una cifra, per dare una misura, pari a due volte il valore delle risorse stanziate con la legge di bilancio italiana nel 2024, o a una volta e mezzo l’importo pagato da Elon Musk per comprare il social network Twitter. Di questi 68,5 miliardi di dollari, la fetta più grossa (44%) è andata all’assistenza umanitaria, seguita da quella destinata all’assistenza allo sviluppo (30%), mentre le operazioni di pace sono al 12%. Stessa quota per le spese rivolte alla realizzazione dell’agenda globale e all’assistenza specializzata, attività cioè che affrontano sfide globali o regionali senza un collegamento diretto con le altre tre funzioni. I principali beneficiari sono l’Africa, dove l’Onu spende ogni anno circa 24 miliardi (35%), e l’Asia (18 miliardi, 27%), seguiti dalle Americhe (4,7 miliardi, 7%), l’Europa (4,4 miliardi, 6,5%) e l’Oceania (507 milioni, 0,7%), mentre il restante 23% (16 miliardi) va a interventi globali o interregionali.
Per farsi un’idea del lavoro svolto dalle Nazioni Unite in questi 80 anni, Mugnanini ripercorre i premi Nobel per la Pace assegnati ad agenzie o funzionari Onu: un esercizio che aiuta a distinguere meglio il ruolo dell’organizzazione come specchio del mondo (mirror of the world). Nel 1950, il Nobel andò al diplomatico Ralph J. Bunche che, per conto dell’Onu, aveva mediato le prime fasi del conflitto fra Israele e i suoi vicini, arrivando agli armistizi con Egitto, Libano, Giordania e Siria. Il Nobel del 1954 andò invece all’Unhcr, nato quattro anni prima per aiutare i milioni di sfollati della Seconda guerra mondiale. Nel 1961 fu la volta del premio, postumo, a Dag Hammarskjöld, segretario generale Onu dal 1953 al 1961, morto a Ndola, nell’attuale Zambia, mentre conduceva delicati negoziati per risolvere la crisi in Congo, cruciale (e brutale) banco di prova sia della decolonizzazione che del confronto Est-Ovest.
Negli anni Sessanta, epoca di lotte e profondi cambiamenti sociali, il premio andò nel 1965 all’Unicef, agenzia Onu per l’infanzia, e nel 1969 all’Ilo, che promuove i diritti fondamentali nel lavoro. Nel 1981 fu di nuovo l’Unhcr a ricevere il Nobel, stavolta per l’assistenza ai rifugiati delle guerre in Africa e Asia, mentre nel 1988 fu assegnato alle Forze di peacekeeping delle Nazioni Unite per il loro ruolo nel ridurre le tensioni nei luoghi di guerra. Nel 2001, il comitato per il Nobel volle sottolineare la fine della Guerra fredda e rafforzare il ruolo del multilateralismo nel nuovo ordine mondiale assegnando il premio alla stessa Onu e al suo segretario generale, Kofi Annan, mentre nel 2005 fu la volta dell’Aiea e del suo direttore, Mohamed El Baradei. Erano gli anni della guerra preventiva, e non autorizzata dal Consiglio di sicurezza, con cui Usa e Regno Unito colpirono l’Iraq di Saddam Hussein e, sia l’Aiea che il segretario generale Annan, si scontrarono duramente con i governi americano e inglese: «Nel suo ruolo di garante del regime di non proliferazione nucleare», scrive ancora Mugnaini, «la Aiea non aveva concordato con la richiesta statunitense di affermare che l’Iraq avesse ripreso il suo programma nucleare militare, posizione quella dell’Aiea che si rivelò poi essere corretta».
Nel 2007, a ricevere il premio fu il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change – Ipcc) insieme all’ex vicepresidente Usa Al Gore, per lo sforzo di aumentare la conoscenza sul cambiamento climatico e gettare le basi per le future soluzioni. Infine, nel 2020 è stato il Programma alimentare mondiale (Wfp) a ottenere il riconoscimento: l’agenzia è la più grande organizzazione umanitaria mondiale e nel 2024 ha nutrito 124 milioni di persone, di cui 90 milioni con assistenza di emergenza.
Ma questi esempi di incisività, o almeno partecipazione attiva, delle Nazioni unite alla politica internazionale non esauriscono il suo operato: insuccessi come l’incapacità di prevenire il genocidio in Rwanda, nel 1994 (800mila vittime), e quello a Srbrenica, in Bosnia, nel 1995 (8mila vittime), sono fra gli esempi più citati nelle analisi dei fallimenti nell’ambito che costituisce uno dei pilastri dell’organizzazione, cioè la salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale.

Guardiano di questo pilastro è uno degli organi principali delle Nazioni Unite, il Consiglio di sicurezza. La sua attuale composizione – cinque membri permanenti con diritto di veto e dieci membri eletti a rotazione per due anni – è ritenuta anacronistica da molti studiosi e dalla maggioranza degli stati membri dell’Onu, e l’inefficacia dimostrata di recente nel reagire all’invasione russa dell’Ucraina e al massacro compiuto da Israele a Gaza non hanno fatto che evidenziare questo stato di cose.
La prima iniziativa dell’Assemblea generale per avviare una riforma del Consiglio risale al 1992, ma oltre trent’anni di negoziazioni non hanno portato alcun risultato concreto, e le tre principali posizioni in campo continuano a creare uno stallo. La prima, del blocco cosiddetto G4 – Germania, Giappone, Brasile e India – chiede per i quattro Paesi lo stesso status dei cinque membri permanenti, anche se è flessibile circa il potere di veto, ed è favorevole all’assegnazione di due seggi permanenti all’Africa. Il secondo blocco, la coalizione Uniting for consensus (Ufc), guidata dai rivali regionali del G4 (tra cui Argentina, Messico, Italia, Polonia, Pakistan, Corea del Sud e Turchia) chiede l’aumento dei membri eletti da dieci a venti per ottenere un Consiglio egualitario e rappresentativo. Il terzo blocco è l’Unione africana, i cui 54 membri insistono affinché al continente vengano dati due seggi permanenti con diritto di veto e almeno tre seggi non permanenti in più, forti del fatto che la metà delle riunioni del Consiglio e circa il 70% delle sue risoluzioni riguardano questioni africane.
Quanto ai membri permanenti, i cosiddetti P5, la loro strategia è ostacolare il processo di riforma. Tutti vogliono mantenere il proprio seggio permanente e il diritto di veto, ma le loro posizioni sulla riforma del Consiglio sono diverse. La Russia è scettica sull’aggiunta di seggi permanenti e vuole evitare di indebolire il proprio status globale. Nemmeno la Cina vuole nuovi membri permanenti, mostrando particolare ostilità verso le aspirazioni dei rivali regionali nel G4, India e Giappone, ma sostiene, con l’Ufc, l’aggiunta di un massimo di dieci membri eletti. Inoltre, Pechino si oppone all’adozione di un testo che faccia da base per il negoziato, introducendo un ulteriore elemento di impasse.
Francia e Regno Unito sono i più propensi alla riforma, consci del loro ridotto peso internazionale rispetto al 1945 e delle critiche alla sovra rappresentazione dell’Europa nel Consiglio. Promuovono una soluzione provvisoria: una nuova categoria di seggi a più lungo termine che potrebbero poi diventare permanenti, ma senza diritto di veto. Gli Stati Uniti, infine, hanno storicamente sostenuto una modesta espansione sia dei seggi permanenti che di quelli non permanenti, ma senza superare i 21 membri. Diversi studiosi, infatti, avanzano forti dubbi sul fatto che la rappresentatività sia davvero l’obiettivo da perseguire: il Consiglio di sicurezza, sostengono, è stato pensato dai fondatori per essere efficace e rapido, non per essere rappresentativo@.

Gli altri due pilastri su cui si regge l’Onu sono lo sviluppo e i diritti umani e anche questi sono interessati dal processo di riforma. La scorsa primavera si è molto parlato del contenuto di un documento riservato, circolato fra alti funzionari incaricati della riforma e poi trapelato@, in cui si suggeriscono alcuni radicali provvedimenti. Fra questi, la fusione delle responsabilità e capacità operative di Pam, Unicef, Oms e Unhcr in un’unica entità umanitaria; l’unificazione delle agenzie con sede a Roma, cioè Fao, Wfp e Ifad, che si occupano principalmente di sicurezza alimentare; l’accorpamento dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’Aids (Unaids) con l’Oms.
Ma, al di là delle scelte specifiche sulle singole agenzie, il documento fa emergere un generale bisogno di razionalizzazione: fa infatti riferimento a «mandati sovrapposti» – un mandato in ambito Onu è la decisione che conferisce a un organismo l’autorità di svolgere le proprie funzioni, ad esempio la fondazione di un ufficio o la creazione di una commissione d’inchiesta – a un «uso inefficiente delle risorse», alla «frammentazione e duplicazione» e a un eccessivo numero di posizioni dirigenziali.
L’iniziativa UN80@, lanciata dal Segretario generale lo scorso marzo, ha appunto l’obiettivo di elaborare nel dettaglio queste proposte di riforma, che si articoleranno intorno a tre assi principali: il miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia interne, la revisione dei mandati (che sono nel complesso 40mila, quasi 4mila per il solo segretariato) e la realizzazione di cambiamenti strutturali e di un riallineamento dei programmi in tutto il sistema delle Nazioni Unite.
In un articolo sulla rivista Foreign Affairs dell’ottobre 2024@, lo storico Thant Myint-U – nipote del Segretario generale U Thant che subentrò a Hammarskjöld nel 1961 – aggiunge al panorama una nota sulle storture nella selezione del personale Onu: i più capaci, lamenta Thant, ricevono di rado un riconoscimento per le loro competenze e i loro sacrifici. I governi, specialmente le grandi potenze, insistono per piazzare i loro candidati, spesso poco qualificati, nelle posizioni più elevate, creando una distorsione nel cuore del sistema Onu che mina sia il morale che l’efficienza. Un’Onu efficiente, conclude, avrebbe bisogno delle donne e degli uomini più qualificati da tutto il mondo, ma questo è un ambito di riforma che non riceve alcuna attenzione.
Chiara Giovetti
