Iscriviti alla newsletter
Inserisci la tua email e iscriviti alla nostra newsletter
Inserisci la tua email e iscriviti alla nostra newsletter

La presenza dei Missionari della Consolata in Costa d’Avorio inizia nel 1996 e si concretizza con due zone di missione piuttosto diverse.
La prima, a Sud, a San Pedro, dove tutto è cominciato, è a maggioranza cristiana. La seconda, a Nord, nella diocesi di Odienné, dove l’istituto è presente dal 2001, prima nella parrocchia di Dianra, e poi, l’anno successivo, in quella di Marandallah. Quest’area, che confina con il Mali e il Burkina Faso, è a maggioranza musulmana. Qui si aprono sfide specifiche dovute al contesto.
«La missione nel Nord della Costa d’Avorio ha un senso profondo per tre motivi – ci dice padre Stefano Camerlengo, missionario a Dianra village -. La missione come incontro, come relazione, in questa zona si manifesta nell’essere “minoranza”.
Pur essendo missionari, e quindi con il dovere di essere in prima linea là dove non si conosce il Vangelo, ho constatato che la maggior parte dei Paesi nei quali siamo presenti in Africa sono a maggioranza cristiana, o comunque dove i cristiani sono in gran numero. Qui, nel Nord della Costa d’Avorio, invece, ti rendi conto di essere minoranza. Quindi, innanzitutto, sei privo di particolari privilegi.
Inoltre, qui lavoriamo con un piccolo gruppo di persone, che è piuttosto stabile. Qualcuno muore, uno nuovo può arrivare, ma di base la comunità è sempre la stessa, senza la pretesa di avere delle folle». Padre Stefano continua: «Essendo un gruppo stabile, poi, è anche fragile, perché è tutto in mano a poche persone (catechisti e agli animatori), che sono anche i più intraprendenti. Questo fatto, però, genera precarietà».
«Devo aggiungere che, per fortuna, in questo periodo storico, nonostante siamo solo il 3% della popolazione nella diocesi di Odienné, noi cristiani non siamo maltrattati».

Il secondo elemento, che per padre Stefano da un senso profondo alla missione nella sua zona, è la condizione di povertà di mezzi e di servizi: «Qui ci sentiamo “periferia”. È presente una povertà che chiamerei atavica. Nella nostra area ci sono villaggi nella stessa situazione in cui erano trenta o quaranta anni fa. Non è arrivata l’elettricità, tanto meno la strada asfaltata. Durante la stagione delle piogge spostarsi diventa molto complicato. Inoltre, come mezzi di trasporto, le persone possono contare al massimo su un motorino cinese. Poi mancano i servizi, ad esempio quelli sanitari. La nostra area di intervento è grande come la regione Marche, ma c’è un unico ospedale con il reparto odontoiatrico. Per farsi curare i denti, la gente deve fare due giorni di cammino, oppure usare i mezzi pubblici che non arrivano.
Allo stesso tempo però, a livello generale, il Paese sta crescendo, aumenta la ricchezza, ma questa tocca pochi e solo in città. Non nelle nostre zone. In questo senso, ci sentiamo periferia».
Un altro aspetto, molto importante, e legato al primo punto, è quello del «dialogo interreligioso».
Continua padre Stefano: «Un elemento motivante nello stare qui è il fatto di poter intavolare il dialogo interreligioso. Intanto dobbiamo partire dal presupposto che questo interessa solo a noi, e non agli altri, perché è insito nel nostro stile, nel Vangelo. Per realizzarlo dobbiamo creare delle occasioni. Ma per un dialogo a livello di dottrina, a livello teologico, intellettuale, qui non abbiamo le basi, neppure linguistiche. Per noi, si tratta piuttosto di un dialogo nel quotidiano, del vivere insieme. Ci si invita alle feste religiose reciprocamente. Ci sono anche dei momenti convocati dal governo locale. Quando c’è una festa nazionale o un incontro organizzativo, il prefetto, o il sindaco, invita tutti i responsabili religiosi. Tutti partecipiamo e cerchiamo insieme di migliorare il nostro ambiente di vita comune.
Ad esempio, abbiamo fatto alcune riunioni sulle elezioni che si terranno a breve (a ottobre, ndr). Ogni incontro, anche se in ambito civile, inizia e finisce con una preghiera. Quella iniziale chiedono sempre a me di farla, mentre quella finale la predica un imam. Poi il prefetto ci invita a pranzo, e c’è sempre il posto riservato alle autorità religiose».
Anche questo, dunque, è un dialogo fatto di relazioni quotidiane. «Se ci sono dei progetti per il bene comune, cerchiamo ci coinvolgere tutti. Come parrocchia, abbiamo, ad esempio, acquistato un trasformatore per stabilizzare la corrente elettrica, e abbiamo coinvolto tutti».
Esiste inoltre un protocollo di comportamento: «Quando vado a visitare una delle nostre comunità in un villaggio, appena arrivato vado dal capo villaggio, poi dall’imam e, infine, posso riunirmi con i fedeli a pregare».
Padre Stefano porta l’attenzione su un’altra questione: «Nella missione di Maradallah il presidente del nostro consiglio pastorale è poligamo. È l’unico che sa leggere e parlare in francese, quindi è necessario. Qui l’analfabetismo è ancora molto diffuso. I nostri catechisti non sanno leggere, allora imparano tutto a memoria. Talvolta diventa difficile fare passare i messaggi. Ad esempio, non tutti sono in grado di usare i programmi di messaggistica sul telefono. Quelli che di solito ci aiutano non sanno farlo. Quindi, non è facile organizzarsi».
Padre Stefano ha una nuova preoccupazione per la sua zona di missione. Recentemente è stato scoperto un grande giacimento d’oro per la quale è stata data la concessione a una società canadese: «Sono già presenti e stanno costruendo alcuni impianti. Arriveranno strade, elettricità. Il prefetto mi ha chiesto di calmare la gente. Ci sono villaggi che saranno spostati, perché sotto di essi si trova l’oro. Una strada dovrebbe passare attraverso a una foresta che è sacra, secondo le credenze locali. Quindi la gente non vuole e ha bloccato i lavori. Inoltre, quando un abitante di un villaggio riceve l’indennizzo per il suo terreno, non è in grado di gestire una quantità di denaro mai vista prima, e rapidamente viene persa. La compagnia mineraria farà qualche dispensario e qualche scuola, il che è un bene. Però arriveranno anche avventurieri da ogni dove. Insomma, sarà tempo di grandi sconvolgimenti».
E chiude: «Quando lavori in questo contesto vedi proprio la fatica del quotidiano. E questo dà senso alla tua missione. Qui diciamo: Tutto è un problema, d’altra parte si troverà una soluzione, prima o poi». Però è dura.
Marco Bello
