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Sementi nella terra buona

Mozambico cento anni (con i Missionari della Consolata)

Sommario

Mandimba: prima chiesa dei Missionari della Consolata nel Niassa (1926) – padre Calandri e il sig. Regina davanti alla chiesa

Dall’Oceano Indiano all’Atlantico

Il vescovo di Tete sul centenario Imc in Mozambico

Si celebrano 100 anni di presenza della Consolata. I semi che furono piantati hanno dato molti frutti. E hanno fecondato anche l’Angola. Le crisi non sono finite, e le sfide permangono. Ma si affrontano insieme. 

L’Istituto Missioni Consolata è presente in Mozambico dal 1925. È la realizzazione di un sogno apostolico iniziato da un manipolo di missionari e generato da un carisma che aveva appena 24 anni.

Fu a Tete, più precisamente alla missione di Miruro, nella zona più occidentale del Mozambico, al confine con lo Zambia, e a mille chilometri dalla costa sull’Oceano Indiano, che san Giuseppe Allamano inviò i primi missionari della Consolata in questo Paese nell’ottobre 1925, pochi mesi prima della sua morte. Furono anche gli ultimi che inviò personalmente in Africa.

Come Missionari della Consolata abbiamo un ricco patrimonio di esperienza e di servizio in Mozambico. Siamo conosciuti e rispettati e cerchiamo di essere costruttivi e collaborativi nei confronti della Chiesa locale, difendendo i suoi interessi e lavorando insieme per soddisfare i suoi bisogni.

Quali sono i frutti di questo cammino? Li vediamo nella Chiesa cattolica locale, che è cresciuta come un albero con molti rami.

Sono le 42 parrocchie, missioni che i missionari della Consolata hanno fondato in cento anni, che mostrano il vigore delle loro radici e che manifestano la maturità umana e cristiana che hanno ricevuto dai loro fondatori.

Sono i 225 evangelizzatori, padri e fratelli, che dal 1925 a oggi hanno gettato il seme, coltivato l’albero, curato i vari rami e lasciato la loro impronta ovunque siano andati, attraverso la formazione, la promozione e l’inculturazione, generando così migliaia e migliaia di cristiani che oggi illuminano la Chiesa locale. I loro nomi sono incisi a lettere d’oro negli annali delle missioni che hanno fondato, delle scuole e centri di salute che hanno gestito, delle cappelle o dei centri catechistici che hanno costruito e, soprattutto, degli uomini e delle donne che hanno formato e valorizzato.

Treno in Mozambico anni ’30

Anche in Angola

La ragione della presenza dei missionari della Consolata in Mozambico è, e continuerà ad essere, l’evangelizzazione. Per questo la nostra opzione è quella di scegliere sempre di lavorare nelle situazioni maggiormente «ad gentes», lasciando al clero locale e ad altri missionari le missioni parrocchiali già consolidate.

Negli ultimi dieci anni, abbiamo consegnato dieci parrocchie alle diocesi e abbiamo ripreso l’evangelizzazione nelle zone più periferiche del Mozambico, nei distretti di Marávia e di Zumbo, nella diocesi di Tete. Ci siamo spinti anche in Angola, nelle diocesi di Viana, Caxito e Luena. Abbiamo creato quasi dal nulla cinque nuove parrocchie missionarie: Fingoè e Zumbo in Mozambico; Kapalanga, Funda e Luacano in Angola (per l’Imc, le missioni in questo secondo Paese, dipendono amministrativamente dal primo, ndr).

In alcune di queste regioni, in particolare nella diocesi di Tete (Mozambico) e nella diocesi di Luena (Angola), i missionari cattolici erano assenti da più di cinquant’anni, per cui l’evangelizzazione sta ripartendo quasi da zero. È un lavoro pastorale portato avanti senza mezzi, ma con grande vicinanza alla gente e tanta passione.

La celebrazione del centenario della presenza dei Missionari della Consolata in Mozambico e Angola coincide con altri due importanti eventi. Il Giubileo della speranza e il 50° anniversario dell’indipendenza nazionale di entrambi i Paesi (1975-2025). Nel contesto attuale, segnato da forti tensioni sociopolitiche e da una crisi economica e sociale (si veda articolo pagina 43), i Missionari della Consolata, oggi come in passato, devono essere testimoni di speranza e consolazione.

Mozambicani e angolani conoscono la sofferenza, il lutto e l’afflizione, ma non hanno mai permesso che la vendetta o la repressione fossero il criterio per regolare le relazioni umane, né che l’odio e la violenza avessero l’ultima parola. La ricerca di una pace e di una riconciliazione durature – una missione a cui tutti sono chiamati – richiede un lavoro duro, costante e senza compromessi, e necessita di un Paese più equo e inclusivo, verità e giustizia elettorali e opportunità per tutti, soprattutto per i più giovani. È un processo costante, in cui ogni nuova generazione è coinvolta e nessuno può essere escluso a causa delle proprie scelte politiche.

La cultura dell’incontro

Per questo, il percorso deve essere quello di una cultura dell’incontro: riconoscere l’altro, rispettare le differenze, rafforzare i legami, costruire ponti. In questo senso, è fondamentale mantenere viva la memoria come percorso che apre al futuro, che porta alla ricerca di obiettivi comuni, di valori condivisi, di idee che favoriscano il superamento di interessi settoriali, corporativi o di partito, affinché la ricchezza della nazione sia messa al servizio di tutti, soprattutto dei più poveri. Queste sono le basi di un futuro di speranza, le basi della pace e della riconciliazione.

Quello che viviamo è un tempo decisivo di scelte e di conversione. Tutti sono chiamati a partecipare e a dare il meglio di sé. In umiltà, generosità, integrità, altruismo. In nome del bene comune.

Come in passato, i Missionari della Consolata, pur essendo sempre meno numerosi in un territorio immenso e in due Paesi, dall’Atlantico all’Oceano Indiano, devono continuare a dare il loro umile contributo. Per farlo, devono saper osare e fare sempre meglio. I missionari sono l’avanguardia profetica della Chiesa, non hanno paura, non si rilassano. Il missionario innova, aprendo nuovi cammini per l’annuncio del Vangelo. Oggi, il grande rischio che corrono l’istituto e la Chiesa è l’autoreferenzialità: pensare a se stessi, alla propria sopravvivenza economica e istituzionale. Come ci ricordava papa Francesco, dobbiamo continuare a uscire, andare nei luoghi di prima evangelizzazione. Dobbiamo servire la Chiesa locale dove questa ancora non riesce a svolgere la sua missione per mancanza di risorse umane e materiali.

Inoltre, dobbiamo essere servitori della misericordia di Dio e della consolazione. Testimoniare la presenza di Dio anche tra le ferite di Mozambico e Angola. Dobbiamo guardare al futuro se vogliamo avere un avvenire, credere in ciò che siamo stati, in ciò che siamo e in ciò che saremo.

Diamantino Guapo Antunes

Missionari accampati vicino a un villaggio nella zona di Mandimba. Padre Calandri in piedi in mezzo alla gente, padre Amiotti seduto sotto la tenda.

Cronologia: Dall’indipendenza alla guerra civile

Prima del secolo XV. Il territorio dell’attuale Mozambico è abitato da popolazioni bantu provenienti dall’Africa centrale. Sulle coste gli arabi creano diversi sultanati e commerciano attraverso l’Oceano indiano. Diffondono l’islam nella regione.

Secoli XVI-XVII. I portoghesi arrivano sulle coste e vi costruiscono alcune fortezze (Sofala, e Ilha de Moçambique) nel tentativo di controllare le rotte verso l’Asia. Sono interessati a minerali preziosi, avorio e commercio degli schiavi. L’interno del territorio è percorso da avventurieri portoghesi senza controllo da parte del governo coloniale. Penetrano fino ai regni africani più interni per appropriarsi delle loro ricchezze.

Secolo XIX. L’attenzione degli europei si concentra sullo sfruttamento delle colonie africane. È un periodo di dispute tra il Portogallo e le altre potenze coloniali, in particolare la Gran Bretagna. Il primo vuole unire i territori mozambicani con quelli dell’Angola. Ma il progetto fallisce.

1891. Firma del trattato anglo-portoghese di divisione dei territori di quest’area. Per consolidare la sua presenza il Portogallo si fa più presente nell’interno e sottomette i regni africani.

1910. Con la proclamazione della Repubblica in Portogallo, in seguito alla rivoluzione, le leggi sulla colonia si fanno restrittive per le congregazioni religiose. Vengono nazionalizzati i loro beni e sciolte le comunità. Continua l’opera di occupazione dell’interno, che termina intorno al 1920. Aumenta lo sfruttamento e l’esportazione di prodotti come zucchero e sisal (agave), con incremento dello sfruttamento di mano d’opera locale.

1925, 30 ottobre. Arrivo dei primi missionari della Consolata. Prendono in consegna la missione di Miruru al confine con lo Zambia (2 marzo 1926).

1928, 20 maggio. Padre Pietro Calandri fonda la prima missione cattolica nel Niassa, Nossa Senhora Consolata, a Massangulo.

1960. Vari gruppi iniziano a organizzarsi per ribellarsi al governo coloniale. 

1963. I diversi gruppi indipendentisti si uniscono, sotto l’impulso di Eduardo Mondlane, nel Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico, di matrice marxista). Un anno più tardi inizia la guerriglia per l’indipendenza.

Prandelli P. Guerrino saltato su una mina sulla strada vicino a Esperança il 17 ottobre 1972, aveva 29 anni

1974. Un colpo di stato in Portogallo mette fine al governo di Salazar e Caetano.

1975, 25 giugno. Dopo un breve periodo di transizione, viene proclamata l’indipendenza della Repubblica popolare del Mozambico. Il primo presidente è il carismatico capo della ribellione Samora Machel. Il Mozambico appoggia le lotte d’indipendenza in Zimbabwe e Sudafrica.

1977. Nasce il movimento Renamo (Resistenza nazionale del Mozambico), composto da conservatori e dissidenti al regime. È finanziato prima da Rodhesia e poi dal Sudafrica, e sceglie la via della lotta armata. Inizia una sanguinosa guerra civile che contrappone la ribellione Renamo al governo Frelimo.

1978. Il governo del partito unico Frelimo considera la Chiesa un ostacolo alla trasformazione rivoluzionaria della società mozambicana. Le strutture ecclesiastiche sono nazionalizzate e clero e missionari hanno libertà limitate.

1992, 22 marzo. Ventitrè catechisti sono assassinati dai guerriglieri della Renamo al centro catechetico di Guiúa, gestito dai missionari della Consolata. Oggi è in corso la causa di beatificazione per martirio.

1992, 4 ottobre. Joaquim Chissano (governo) e Afonso Dhlakama (Renamo) firmaro a Roma l’accordo generale di pace. Il successo è dovuto anche alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio. Nelle successive elezioni il Frelimo mantiene il potere.

2017. Iniziano attentati di matrice islamista nella provincia di Cabo Delgado (Nord).

2024, ottobre. Elezioni presidenziali: viene dichiarato vincitore il candidato del Frelimo, Daniel Chapo.  Contestazioni e proteste in tutto il Paese, che sono represse, causando numerose vittime.

 Ma.B.

Granada Serna P. Ariel Colombiano, ucciso a Mecanhelas in Mozambico il 15 Febb 1991

O Niassa o niente

L’arrivo e I primi anni della Consolata in Mozambico

Questa è la storia di come un gruppo di missionari contribuirono a portare il Vangelo in una zona interna dell’Africa. Dei legami che si crearono, delle vicende personali. Di fede, coraggio e perseveranza. Non sempre le cose andarono per il meglio. Ma il seme attecchì.

Siamo a inizio 1925. La direzione generale dell’Istituto Missioni Consolata, della quale è ancora superiore Giuseppe Allamano, decide di tentare un’apertura in Mozambico. I missionari sono installati in Kenya (dal 1902), in Etiopia (dal 1916) e in Tanzania (dal 1919). Nello stesso blocco di Paesi, proseguendo verso Sud, c’è proprio il Mozambico e, in particolare la regione chiamata Niassa, il Nord del Paese. Qui non c’è alcuna presenza di missionari cattolici, ma solo di alcuni anglicani.

Monsignor Filippo Perlo, vice superiore (che diventerà superiore generale il 16 febbraio 1926, alla morte di Allamano), contatta il vescovo, monsignor Rafael de Assunção, per offrire la disponibilità all’invio di personale nel Niassa. L’intero Mozambico, sotto il governo coloniale portoghese, è una prelazia (entità pastorale che precede la diocesi).

Il vescovo accetta, ma non vuole italiani nel Niassa, bensì li invia nella regione di Zumbo (attuale provincia di Tete), all’estremo Ovest, al confine con lo Zambia. Qui indica la missione di san Pietro Claver a Miruru.

Purtroppo, il momento storico non è propizio. L’attività missionaria nella colonia è in crisi, gli ordini religiosi sono stati espulsi nel 1911. Inoltre, c’è nazionalismo, anticlericalismo, e rivalità tra il clero secolare e quello religioso.

Quel fatidico 30 ottobre

Il 29 agosto 1925 sono designati i primi otto missionari che dovranno tentare l’avventura. Cinque sono già in Kenya (Vittorio Sandrone, Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto), e altri tre giungeranno dall’Italia (Lorenzo Sperta, Paolo Borello e il seminarista Secondo Ghiglia). Questi, partiti da Torino, ricevono il crocifisso dalle mani di Giuseppe Allamano. E sono gli ultimi ad avere tale privilegio.

Il gruppo si forma a Mombasa, dove i tre dall’Italia arrivano in nave attraversando il canale di Suez: la gioia d’incontrarsi è grande. Poi si procede via mare fino al porto di Beira, nella zona centrale del Mozambico, dove sbarca il 30 ottobre 1925. La distanza da percorrere via terra è enorme: oltre mille chilometri.

Padre Sperta si ammala e, accompagnato da padre Calandri, torna in Kenya. Gli altri sei procedono in convoglio fino a Chupanga dove passano il primo Natale in Mozambico. Il 28 dicembre partono con un battello per risalire il grande fiume Zambesi, fino alla città di Tete.

Il viaggio è complesso. È stagione secca, il che rende la navigazione difficoltosa. Arrivano a Tete il 10 di gennaio, poi, in cinque, continuano con un vecchio camion verso Miruru. Intanto, padre Peyrani si ferma a lavorare nella città.

La pista è stretta e sconnessa e comincia la stagione delle piogge. Il camion si blocca su una salita.

I cinque non sono molto distanti dalla missione di Boroma e la raggiungono a piedi. Lì si fermano circa un mese, anche per cercare portatori per proseguire con i bagagli. Da Boroma, infatti, si può procedere solo camminando, però mancano circa 400 chilometri alla destinazione. Partiti il 4 febbraio, si scontrano con pioggia, zanzare, fitta vegetazione, febbre, dissenteria. Giungono a Miruru il 2 marzo 1926.

Trovano la missione (fondata dai Gesuiti portoghesi nel 1881, espulsi nel 1910, passata ai Verbiti tedeschi che vengono cacciati nel 1915)  in uno stato di semi abbandono. Di 15 scuole-cappelle ne restano solo due. Intanto, padre Peyrani a Tete partecipa alla pastorale nella parrocchia di san Tiago Maior, lavorando nella formazione religiosa e scolastica della popolazione.

La cappella di Mandimba, con visita di autorità portoghesi

Obiettivo Niassa

Padre Calandri, che era andato in Kenya con padre Sperta, torna in Mozambico con padre Giuseppe Amiotti. Hanno la consegna di andare nel Niassa, ma il vescovo Rafael non dà loro il permesso, quindi il viaggio viene fatto con grande discrezione. Partono in convoglio il 22 giugno da Beira e vanno a Blantyre (Niassaland, attuale Malawi). Da lì in auto rientrano in Mozambico a Mandimba, città di frontiera nel Sud Ovest del Niassa. È il 4 luglio, e sono accolti dalle autorità locali portoghesi. Il giorno successivo celebrano la prima messa cattolica nella regione. Intanto, padre Chiomio, di stanza a Miruru, li raggiunge l’8 luglio. Ha coperto l’intera distanza a piedi.

I tre padri esplorano la regione del Niassa, piuttosto selvaggia, dove ci sono solo alcune missioni anglicane della University mission to central Africa, la più importante delle quali fondata nel 1882.

Niassa: P Calandri.

Padre Chiomio si separa dal gruppo, visita altre aree, poi raggiunse la costa per tornare in Kenya.

L’area è amministrata dalla «Compagnia del Niassa» una compagnia commerciale portoghese, presente ancora prima della colonia, mentre l’occupazione militare portoghese era avvenuta solo nel 1912.

Calandri e Amiotti montano un rudimentale campo nei pressi di Mandimba, e costruiscono una cappella in bambù: la prima chiesa cattolica nel Niassa (si veda la foto di copertina del dossier).

Il vescovo, però, viene a sapere che i missionari stanno operando senza il suo permesso, e ricorda loro di non averli autorizzati a entrare in quel territorio, imponendo loro di lasciarlo. Ma i nostri non demordono. Allora il vescovo toglie loro la possibilità di esercitare il ministero pastorale.

I due padri studiano la lingua locale e accolgono un gruppo di bambini meticci abbandonati. La decisione dell’istituto di entrare in Niassa senza permesso del vescovo crea difficoltà e ritarda la missione. Ha, inoltre, l’effetto di creare sfiducia del prelato nei confronti dell’Imc, e di aumentare l’opposizione di alcuni settori politici coloniali all’arrivo di missionari non portoghesi.

Nelle due realtà, missione di Miruru e accampamento di Mandimba, distanti circa 900 km, quasi senza strade, i missionari vogliono proseguire con il lavoro di evangelizzazione.

Il 18 settembre 1927 arrivano i primi rinforzi: padre Alfredo Ponti e un gruppo di missionarie della Consolata.

Via libera, dall’alto

Finalmente, nell’aprile 1928, dopo diversi contatti tra il vescovo e i superiori dell’istituto, si chiarisce la situazione, e monsignor de Assunção autorizza la fondazione di una missione nella zona di Mandimba. Padre Calandri si sposta più a Nord, a

Massangulo dove il 20 maggio fonda la prima missione cattolica del Niassa: Nostra Signora Consolata. È la regione del popolo Ayao.

Il territorio è selvaggio, ricoperto di foresta e abitato da leoni. Il missionario vive in una tenda e deve proteggere quattordici bambini che accoglie.

Il 31 dicembre 1928 arrivano fratel Guseppe Benedetto da Miruru, e padre Angelo Lunati dall’Italia con un gruppo di missionarie della Consolata.

Padre Amiotti ha ricevuto il gruppo a Porto Amélia (l’attuale Pemba) e lo ha condotto fino al Niassa.

Il contesto si rivela subito ostile all’evangelizzazione. La zona è in prevalenza musulmana, e i responsabili islamici temono di vedersi sottrarre fedeli, per cui minacciano chiunque si avvicini alla neonata parrocchia. I primi battezzati tra gli Ayao sono, infatti, alcuni orfani.

Nubi su Torino

Intanto l’Imc attraversa un periodo turbolento. Nel settembre del 1929, a Torino, il superiore generale, monsignor Filippo Perlo, pioniere della presenza in Kenya, deve lasciare il posto a un visitatore apostolico.

I nuovi superiori vorrebbero chiudere la presenza in Mozambico, ma padre Calandri si oppone fermamente. Riesce a negoziare la chiusura di Miruru, ma il mantenimento di Massangulo, ponte per l’evangelizzazione del Niassa. L’istituto lascia la provincia di Tete nell’ottobre 1930, e vi ritornerà solo nel 2013.

Viste le difficoltà nell’evangelizzazione, lo strumento scelto è quello dell’educazione. Vengono aperte scuole con collegio, per accogliere bambini anche da zone lontane.

Vi lavoravano i padri Lunati, Calandri, Amiotti e fratel Benedetto. Amiotti rientra in Italia nel maggio 1932. Padre Calandri è instancabile, ma anche tutti gli altri fanno miracoli.

Nel giugno 1933, a Torino si installa una nuova direzione generale. Il superiore è padre Gaudenzio Barlassina, il pioniere dell’Etiopia (cfr MC giugno 2023), e due consiglieri sono ex del Mozambico. Si dove decidere cosa fare della missione nel Niassa. Ma su questo, occorre interagire con il vescovo.

Calandri vuole spingersi a Est dai Macúa e a Nord dagli Anyanja. Queste sono popolazioni non islamizzate, e dunque più aperte ad accogliere l’evangelizzazione.

Il vescovo, monsignor de Assunção, continua a subire pressioni da settori nazionalisti della società coloniale portoghese e tarda a dare il permesso per nuove missioni.

Calandri allora, scrive direttamente a Propaganda fide, a Roma, spingendo per un’estensione dell’evangelizzazione del Niassa, e portando come argomentazioni la difficoltà del contesto di Massangulo e le ritrosie del vescovo. Anche i superiori a Torino, intanto, continuano i contatti con la Santa Sede, finché Barlassina ottiene rassicurazioni dal Segretario di stato vaticano. Poco tempo dopo, il vescovo viene trasferito a Capo Verde e sostituito da monsignor Teodosio Clemente de Gouveia.

Inaugurazione del ponte sul fiume Lugenda presso Mandimba nel Niassa

Il lavoro missionario

In questi anni il lavoro missionario è caratterizzato da un’intensa evangelizzazione. Il metodo consiste nella vista dei villaggi, la supervisione dei catechisti, la formazione dei catecumeni, l’assistenza ai sacramenti dei battezzati. Si dà priorità alla catechesi degli adulti.

Monsignor Diamantino Antunes, studioso della presenza Imc nel Paese, scriverà: «I primi missionari furono instancabili nella loro dedizione apostolica: sopportavano con tenacia le situazioni avverse, appresero le lingue (macúa, ciyao, cinyanja, xitshwa e cindau) stabilendo così un contatto diretto e continuo con la popolazione. Senza grandi metodologie pastorali, formarono una valida generazione di cristiani». E inoltre: «Nei diari e nelle relazioni inviate ai superiori è visibile l’esistenza di un forte sentimento di comunione tra le comunità cristiane, disperse nel territorio, e la missione».

Anno di grandi decisioni

Fatta la scelta di restare in Mozambico e, quindi, nel Niassa, si tratta di espandersi. La direzione generale decide di inviare il consigliere padre Vittorio Sandrone, con esperienza di Mozambico, nel Paese, per rendersi conto e pianificare le mosse da fare. Nell’agosto 1936 Sandrone prende possesso della missione di Massangulo. Allo stesso tempo, padre Calandri è richiamato in Italia, dove presenta ai superiori la situazione socio economica e religiosa del Niassa.

Sandrone cerca il consenso del nuovo vescovo per aprire missioni verso Mepanhira e il popolo Macúa.

È solo questione di tempo. A inizio 1938, padre Sandrone riceve la tanto agognata lettera da monsignor Gouveia, che lo incoraggia a perseguire l’attività nella regione. Ritorna alla direzione generale a Roma, e lascia padre Gabriele Quaglia come responsabile della futura espansione. A luglio viene aperta Mepanhira, da dove si assiste una vasta area, che comprende le attuali Mecanhelas e Cuamba. Il 7 di agosto il vescovo visita la missione di Massangulo e presenta a padre Quaglia le sue idee sull’evangelizzazione del Niassa. Adesso occorrono missionari.

Mandimba, 2 ottobre 1927, padre Calandri insegna in una prima scuola all’aperto

L’accordo con il Portogallo

Un passaggio storico importate avviene il 7 maggio 1940: il Portogallo, potenza coloniale, e la Santa sede, firmano un accordo per definire le relazioni tra Mozambico e Vaticano, in particolare l’attività missionaria.

Il territorio missionario, fino a questo momento unica prelazia del Mozambico, viene diviso in tre diocesi: Lourenço Marques (l’attuale Maputo), Beira e Nampula. Questo accordo apre anche il cammino per la presenza Imc in Portogallo, che sarà utile per formare i missionari da mandare in Mozambico, ma anche per trovare nuove vocazioni tra i portoghesi. Dopo i primi contatti nel 1940 con il Vaticano su questa possibilità, il 10 giugno 1943, il primo missionario della Consolata in Portogallo è padre Giovanni De Marchi, che si installa a Fatima, dove apre il seminario dell’istituto.

Nel 1940 la direzione generale nomina padre Domenico Ferrero superiore delegato per il Mozambico. Ferrero è arrivato alla missione di Massangulo l’11 dicembre del 1939 per sostituire padre Quaglia, superiore ad interim, dopo la partenza di Sandrone.

Nel giugno 1941 Ferrero spedisce alla segreteria di Stato Vaticano una relazione sulla situazione missionaria in Niassa: «Nella comunicazione – scriverà monsignor Diamantino – il padre mette in rilievo la dedizione dei missionari e dei catechisti, quanto la corrispondenza pronta e sincera della popolazione in determinate zone all’annuncio del Vangelo. In particolar modo dove l’influenza musulmana è meno forte».

Sono gli anni della Seconda guerra mondiale e le comunicazioni tra Mozambico e Torino si fanno difficili. Padre Sandrone, vice superiore generale, tiene i contatti epistolari con padre Ferrero.

Tra il 1938 e il 1939 sono arrivati nove nuovi missionari e tre suore, sbarcati a porto Amelia il 21 novembre 1939, a guerra già iniziata. Hanno poi percorso 800 km in camionetta per giungere a Massangulo. Tutti i missionari e le missionarie della Consolata non sono comunque sufficienti per le missioni che si vogliono aprire.

Tra il 1940 e 45 è impossibile mandare nuovo personale e quelli in Mozambico rimangono isolati.

Verso Sud

Nel giugno 1945 il cardinale Teodosio Clemente de Gouveia, in visita a Roma, si incontra con padre Gaudenzio Barlassina. È in quell’occasione che invita i missionari della Consolata a lavorare nella sua arcidiocesi di Lourenço Marques (Maputo). Una regione molto grande che unisce i distretti di Lourenço Marquez, Gaza e Inhambane. Il cardinale dice che non ha personale missionario sufficiente, e che «la penetrazione protestante è molto forte […] mentre la presenza cattolica è ridotta ad alcune scuole cappelle, molte delle quali in decadenza».

Padre Barlassina accetta confermando che l’istituto può assumersi la responsabilità dell’evangelizzazione nella parte Nord del distretto di Inhambane.

Subito undici missionari sono designati per il Mozambico, cinque dei quali per il Sud.

La direzione generale invia padre Gabriele Quaglia a Sud, che porta anche padre Giovanni Tolosano. I due vanno a Lourenço Marques a incontrare il vescovo, che nomina Quaglia responsabile dell’arcipretato di Vilankulo.

Per barca e poi in camionetta vanno verso Inhambane e si incontrano, il 2 di agosto, a Massinga con gli altri due padri appena giunti dal Portogallo.

Padre Quaglia scrive poi una lunga lettera al superiore generale, nella quale descrive il territorio e la popolazione. La realtà religiosa, culturale e socio economica è molto diversa da quella del Niassa, ponendo sfide differenti. L’evangelizzazione è legata alle scuole e a chi le frequenta. I cattolici, pochi, sono giovani, ma mancano le famiglie a supporto. Per questo la priorità pastorale deve essere la formazione di catechisti e l’apertura di cappelle, compito che si presenta difficile.

È così che, nel luglio 1946, questo gruppo di missionari fonda le missioni di Massinga e Nova Mambone. Nel 1947, un altro gruppo di missionari apre la missione di Mapinhane, che assiste la popolazione fino a Vilankulo, e nel 1948 Maimelane, fino ad arrivare alla periferia della capitale con la missione di Liqueleva.

Un nuovo territorio

Territorio arido, per mancanza di piogge e terra arenaria, è abitato da una diversità di etnie e composto da tre zone climatiche differenti: la costa, le colline dell’interno, la piana del rio Save.

La zona servita dalla Consolata si trova tra i due grandi poli missionari di Beira e Inhambane, gestiti dai Francescani. «Le enormi distanze – scriverà monsignor Diamantino -, le difficoltà di trasporto, il clima, la scarsità di personale missionario aveva impedito una efficace azione evangelizzatrice. Le visite dei padri alle missioni di frontiera erano rare e l’apostolato era fatto dai pochi catechisti delle scuole cappelle disperse sul territorio».

I protestanti sono presenti e ben organizzati. I cattolici sono pochi. La maggior parte della popolazione pratica religioni tradizionali.

I primi frutti della Consolata in quella zona sono lo sviluppo della missione di Mapinhane, il battesimo di alcuni catecumeni, l’ingresso di tre seminaristi di Massinga e l’apertura di scuole. I missionari studiano la lingua locale e preparano il catechismo portoghese-xitshwa.

Tuttavia l’apostolato nel sud è molto difficile. La popolazione adulta mostra indifferenza e quasi ostilità. Le visite nelle case sono difficili per la diffidenza. I cattolici vivono dispersi, lontano dalle missioni. La frequenza dei sacramenti è bassa. Gli stessi professori-catechisti talvolta mostrano disinteresse a partecipare agli incontri di formazione. L’opera di evangelizzazione si realizza quasi esclusivamente a scuola, ma ci sono pochi alunni e professori scarsi. Sono frequenti i cicloni che causano l’abbandono dei villaggi, la gente migra in città, ma anche in Sudafrica per lavorare nelle miniere. Le scuole restano quasi vuote. Nel marzo 1948 un ciclone nel Nord di Inhambane distrugge molte strutture delle missioni.

Scuola creata e gestita dai Missionari della Consolata nel Niassa

Cambio di generazione

Segue un periodo di grande diffusione dell’evangelizzazione con la nascita di nuove diocesi e di molte missioni. Si sviluppano le infrastrutture con chiese, scuole, collegi, ospedali, maternità e seminari.

Nel 1965 è ordinato il primo missionario della Consolata mozambicano, padre Amadio Dide.

Il 12 agosto del 1967 muore a 74 anni padre Pietro Calandri, pioniere dell’evangelizzazione del Niassa, mentre il 26 ottobre del 1973 è la volta di padre Domenico Ferrari, altra figura emblematica dell’Imc in Mozambico. Padre Gabriele Quaglia si è spento nel novembre 1956.

Periodo di guerre

Irrompe la guerra di liberazione, iniziata nel 1964, che porta all’indipendenza del Paese il 25 giugno 1975. È un periodo difficile, alcuni missionari sono accusati di connivenza con la ribellione ed espulsi.

Anche il governo di stampo marxista-leninista del Frelimo considera la Chiesa un ostacolo e vuole ridurla alla gestione del culto e controllare i suoi membri. Molte scuole, ospedali e altre opere diocesane sono confiscate e nazionalizzate. Alcuni missionari sono arrestati, espulsi, talvolta uccisi (come i padri Guerino Prandelli nel 1972 e Ariel Granada nel 1992).

Il Paese vive una cruenta guerra civile (1977-1992) che colpisce tutto il paese, causando insicurezza, sofferenza e distruzione. Al Frelimo al governo, si oppongono i guerriglieri della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana).

Anche la vita parrocchiale viene ridotta al minimo. Il nuovo apostolato è la presenza, la condivisione nella sofferenza, il martirio e la riconciliazione. La Chiesa emerge come forza in grado di dare speranza al cammino per la pace. La Conferenza episcopale chiede ufficialmente pace e riconciliazione alle parti in lotta. Il papa Giovanni Paolo II visita il paese nel 1988.

Il 4 ottobre 1992 viene firmata la pace a Roma. Un ruolo importante nella mediazione lo gioca la comunità di Sant’Egidio. Il Paese è da ricostruire, come infrastrutture e come popolazione. 

Marco Bello

Trasporto a mano attraverso il ponte del fiume Lugenda nel Niassa

Formare le coscienze

I Missionari della Consolata in Mozambico oggi

Dopo cento anni, gran parte del lavoro missionario è stato fatto. La presenza Imc si è ridotta, ma ha ancora un ruolo fondamentale. In un Paese di grandi fragilità, occorre «costruire» le persone.

Durante questi cento anni, il lavoro dell’Imc in Mozambico è stato importante. La Chiesa locale si è costituita tramite il lavoro dei missionari. Il missionario è colui che va, apre la strada e poi crea certe strutture ecclesiali. Una volta che c’è la Chiesa, si ritira e lascia al clero locale la responsabilità di continuare il lavoro, per andare in qualche altro posto. Noi missionari della Consolata abbiamo fatto questo, specialmente in Niassa e Inhamabane, due regioni che abbiamo evangelizzato da zero.

La nostra presenza ha creato la Chiesa locale. Oggi nel Niassa c’è un numero sufficiente di sacerdoti e abbiamo lasciato ai preti diocesani molte missioni.

In Niassa siamo presenti ancora in tre luoghi: Lichinga, il capoluogo, Massangulo, in mezzo ai musulmani, e a Maúa, missione di promozione umana ed evangelizzazione.

A Tete siamo presenti a Fingoé (non lontano dalla prima missione di Miruru del 1925), nella parrocchia di Tete (vedi MC maggio 2025) e a Ucanha.

A Inhamabane siamo rimasti con due presenze, abbiamo lasciato il centro catechetico di Guiúa (luogo del massacro dei catechisti nel 1992). Siamo a Vilankulo e a Nova Mambone, impegnati nella promozione umana, continuando l’attività di padre Marchiol nelle saline, e dando lavoro a un centinaio di famiglie.

Nel Sud siamo a Maputo in periferia, dove c’è la parrocchia di Liberdade, mentre in città gestiamo la parrocchia vicino alla casa provinciale e poi il seminario a Matola. Qui una ventina di ragazzi studiano (propedeutico e filosofia) per diventare missionari della Consolata.

Pensiamo, infatti, che sia molto importante che nella Chiesa locale ci sia anche una dimensione missionaria. Ovvero che la Chiesa non deve solo pensare a se stessa, ma che qualsiasi Chiesa «missionata» deve a sua volta diventare missionaria.

Oggi, noi missionari della Consolata nel Paese siamo in tutto 24, mentre qualche tempo fa erano un centinaio. Veniamo da varie parti del mondo, tra cui Portogallo, Italia, Brasile, Colombia e poi Kenya, Uganda e Tanzania, oltre a Mozambico.

Molti mozambicani sono in altri Paesi, missionari in Corea del Sud, Colombia, Brasile, Kenya, Italia e Portogallo.

Abbiamo tre vescovi che guidano la Chiesa locale. 

L’arcivescovo di Nampula, Inácio Saure che è anche l’attuale presidente della Conferenza episcopale; il vescovo ausiliare di Maputo, Osório

Citora Afonso, anche lui mozambicano; e il vescovo di Tete, Diamantino Guapo Antunes che è portoghese.

La missione oggi

Quest’anno ricorrono i 50 anni dall’indipendenza, conquistata dal partito Frelimo che è diventato il padrone del Mozambico. La situazione sociale non è migliorata, anzi, il Paese è attualmente nel bisogno, nonostante abbia molte risorse, sia come materie prime che come potenzialità naturalistiche. C’è una grande contraddizione, perché esiste un piccolo gruppo di straricchi, e il resto della popolazione che vive in una povertà vergognosa. Cinquant’anni di questo partito non sono riusciti a realizzare una giustizia sociale, a riequilibrare il potere economico e le possibilità delle persone.

La povertà non è diffusa solo nei villaggi, dove mancano i servizi essenziali, ma anche nelle periferie delle città, dove tanti giovani cercano di sopravvivere facendo qualsiasi lavoro, talvolta illegale.

è Un Paese sotto il domino dell’ingiustizia e della corruzione, con un popolo giovane senza futuro, perché chi finisce gli studi non ha possibilità di svolgere lavori se non quelli governativi. Le fabbriche sono tutte concentrate nella capitale. A Tete ci sono miniere del carbone che occupano molte persone.

La Chiesa ha ancora un ruolo di supplenza dello Stato, ad esempio per quello che concerne l’educazione di qualità. Infatti le scuole pubbliche hanno un livello molto basso. Quelle private sono buone ma costose. Ha, inoltre, un ruolo è di promozione umana, promozione della donna, educazione delle persone, formazione al lavoro; dimensioni che aiutano le persone ad avere un presente e un futuro.

Contadini al lavoro nelle campagna del Niassa

La bellezza del bene

La Chiesa ha un ruolo prioritario nella formazione delle persone e delle coscienze. Questo è molto importante in un Paese corroso dalla corruzione, dove tutto è denaro, tutto si compra, con una società che si sta sgretolando. È stato creato un colonialismo di partito, un popolo che ha paura, che è senza sogni.

Promuovere la bellezza del bene, della bontà, della fraternità, della giustizia sociale è parte della nostra missione, a tutti i costi.

La nostra catechesi, le nostre omelie la domenica, i nostri incontri di formazione sono importanti anche per questo.

I missionari devono essere consapevoli di questo ruolo. Siamo stranieri e, in quanto tali, non possiamo parlare molto. Dobbiamo essere prudenti in quello che diciamo perché altrimenti ci mandano a casa. Ma dobbiamo aiutare il clero locale e i catechisti ad avere coscienza del proprio ruolo profetico. Incoraggiare i pastori e gli animatori locali a guardare con gli occhi del Vangelo, al Regno di Dio. 

Dimensione missionaria

In Mozambico molti sono chiamati al sacerdozio e alla vita consacrata. I seminari sono pieni e talvolta manca il posto. È stato fatto un secondo seminario filosofico, a Nampula, in aggiunta a quello di Matola. Ogni anno vengono ordinati due o tre sacerdoti per ogni diocesi. Anche le congregazioni femminili sono numerose, alcune storiche, altre nuove che arrivano da fuori, in particolare dal Brasile. Anche l’Imc ha, ogni anno, dai tre ai cinque ragazzi che vanno in noviziato,  in Tanzania o in Kenya.

Il nostro compito è risvegliare anche nel clero locale la dimensione missionaria: che il sacerdote diocesano non pensi solo alla sua diocesi, ma guardi lontano, anche gli altri. Si tratta di una Chiesa giovane segnata da molte precarietà e necessità. Ad esempio Tete è una diocesi grande quanto tutto il Nord Italia, ma conta solo venti sacerdoti che non arrivano dappertutto.

L’importante è che, nella Chiesa mozambicana in crescita, aumenti questo impegno dell’ad gentes, e i nostri seminaristi missionari sono quelli che danno questa tonalità.

Sandro Faedi

Missionaria della Consolata in visita a una famiglia

Instabilità contagiosa

Il grande Paese sta vivendo molteplici crisi interne

Le recenti elezioni sono state contestate. Il partito al potere dall’indipendenza non vuole lasciare. E le proteste popolari hanno causato vittime. Intanto, al Nord, continua la guerra contro i gruppi armati. Con un alleato scomodo.

Come i tifoni che, periodicamente, colpiscono le coste, così la rivolta si è abbattuta sulla politica mozambicana. Una ventata che ha spazzato per mesi il Paese, portando instabilità, tensioni, morte. Al momento, è tornata la calma, ma la brace del malcontento continua a covare sotto la cenere e il fuoco potrebbe riaccendersi in qualsiasi momento.

Tutto è iniziato in autunno: il 9 ottobre 2024 si sono tenute le elezioni presidenziali. Il candidato del partito al governo (il Frelimo), Daniel Chapo, è stato dichiarato vincitore con il 65,2% dei voti. Tuttavia, l’opposizione, guidata da Venancio Mondlane, ha contestato i risultati, denunciando irregolarità nel processo elettorale. Queste contestazioni hanno portato a diffuse proteste nel Paese, che sono state represse violentemente dalle forze di sicurezza, causando numerose vittime.

Nonostante le tensioni, il 23 dicembre, il Consiglio costituzionale ha confermato la vittoria di Chapo e il suo insediamento è avvenuto il 15 gennaio. Le proteste post elettorali hanno avuto gravi conseguenze, con circa 300 morti nei tre mesi successivi alle elezioni. Fino a qui la cronaca, ma i fatti sono molto più complessi. A partire proprio dall’uomo nuovo, cioè Venancio Mondlane. Ex membro della Renamo, lo storico partito di opposizione mozambicana, Mondlane si è inizialmente candidato con una coalizione di piccoli partiti, chiamata Cad, la quale sarebbe stata poi esclusa, per cavilli formali, dalle elezioni legislative, lasciando, tuttavia, la candidatura presidenziale di Mondlane in piedi. «È stato a quel punto – spiega  Luca Bussotti, docente all’Università Tecnica del Mozambico – che Mondlane, ritrovatosi senza partito, si è associato a Podemos, ma senza mai farne parte. Oggi, le due strade si sono divise. Podemos è stato il primo partito a riconoscere la vittoria del Frelimo e di Chapo, prima e più della Renamo e dell’Mdm (Movimento democratico del Mozambico), mentre Mondlane ha continuato per la sua strada di opposizione a un esecutivo che ritiene illegittimo».

Popolo al potere

Le manifestazioni di oggi non sono però iniziate con la crisi post elettorale. Il movimento che si è formato, e che ha poi dato origine all’onda lunga capeggiata da Venancio Mondlane, «Povo no Poder», ha avuto inizio dopo la morte del rapper Azagaia, nel marzo 2023.

«Con la morte di Azagaia – continua Bussotti -, i suoi seguaci hanno perso quel timore che ha caratterizzato da sempre il rapporto fra cittadini e autorità in Mozambico, e sono usciti allo scoperto. Le elezioni comunali dell’ottobre del 2023 sono state una prova generale di quelle politiche di un anno dopo. Anche in quel caso, i partiti di opposizione, soprattutto Renamo, avevano conquistato molte amministrazioni, fra cui Maputo.

Tuttavia, i consueti brogli elettorali hanno consegnato quasi tutti i comuni al Frelimo e ai suoi candidati, ignorando la volontà popolare».

Una situazione che si è andata sommando a forti tensioni etniche che si sono accumulate negli anni del governo di Felipe Nyusi. «Sotto Nyusi – continua Bussotti – si è accentuata l’esclusione sistematica di fasce maggioritarie della popolazione, anche etnicizzando (a favore della minoranza Makonde) i privilegi economici e le opportunità di formazione e lavoro, restringendo sempre di più la sfera pubblica, con uno Stato al culmine della sua inefficienza».

Il Frelimo dall’indipendenza

Questi fenomeni hanno creato una miscela che ha fatto implodere il Paese, ma il Frelimo ha mantenuta salda la presa sul potere. Anche se è ormai difficile dire quale sia il seguito della formazione che governa il Mozambico dal giorno dell’indipendenza (1975). «Al di là del risultato delle ultime elezioni, evidentemente fraudolento, come la stessa Unione europea e il Consiglio costituzionale mozambicano hanno scritto nei rispettivi report – continua Bussotti -, quel che vediamo quotidianamente sono manifestazioni organizzate da Venancio Mondlane, che riscuotono sempre un enorme seguito, come non se ne vedeva dai tempi di Samora Machel o di Afonso Dhlakama, tanto per fare un paragone. È un governo completamente delegittimato, quello, appunto, del Frelimo, guidato da Daniel Chapo. Ciò che, per il momento (a partire dallo scrutinio dei voti) ha salvato il Frelimo è stato, da un lato, il controllo totale delle istituzioni di giustizia, a cominciare da quelle elettorali, e la fedeltà in primo luogo della polizia e, in parte, dell’esercito. Se uno di questi due elementi fosse venuto meno nel momento del conteggio dei voti, adesso staremmo a raccontare una storia diversa».

Il 23 marzo 2025, il presidente Chapo e Mondlane si sono incontrati per discutere su come riportare la stabilità nel Paese. Sebbene i dettagli specifici dei loro colloqui non siano stati resi pubblici, questo incontro è stato interpretato come un gesto distensivo volto a favorire il dialogo e la riconcilia- zione nazionale. «Si tratta sicuramente di un passo positivo per abbassare i toni, per cercare di contenere la crisi – osserva Marco Di Liddo, direttore di CeSi (Centro studi internazionali) -. Anche perché il Mozambico ha a che fare con una guerriglia di tipo islamista nel Nord e, quindi, non può permettersi che altre faglie di instabilità diventino più marcate. Però, c’è ancora distanza tra le parti e ci vorrà tempo affinché si arrivi a un contenuto politico e un piano di pace degno di questo nome, cioè applicabile».

Accampamento delle Missionarie della Consolata durante i loro spostamenti.

Jihadisti nel Nord

In Mozambico si trascina un’altra crisi, quella in corso nella Provincia settentrionale di Cabo Delgado dove, dal 2017, è in atto un conflitto tra le forze armate, sostenute da reparti dell’esercito ruandese, e i miliziani islamisti legati allo Stato islamico.

Cabo Delgado è una Provincia da sempre emarginata. La popolazione locale gode poco o nulla dell’enorme ricchezza di materie prime del suo territorio. Anche politicamente, la provincia non è coinvolta nelle decisioni che la riguardano. Ciò ha portato a una radicalizzazione dei gruppi islamisti che hanno sfruttato il malcontento locale per reclutare combattenti e promuovere la loro agenda. Il conflitto ha causato una grave crisi umanitaria, con centinaia di migliaia di sfollati e un impatto devastante sulle infrastrutture e sull’economia locale.

«Cabo Delgado – spiega Bussotti – è un’altra situazione complessa, niente affatto conclusa, e non legata esclusivamente al radicalismo islamico, ma che ha origine in conflitti etnici mai risolti, quali quello fra i Makonde (minoritari ma al governo), da un lato, e gli Amakhuwa (l’etnia più numerosa in Mozambico, ma quella più emarginata dai giochi che contano) e i Kimwani, questi ultimi musulmani».

Concorda Marco Di Liddo: «L’elemento religioso e il problema etnico sono due lati della stessa medaglia. È fuorviante pensare che l’insorgenza nel Nord del Mozambico sia solo un movimento islamista, essa affonda invece le sue radici in un malcontento profondo delle popolazioni locali che si sentono tradite dal Frelimo, perché le autorità hanno cacciato le famiglie dalle loro terre ancestrali per lo sfruttamento delle miniere, i pescatori hanno visto le loro attività ridotte a causa dell’industria estrattiva. Inoltre, la provincia ha infrastrutture (strade, ponti, uffici pubblici) insufficienti. Tutto ciò, messo insieme, crea una bomba a orologeria perfetta per quel tipo di narrativa politica, per quel proselitismo violento che è il fondamentalismo islamico».

Ingerenza ruandese

Le truppe ruandesi sono sempre più numerose, e la tendenza è che Paul Kagame, il presidente del Rwanda, mandi sempre più effettivi di agenzie private di sicurezza appartenenti a società controllate dal suo partito, piuttosto che militari dell’esercito ruandese. Il caso più emblematico è quello dell’Isco security (controllata della Crystal Venture), che ha firmato un contratto di esclusività con la Total per proteggere l’investimento sul gas ad Afungi. Un contratto che ammonta a venti miliardi di dollari.

L’alleanza tra Kigali e Maputo ha anche un forte impatto sui rapporti tra il Mozambico e il Rwanda. «Il Rwanda di Kagame sta avendo un forte ruolo nella crisi nell’Est del Congo – sottolinea Bussotti -. Ciò ha irritato la comunità degli Stati dell’Africa australe (Sadc) e, in particolare, il Sudafrica. Proprio Pretoria ha chiesto di interrompere l’asse privilegiato Maputo-Kigali, visto che Kagame sta finanziando un gruppo terrorista come quello dell’M23».

Oggi, a Cabo Delgado lo scenario che si sta delineando è a macchia di leopardo. Ci sono isole felici, dove si riversano i grandi investimenti delle multinazionali, come quello della Total ad Afungi, o della Montepuez Ruby Mining a Montepuez. Il resto del territorio è, invece, in balia delle scorribande della milizia jihadista, i cui membri principali sono i giovani Amakhuwa e Kimwani, in rotta con uno Stato che li ha emarginati da qualsiasi percorso inclusivo, da un po’ di tempo spalleggiati dall’Isis, che ha rivendicato diversi degli ultimi attacchi.

Questa instabilità può danneggiare fortemente l’Europa che, negli ultimi anni, è diventata un partner fondamentale per il Mozambico. «Se l’Europa non interviene per cercare di stabilizzare la situazione, la relazione rischia di liquefarsi – conclude Di Liddo -. L’assenza di un ruolo importante del vecchio continente potrebbe ingenerare nei mozambicani la percezione che gli europei si interessano al Mozambico soltanto per i giacimenti di gas, le pietre preziose, le materie prime critiche. Gli europei poi devono tenere presente che le crisi politiche mozambicane hanno sempre avuto forti ripercussioni sui Paesi vicini: Malawi, Sudafrica, Zambia, Zimbabwe. Preservare la stabilità mozambicana significa quindi tutelare la stabilità dell’Africa australe. L’Europa però mi sembra più concentrata sulle crisi in Ucraina e in Medio Oriente. Questo, a mio avviso, è un errore strategico».

Enrico Casale

padre Amiotti incontra gruppo di persone mentre ancora in Kenya prima della partenza per il Mozambico

Hanno firmato il dossier

  • Diamantino Guapo Antunes
    Missionario della Consolata in Mozambico, è vescovo di Tete. Ha scritto «A semente caiu em terra boa», edizioni Missioni
    Consolata, 2003, sulla storia dell’Imc in Mozambico.
  • Sandro Faedi
    Missionario della Consolata, ha lavorato molti anni in Mozambico e Venezuela. Oggi è in missione a Fatima, in Portogallo.
  • Enrico Casale
    Giornalista, specialista di Africa e collaboratore di lunga data di MC.
  • Marco Bello
    Giornalista, direttore editoriale di MC.

Le foto del dossier provengono dall’Archivio fotografico Misssioni Consolata Torino (AfMC)), diverse sono di padre Amiotti

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