

Il suicidio di Israele
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Un piccolo libro affronta uno dei conflitti più intricati e centrali del mondo contemporaneo. Lo fa cercando cause e concause nella storia, e parlando, ad esempio, del valore del sentirsi «vittima» per entrambe le parti.
Il volume di Anna Foa, Il suicidio di Israele, aiuta a comprendere le tragiche vicende del Medio Oriente. Problematizza la situazione e stimola la riflessione. Lo fa a partire da una solida ricostruzione del passato nel quale i conflitti attuali affondano le radici.
Lo sguardo dell’autrice è dichiarato fin dalle prime righe: «Queste pagine contengono le riflessioni di un’ebrea della diaspora di fronte a quanto sta succedendo […]. Esse nascono dal dolore per l’eccidio del 7 ottobre e da quello per i morti […] della guerra di Gaza. È lo stesso dolore, per gli uni e per gli altri».
L’autrice, per «complicare le banalizzazioni», parte dalla storia: come nasce il sionismo? Quali conseguenze ha la sua nascita per il mondo ebraico e la Palestina? È un movimento di autodeterminazione o coloniale? C’è un solo sionismo o diversi sionismi, e diverse fasi storiche?
Una prima interpretazione è quella del sionismo come movimento di rottura nel mondo ebraico, in quanto persegue un progetto politico, lo Stato, che non ha mai fatto parte della sua costruzione filosofica fino alla fine del XX secolo.
Il sionismo nasce come movimento di rinascita nazionale che critica gli ebrei della diaspora e la loro «assimilazione»: nasce l’idea dell’ebreo nuovo, il sabra, alto e forte per il lavoro nei campi, che riscatta secoli di oppressione e di «vergogna».
Pur nascendo in Europa occidentale, il sionismo è figlio della società russa zarista dove, a inizio Novecento, nascono i Protocolli dei savi di Sion (un falso documento contro gli ebrei, ndr). Da questa società verrà la classe dirigente dell’insediamento ebraico in Palestina, l’Yishuv, nelle due ondate di aliyah (ritorno alla Terra Promessa) del 1904 e 1919-20.
Immigrati ebrei e nazionalismo arabo

Quando Theodor Herzl pubblica nel 1896 «Lo stato ebraico», tra le opzioni sul luogo in cui crearlo ci sono l’Argentina e l’Uganda. Lo scopo è quello di salvare gli ebrei dall’antisemitismo.
Nel 1919, l’emiro Faysal ibn Husayn (capo del governo di Damasco) e Chaim Weizmann (dal 1921 presidente dell’Osm, Organizzazione sionista mondiale), stringono un accordo, ma la rottura tra sionisti e mondo arabo arriva già nel 1920, quando la Conferenza di San Remo rende la Siria un protettorato francese e Faysal diviene re dell’Iraq.
Il nazionalismo arabo si sposta così dalla Siria alla Palestina e provoca la prima rivolta antisionista a Giaffa, nel 1921, anche in seguito al crescente numero di immigrati ebrei. A essa fa seguito quella di Hebron nel ‘29 e quella del ‘36, organizzata dal Gran Muftì di Gerusalemme, Amin Al Husayni, contro ebrei e inglesi.
Diverse posizioni ebraiche

Anche tra gli ebrei ci sono diverse posizioni. Per il movimento Brit Shalom, sostenuto da intellettuali come Martin Buber, Yehuda Magnes e Albert Einstein, lo Stato dovrà essere binazionale. Ebrei e arabi possono convivere con gli stessi diritti. Anche la sinistra sionista del partito Mapam la pensa così. I revisionisti guidati dal russo Vladimir
Jabotinsky, che si è staccato nel 1935 dall’Osm, sono, invece, a favore dell’uso della forza e dell’imposizione del progetto sionista. Così come il Betar, nato nel 1923 e organizzato militarmente, il cui capo, Menachem Begin, arrivato in Palestina nel 1942, diventa il numero uno del movimento terroristico Irgun e autore dell’attentato all’Hotel King David a Gerusalemme nel 1946.
In seguito all’avvento del nazismo, Jabotinsky sostiene la necessità di un’emigrazione di massa degli ebrei europei, e tra il 1933 e il 1937, 450mila ebrei vanno in Palestina.
Nel 1939 gli inglesi, timorosi dell’appoggio arabo all’Asse, limitano le quote di immigrazione (75mila nei 4 anni successivi). Alla fine della guerra, quando 250mila ebrei sopravvissuti vagano per l’Europa, l’Yishuv dà inizio all’Alyia Bet, l’immigrazione clandestina, che porta 120mila profughi in Palestina.
Nel 1947 finisce il mandato inglese e l’Onu delibera la spartizione della Palestina, in seguito alla quale viene fondato lo Stato di Israele nel 1948.
La guerra di quello stesso anno della Lega araba contro Israele è un punto di svolta: il conflitto aiuta la realizzazione del piano di espulsione dei palestinesi e di pulizia etnica del territorio. Avvengono violenze e massacri. È il colonialismo di insediamento.
Palestina colonizzata

La guerra del 1967, con la conquista da parte di Israele delle alture del Golan, della West Bank, di Gerusalemme Est e di Gaza crea le condizioni di occupazione dei territori palestinesi. Si diffonde una versione religiosa e aggressiva del sionismo, che si ritiene ispirata da Dio a colonizzare la terra di Israele.
È così che crescono gli insediamenti nella West Bank, da parte di gruppi estremisti riuniti nel Gush Emunim. Anche quando ci sono i laburisti al governo, 1967-’73, si espande la colonizzazione. Intanto, nel 1964 è nata l’Olp, Organizzazione per la liberazione della Palestina, guidata da Yasser Arafat, che considera illegale l’esistenza di Israele (principio mantenuto fino al 1998), proclama il diritto al ritorno dei profughi, e la lotta armata.
La guerra del Kippur, nel 1973, vinta da Israele con il sostegno Usa, non modifica la situazione.
Le due identità

Il secondo capitolo del volume di Anna Foa riflette sulle identità: mentre la costruzione dello Stato di Israele avviene a prescindere dallo sterminio nazista, dopo il processo Eichmann (1961) la memoria della Shoah diventa il cuore dell’identità di Israele, che si sente l’erede dei sei milioni di ebrei assassinati dal nazismo.
Un altro elemento che identifica sempre più gli ebrei con Israele è il terrorismo palestinese. Esso non si rivolge più contro i soli israeliani, come a Monaco nel 1972, ma anche contro ebrei nella sinagoga di Roma nel 1982 o a Parigi nel 1980 e 1982.
Anche l’arrivo di 600mila profughi ebrei dai paesi arabi dopo il 1967 contribuisce a modificare l’identità di Israele, creando complessi rapporti tra ashkenaziti e mizrachim orientali, così come, negli anni Novanta, l’arrivo di oltre un milione di ebrei dai Paesi dell’ex Urss, che introduce il russo come terza lingua del Paese, dopo ebraico e arabo.
Infine, altro tassello identitario è la religione: i sionisti religiosi si moltiplicano e si crea una spaccatura tra laici e credenti.
Anche l’identità palestinese cambia. Il ritorno dei profughi, che nel 1948 sono 700mila, e nel 2025 saranno cinque milioni, è un ostacolo alla pace.
Se la Shoah è il cuore dell’identità israeliana, la Nakba, l’esodo forzato degli arabi palestinesi dai territori occupati, è il cuore dell’identità palestinese: «Entrambe sono identità nazionali in cui la dimensione della catastrofe e del trauma svolgono un ruolo centrale e dove la narrazione nazionale ruota in gran parte intorno a motivi legati all’essere vittima e alla perdita subita» (cfr. Olocausto e Nakba di Bashir e Goldberg, 2023).
Le paci fallite

Nel terzo capitolo del suo libro, Anna Foa prende in esame i tentativi di pace e gli ostacoli che li impediscono. In particolare, sono due i momenti che interrompono un possibile percorso dentro Israele: l’atto terroristico di Baruch Goldstein che, nel 1994, uccide 29 palestinesi nella moschea di Hebron; e l’assassinio, nel 1995, del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin da parte di Yigal Amir, un colono ebreo estremista di destra contrario a ogni negoziato.
Tutti i tentativi successivi di riprendere un processo di pace falliscono. La politica degli insediamenti illegali prosegue con circa 700mila coloni israeliani che si stabiliscono nei territori occupati. Inizia la costruzione del muro di separazione nel 2002. Nel 2006 Ariel Sharon decide in modo unilaterale la restituzione di Gaza ai palestinesi sgombrando 7.500 coloni. Le elezioni del 2006 nella striscia portano Hamas al potere che accresce la sua influenza anche in Cisgiordania. Nel 2009 Netanyahu dichiara ferma opposizione a ogni trasformazione dell’Autorità palestinese in stato autonomo. Gaza è sempre più controllata da Israele che scatena contro la striscia guerre nel 2009, 2012, 2014, 2021, fino a quella totale odierna.
Il suicidio

L’ultimo capitolo analizza i passaggi più recenti che portano a quello che l’autrice chiama «il suicidio di Israele» a opera del suo stesso governo.
L’operazione del 7 ottobre avrà come prima motivazione la salvaguardia delle moschee della spianata del Tempio, poiché i sionisti religiosi non riconoscono gli accordi su di essa, e il Temple institute lavora alla costruzione del Terzo Tempio che prevede la distruzione delle moschee.
Nel 2018 è varata una legge che prevede lo Stato degli ebrei, i soli legittimati a esercitare l’autodeterminazione nazionale. Ciò comporta un trattamento diverso tra i cittadini ebrei e non ebrei, e il rifiuto dello Stato palestinese.
«La trasformazione di Israele in un Paese autoritario avanza. La polizia attacca ogni manifestazione di dissenso, le prigioni sono piene di cittadini arabo israeliani e dei Territori, detenuti senza processo. Le dichiarazioni razziste di ministri si moltiplicano […]. Ci sono militari che rifiutano di andare a combattere a Gaza, preferendo la prigione. Si è formata addirittura un’organizzazione di genitori che invita i figli a rifiutare di combattere».

Poiché dal governo israeliano ogni critica è respinta come «antisemitismo», è opportuno definire anche questo concetto: due sono le definizioni recenti, quella dell’International holocaust remembrance alliance del 2016, che pone un legame stretto tra antisionismo e antisemitismo, e la Dichiarazione di Gerusalemme, del 2021, che definisce l’antisemitismo come «la discriminazione, il pregiudizio, l’ostilità o la violenza contro gli ebrei in quanto ebrei (o le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche)».
Quando, durante le manifestazioni anti israeliane si grida «Dal fiume al mare, Palestina libera», si tratta di uno slogan antisemita? E gli ebrei del mondo «come possono parlare solo dell’antisemitismo senza guardare a ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza? […] Dopo questa terribile esplosione di odio, la strada, non dico per la pace, ma per una semplice convivenza, è lunga […]. Non possiamo dare per scontato che l’odio lasciato da tutti questi traumi cesserà un giorno. Ma non ci sono altre strade […]».
Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis



Angela Dogliotti
Suggerimenti di lettura
Jean-Pierre Filiu, Perché la Palestina è perduta ma Israele non ha vinto. Storia di un conflitto (XIX-XXI secolo), Einaudi, Torino 2025, pp. 428, 32 €.
Bruno Montesano (a cura di), Israele-Palestina. Oltre i nazionalismi, edizioni e/o, Roma 2024, pp. pp. 128, 10 €.
Daniel Bar-Tal, La trappola dei conflitti intrattabili. Il caso israelo-palestinese, FrancoAngeli, Milano 2024, pp. 400, 34 €.
Paola Caridi, Hamas. Dalla resistenza al regime, Feltrinelli, Milano 2023, pp. 352, 20 €.
Ilan Pappé, Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina. Dal 1882 a oggi, Fazi, Roma 2024, pp. 144, 15 €.
Noam Chomsky e Ilan Pappé, Ultima fermata Gaza. La guerra senza fine tra Israele e Palestina, Ponte alle Grazie, Milano 2023, pp. 272, 16,90 €.
Bashir Bashir, Amos Goldberg (a cura di), Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, Zikkaron, Bologna 2023, pp. 464, 20 €.