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Rifugiati, la crisi non rallenta

Il numero di rifugiati e sfollati nel mondo è aumentato per 12 anni consecutivi e oggi è pari a oltre due volte la popolazione dell’Italia. Sette rifugiati su dieci sono ospitati negli Stati confinanti il Paese d’origine, quasi sempre Paesi a basso o medio reddito.

Lo scorso 7 aprile, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr, riferiva che, a due anni all’inizio della guerra in Sudan, le persone costrette a fuggire dal Paese erano circa 12,7 milioni, di cui 8,6 milioni sfollati all’interno dei confini sudanesi e quattro milioni nei Paesi confinanti o vicini: Egitto, Sud Sudan, Chad, Libia, Uganda, Etiopia e Repubblica centrafricana@. Sul totale mondiale dei rifugiati, riportava l’agenzia, uno su 13 è del Sudan, che diventa così il Paese con il maggior numero di profughi al di fuori dei propri confini in tutta l’Africa. Fra le persone costrette a fuggire ci sono anche cittadini non sudanesi che erano già rifugiati da altri Paesi accolti in Sudan.
I livelli di insicurezza alimentare erano molto alti, fra il livello 3, che indica crisi, e il livello 4, di vera e propria emergenza, con una zona nella parte meridionale del Sudan dove la situazione era già in fase 5, quella della catastrofe umanitaria@.

La guerra nel Paese, raccontava Enrico Casale su MC dello scorso aprile@, è scoppiata nel 2023 «a causa di tensioni legate alla transizione politica del Sudan verso un governo civile», in seguito all’instabilità politica generata dalla caduta del dittatore Omar al-Bashir, arrivato al potere nel 1989 con un colpo di Stato e deposto trent’anni dopo. Il conflitto vede opporsi l’esercito sudanese e le Rapid support forces (Rsf), eredi delle milizie Janjaweed responsabili delle atrocità nella regione sudanese occidentale del Darfur all’inizio di questo secolo.

123 milioni di profughi

Quella del Sudan è una delle peggiori crisi umanitarie in corso, ma il numero di profughi nel mondo sta aumentando da 12 anni consecutivi: se nel 2012 gli sfollati globali erano circa 43 milioni, alla fine di giugno dell’anno scorso erano triplicati: 122,6 milioni, provenienti da 179 Paesi@. Questo mese esce il nuovo rapporto Unhcr che fornirà dati più consolidati; intanto, quelli a disposizione dicono che una persona su 67 sul pianeta è costretta a lasciare il luogo in cui vive per sfuggire a persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico.

Sul totale di quasi 123 milioni, oltre la metà sono sfollati interni al paese d’origine, 38 milioni sono rifugiati, 8 milioni sono richiedenti asilo – cioè persone che hanno richiesto il riconoscimento dello status di rifugiato o un’altra forma di protezione internazionale, ma la cui situazione non è ancora definita – e poco meno di 6 milioni sono persone non incluse in queste due categorie ma probabilmente bisognose di protezione internazionale.

Due terzi dei rifugiati vengono da soli quattro Stati: Siria, Venezuela, Ucraina e Afghanistan; circa sette su dieci sono ospiti di Paesi a basso e medio reddito confinanti con quello di origine. I minori, cioè le persone sotto i 18 anni di età, sono 47 milioni.

Questi numeri provengono da tre fonti: Unhcr, Unrwa (United nations relief and works agency for Palestine refugees in the Near East) e l’Idmc (Internal displacement monitoring centre) della Ong umanitaria Consiglio norvegese per i rifugiati.

Unhcr e Unrwa sono entrambe agenzie Onu, ma hanno mandati diversi e complementari. In particolare, l’Unrwa – che ha sotto il suo mandato circa 5,9 milioni di palestinesi – fornisce ai rifugiati servizi in cinque ambiti, fra cui sanità e istruzione, in attesa di una soluzione alla loro situazione, mentre l’Unhcr offre assistenza solo temporanea ma ha l’autorità di reinsediare i rifugiati palestinesi e cercare per loro soluzioni durature. Secondo l’Unhcr, però, ogni anno viene reinsediato meno dell’1% dei rifugiati@.

Boa Vista e rifugiati venezuelani

Anche la crisi venezuelana non registra miglioramenti: la situazione di mancanza di servizi di base, violenza, criminalità e violazioni dei diritti umani è tale che quasi un venezuelano su quattro ha lasciato il Paese. Secondo la piattaforma R4V, cogestita da Unhcr e Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), i rifugiati e migranti venezuelani nel mondo sono poco meno di 7,9 milioni, di cui 6,7 distribuiti in 17 Paesi dell’America Latina. I primi tre Paesi ospitanti sono Colombia, che ha 2,8 milioni di venezuelani sul proprio territorio, Perù (1,7 milioni) e Brasile (627mila)@.

Il Brasile si è dato una legislazione sulla migrazione che facilita molto l’accoglienza, attribuendo agli stranieri – almeno sulla carta – gli stessi diritti e doveri dei brasiliani, senza grandi distinzioni legate allo status di rifugiato o migrante, e mettendo a disposizione rifugi, assistenza umanitaria e ricollocamento delle persone nei vari Stati brasiliani nell’ambito della Operação acolhida, operazione accoglienza. Ma le difficoltà restano tante: secondo l’analisi dei bisogni di rifugiati e migranti fatta da R4V nel 2024@, i minori immigrati che non erano iscritti al sistema scolastico formale erano circa il 17% nel Paese, ma un’ulteriore verifica condotta nello stato di Roraima, principale punto di ingresso dei migranti dal Venezuela in Brasile, alzava il dato al 54%. Quanto alla nutrizione, se a livello nazionale era il 22% delle famiglie immigrate intervistate a segnalare insicurezza alimentare moderata o grave, in Roraima la percentuale era di cinque punti più alta. La popolazione indigena – Warao, Pemon, Taurepang, E’ñepa, Kariña e Wayuu – ha difficoltà ancora maggiori: l’analisi cita il caso di un rifugio della Operação acolhida dove i bambini che non frequentavano la scuola erano 86 su cento.

Donna Warao che lava la sua roba a Boa Vista

Le difficoltà concrete

A Boa Vista, in Roraima, un’équipe dei missionari della Consolata assiste i migranti e rifugiati venezuelani che vivono negli insediamenti informali, cioè fuori dai centri governativi. Padre Juan Carlos Greco, missionario di origine argentina membro dell’équipe, ha lavorato anche nove anni in Venezuela con gli indigeni Warao.

«Non è facile capire chi è rifugiato e chi migrante», spiega Juan Carlos: spesso non dipende solo dal motivo per cui una persona ha abbandonato il proprio Paese – cioè se è o no in fuga da una persecuzione – ma dai documenti di cui dispone all’arrivo. «Immagina che marito e moglie arrivino con in tasca una carta d’identità venezuelana: a entrambi viene riconosciuto il diritto ad avere la residenza in Brasile e diventano così migranti residenti. Ai bambini con meno di 12 anni, il Venezuela non rilascia una carta di identità, perciò, se la coppia ha una figlio di quell’età è senza documenti e le autorità, per poterlo accogliere, devono riconoscergli lo status di rifugiato. Infine, se a questi genitori arriva un nuovo figlio mentre sono in Brasile, lo Stato brasiliano non può attribuire al nuovo nato la cittadinanza venezuelana, perciò lo riconosce come cittadino brasiliano. Ecco allora che hai famiglie con genitori migranti residenti, figli grandi rifugiati e figli piccoli cittadini brasiliani».

Alle questioni burocratiche si aggiungono poi altre difficoltà: ci sono persone – continua Juan Carlos – che sono venute dal Venezuela perché sono malate o disabili e nel loro Paese non possono più curarsi. Ma nelle loro condizioni non riescono a lavorare e possono solo “stare in un rifugio in attesa di un miracolo”». Spesso, poi, il cibo servito nei rifugi crea ulteriori problemi, perché è avariato o cucinato in modo scorretto e causa intossicazioni alimentari. «Prima, a fornire il cibo era la Caritas brasiliana, ma ora ha chiuso per mancanza di fondi: questi venivano infatti in larga parte dagli Usa, ma il governo statunitense a gennaio ha sospeso gli aiuti»@.

A volte, pur di lavorare, i migranti entrano in contatto con organizzazioni criminali. «Una donna warao aveva un marito, non indigeno, che si è messo nel traffico di droga ed è stato ucciso da due sicari in moto a colpi di arma da fuoco. Lui è morto sul colpo, la moglie, ferita al costato, è morta pochi giorni dopo. Il bambino di cinque mesi, che lei teneva in braccio, è stato ferito a una mano ma si è salvato. Ora lui e i suoi sette fratelli sono orfani e hanno solo i nonni ultrasessantenni che possono prendersi cura di loro. Il governo ancora non ha concesso loro la bolsa familia», cioè l’aiuto finanziario per le famiglie povere, «perciò per ora aiutiamo noi con latte in polvere e un po’ di cibo». Adesso sei dei bambini vanno anche a scuola: il nonno accompagnava quattro di loro usando Uber, ma non aveva i soldi per rientrare a casa e poi tornare a prenderli, perciò li aspettava fino alle 5 del pomeriggio fuori dalla scuola. «Qualcuno lo ha notato e, toccato dalla sua situazione, gli ha procurato un piccolo aiuto finanziario per coprire i costi di trasporto».

Malindza Refugee Reception Centre 2022 The eSwatini Council of Catholic Women (ECCW) visited the Refugee Centre for a time of prayer and to share their gifts (09 July 2022)

eSwatini e Sudafrica, emergenze vecchie e nuove

Oltre al Sudan, ci sono altre realtà in Africa che vivono da anni una situazione di emergenza. Il Centro di accoglienza per rifugiati di Malindza, nel Regno di eSwatini, ospita ad esempio molte persone provenienti dalla zona dei Grandi Laghi, che comprende fra gli altri la Repubblica democratica del Congo, dove il conflitto nella zona orientale va avanti da anni.

Il Centro è sotto mandato Unhcr, in collaborazione con il governo di eSwatini e con la Ong World Vision come partner. «Fino a dicembre scorso», spiega monsignor José Luis Ponce de León, vescovo di Manzini e missionario della Consolata, «a Malindza gli ospiti erano circa 400, la metà bambini. Poi, con lo scoppio della violenza in Mozambico, centinaia di persone hanno attraversato il confine». Caritas eSwatini ha reagito fornendo coperte, materassi e cibo. «Visitando il campo insieme ad alcune suore mozambicane», continua monsignor Ponce de León, «ci siamo resi conto che, sebbene arrivassero dal Mozambico, i profughi non erano mozambicani, ma di altre parti dell’Africa che erano scappati dai loro Paesi e si erano stabiliti lì».

Anche a Pretoria, in Sudafrica, un missionario della Consolata, padre Daniel Kivuw’a, collabora con la Chiesa locale per assistere migranti e rifugiati provenienti da diversi paesi africani. «Ad alcuni», spiega padre Daniel, «soprattutto a quelli provenienti da Paesi con un conflitto in corso – Rd Congo, Sudan e, ultimamente, il Mozambico – il governo ha concesso lo status di rifugiato». Ma le difficoltà per i migranti in Sudafrica continuano a essere legate all’ostilità della popolazione locale, che non è nuova ad atti xenofobi violenti e al rischio di cadere vittima del traffico di esseri umani e agli elevati livelli di corruzione. «Molti migranti», continua Daniel, «faticano a ottenere documenti perché non hanno denaro per pagare i funzionari dell’immigrazione. Se sono donne migranti, poi, rischiano anche di subire abusi sessuali».

Chiara Giovetti

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