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La popolazione del Burkina Faso non ha tregua. Dopo l’insurrezione che ha mandato via il regime di Blaise Compaoré, durato 27 anni, il Governo di transizione e le elezioni, nel gennaio 2016 i gruppi armati jihadisti hanno iniziato a colpire sul territorio. Prima con un attentato al cuore del Paese, e poi prendendo sempre più terreno, a partire da Nord. Nel dicembre dello stesso anno, il primo gruppo isalmista composto da burkinabè, Ansarul Islam, si è dichiarato apertamente (si veda la cronologia in MC gennaio-febbraio 2019).
È seguita una breve parentesi democratica, con la presidenza di Roch Marc Christian Kaboré, che non ha saputo limitare l’avanzata dei terroristi (come del resto è successo negli altri paesi del Sahel), fornendo il pretesto ai militari per attuare un colpo di stato il 24 gennaio 2022. La giunta è stata destituita da un secondo golpe che, il 30 settembre dello stesso anno, ha portato al potere il giovane capitano Ibrahim Traoré e il suo gruppo.
Il nuovo uomo forte ha ben presto imposto un regime autoritario, riducendo al minimo le libertà di espressione, di stampa e di associazione. I sindacati e i partiti politici sono stati sospesi, così come i media indipendenti. Ong nazionali e internazionali si sono viste revocare il permesso di operare da un giorno all’altro. Attivisti della società civile, giornalisti, avvocati che denunciavano quanto sta avvenendo, anche sulla lotta al terrorismo, sono stati arrestati a casa, sul luogo di lavoro, per strada, da individui armati, di solito in borghese. I famigliari e i colleghi non hanno avuto loro notizie per mesi.
Alcuni di loro sono ritrovati nelle prigioni di Stato, in attesa di giudizio. L’ultimo arresto arbitrario eccellente è stato quello dell’avvocata Ini Benjamin Doli, avvenuto la notte del 31 agosto scorso. Molto critica nei confronti della giunta, l’avvocata ha visto un gruppo di uomini armati irrompere nel suo domicilio durante la notte. Ci sono voluti alcuni giorni affinché i colleghi dell’Ordine degli avvocati, scoprissero che era stata arrestata dai servizi segreti.
Il 16 settembre scorso, una buona notizia è stata la liberazione di cinque giornalisti – Khalifara Seré, Alain Alain, Boukari Ouoba, Guézouma Sanogo, Adama Bayala -, alcuni dei quali in prigione da oltre un anno, e di altrettanti attivisti. Ma molti altri restano in detenzione arbitraria, come il giornalista Idrissa Barry e l’avvocato Guy Hervé Kam.
Al di fuori della capitale, i gruppi armati sono molto presenti sul territorio e compiono massacri tra la popolazione civile, oltre che attacchi a postazioni militari. Anche l’esercito burkinabè, affiancato dalle milizie dei Volontari della patria (Vdp, paramilitari), commette efferatezze contro i civili, come documentate da Human rights watch e Amnesty International, che chiedono inchieste indipendenti sull’operato delle forze dell’ordine.
Inoltre, oltre al clima di paura, una propaganda molto pressante è messa in piedi dal Governo, sia all’interno del Paese che verso l’estero. Ha il duplice scopo di anestetizzare la popolazione su quanto accade, e di raccontare il personaggio Ibrahim Traoré, come un rivoluzionario, difensore del popolo contro gli interessi occidentali.

A Parigi incontriamo Newton Ahmed Barry, giornalista burkinabè molto noto nel suo Paese e attualmente in esilio.
Barry ha lavorato in televisione, è stato tra i fondatori del giornale indipendente «l’Évenement» (2002). È stato, inoltre, presidente del Consiglio elettorale nazionale indipendente con il quale ha organizzato l’ultima consultazione elettorale, nel 2020.
Dal luglio del 2023 è dovuto andare all’estero, in quanto critico della giunta.
Barry è, inoltre, finito su una lista nera, resa pubblica con grande enfasi, anche tramite i social media, insieme ad altri sei giornalisti, con la pesante accusa di «associazione criminale con legami con il terrorismo».
«Occorre confrontare quello che il Governo dice e quello che succede sul terreno: sono due cose totalmente diverse. Quello che constatiamo sul terreno è che, un po’ ovunque, i jihadisti attaccano i campi militari, e i soldati burkinabè, così come i Vdp, che sono una sorta di milizia governativa, sono uccisi dai terroristi. Leggendo una valutazione fatta tra fine aprile e fine maggio, più di 800 militari sono stati uccisi. Secondo il Centro africano di studi strategici la situazione di sicurezza è preoccupante. Quindi, non possiamo dire che la lotta contro il terrorismo stia facendo dei progressi. Nonostante questo, il Governo della giunta militare dice che le cose vanno bene, che i terroristi saranno sconfitti prossimamente in Burkina. Ma non è quello che dicono i fatti. Tra il discorso politico e il terreno, c’è una grande differenza».
«È un regime autoritario, direi una dittatura, che ha cominciato sopprimendo la libertà della stampa, poi ha messo i giudici in prigione, e oggi è addirittura proibito mettere dei “like” su internet. Chi mette un like a un messaggio che non è conforme alla linea ufficiale, è perseguito.
In questo momento, in Burkina Faso abbiamo il regime responsabile del più grande numero di sempre di sparizioni di persone che hanno osato dare un’opinione contraria a quella ufficiale.
Sono decine i giornalisti attualmente detenuti senza giudizio. Le loro famiglie non sanno dove si trovano. Inoltre, gli anonimi scomparsi cono centinaia.
Non ci sono diritti politici, i partiti sono sospesi e non possono esprimersi.
Le Ong e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani non possono parlare.
Se hai un problema, oggi non puoi appellarti alla giustizia, perché questa è stata silenziata e alcuni giudici mandati al fronte, a combattere contro i jihadisti. Questo perché hanno osato condannare i partigiani del regime. Nel Burkina di oggi, c’è una sorta di buco nero delle libertà.
La lotta contro il terrorismo è stata un pretesto per togliere tutte le libertà e per imporre un regime dittatoriale. Regime che ha l’effetto di isolare il Paese».

«Il Burkina ha un solo partner, ovvero la Russia. Essa, nella sua geostrategia contro gli occidentali, e in particolare contro la Francia, ha cercato di prenderle tutte le sue vecchie colonie. I russi sono, quindi, venuti in Sahel, diventando il partner principale di questi Paesi.
In Burkina, con l’arrivo di Ibrahim Traoré, sono state interrotte tutte le relazioni diplomatiche con la Francia. A Ouagadougou è arrivato il gruppo Wagner, ed è stato incaricato della sicurezza personale del capitano Ibrahim Traoré. Wagner è stato poi sostituito da Africa corps (conversione di Wagner dopo l’uccisione del suo capo, nel 2023, ndr), che ricopre lo stesso ruolo, ancora oggi. Ma i militari russi, in Burkina, non combattono, come invece accade in Mali, a fianco delle truppe di quel Paese».
«Piuttosto i russi prendono. Occorre dire che è il Governo del Burkina che paga gli uomini di Africa corps, con denaro o dando loro accesso alle miniere d’oro. Inoltre, il Burkina acquista armi dalla Russia. Sono a conoscenza del fatto che i russi hanno dato 50mila tonnellate di grano, che è niente, in quanto un piccolo villaggio in Burkina ne produce il doppio in un anno. E poi hanno elargito una ventina di borse di studio per studenti. Questa è la loro cooperazione».

«È difficile dirlo, perché, non essendoci libertà di espressione, chi non è d’accordo non ha la possibilità di manifestare le proprie idee. Come giudicare la popolarità della giunta se la parola è data solo ai suoi sostenitori? Inoltre, le manifestazioni non sono poi così massicce. Nel 2014 abbiamo fatto manifestazioni dieci volte più importanti, quando si trattava di cacciare via Blaise Compaoré (il presidente che ha gestito il Paese dal 1987 al 2014, ndr). All’epoca, sia i suoi partigiani, che noi dell’opposizione, potevamo manifestare. Ma se non c’è un contesto di libertà, di possibilità di scelta, è difficile giudicare la popolarità di un regime».
«Perché il regime militare ha connotato la strategia di lotta contro il terrorismo su delle basi etniche. Dato che la maggioranza dei militanti nel terrorismo parlano la lingua Peul (cfr. MC dicembre 2018), è tutta la comunità Peul che è stata messa in causa. Il regime pensa di dovere sterminare il massimo numero di Peul per ridurre il reclutamento di nuovi combattenti. Ma questo ha creato l’effetto inverso, perché, a forza di prendere un’etnia come obiettivo, i giovani di quella comunità non hanno altra scelta che ingrossare i ranghi dei jihadisti.
Quindi, invece di indebolire il movimento terrorista, questa strategia lo ha rinforzato, e oggi i jihadisti sono molto più numerosi di due anni fa».
«C’è principalmente Ansarul Islam, che fa parte del Gsim (Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani, o Jenim dalla sigla in arabo), il quale risponde ad Al Qaida. Il Jenim è composto da tre gruppi: il Movimento di liberazione di Masina, che è principalmente in Mali, nella zona centrale, verso Timbuctu; poi c’è Ansar Dine, il movimento dei Tuareg di Iyad ag Ghali e – infine – Ansarul Islam, che è il ramo burkinabè (cfr. Mc dicembre 2018), che è presente un po’ ovunque nel Paese.
C’è anche una presenza dello Stato islamico nel Sahel, che è limitato alla zona delle tre frontiere: Burkina, Mali e Niger. Loro sono più forti in Mali, nella zona di Menaka, e in Niger, nell’area di Tillaberi».
«Oggi tutto è possibile, dal momento che si tratta di un sistema chiuso, che non permette alternative. Io vedrei tre possibilità.
La prima è quella di un colpo di stato militare: esiste, ma è bassa. Questo perché Traoré ha rimodellato l’esercito portando il livello di comando più in basso, ovvero al livello dei capitani. Molti di loro, oggi, sanno che il loro privilegi sono dovuti a questo regime, per cui lo difendono per proteggere i propri interessi, che coincidono con quelli di Traoré.
La seconda possibilità è quella di una ribellione. Ci sono molti ufficiali superiori che sono fuggiti dal Burkina e si trovano nei Paesi vicini. È plausibile che possano guidare una ribellione dall’estero. Ci sono delle idee, ma nulla di strutturato.
La terza possibilità è la presa del potere da parte di Ansarul Islam. Questo gruppo armato è molto avanti oggi e prende a tenaglia la capitale Ouagadougou e la seconda città, Bobo Dioulasso. Si può dire che controlla il 70% del territorio nazionale, mentre la giunta militare ne controlla il restante 30%. Possiedono molte armi, perché le prendono attaccando i campi dell’esercito. Hanno, inoltre, molti uomini perché, come detto, la strategia governativa di colpire i Peul, ha avuto questo effetto. I Peul sono la seconda etnia per numero del Paese, dopo i Mossì. Questa è la possibilità a mio avviso più concreta rispetto alle altre».

«L’economia del Burkina Faso è basata sull’agricoltura e sull’appoggio dei partener internazionali. Per quanto riguarda l’agricoltura, dato che gran parte del territorio è sotto il controllo dei jihadisti, ci sono circa tre milioni di contadini che sono dovuti scappare dai propri villaggi, lasciando incolti i loro campi.
Un secondo elemento economico interno è lo sfruttamento delle miniere d’oro (il 70% dei proventi di esportazione e costituisce il 16% del Pil). Ma anche molte regioni aurifere sono sotto il controllo dei terroristi. La metà delle miniere sono chiuse o date in uso ai russi per pagare i mercenari. Anche in questo caso si riducono le entrate nelle casse dello Stato (la produzione è scesa del 20%).
Un terzo elemento è il fatto che il governo ha tagliato i ponti con i partner principali del Paese, come l’Unione europea che era tra i principali donatori. Il bilancio del Burkina è di circa 2mila miliardi di Fcfa all’anno (3 miliardi di euro). Circa la metà arrivavano dall’aiuto budgetario dei partner internazionali. Inoltre, gli investimenti stranieri sono passati da 670 milioni di dollari nel 2022 a 83 milioni nel 2024.
C’è, quindi, un problema evidente a livello del bilancio dello Stato. Un Paese che è già in una situazione di crisi, si è privato di metà del proprio bilancio.
Il governo fa, dunque, molta propaganda ma non riesce più a fare sviluppo. Le strade, la sanità, l’educazione diventano difficili da finanziare. Ci sono oltre quattromila scuole chiuse (a causa dell’occupazione del territorio da parte dei gruppi armati, ndr) con milioni di bambini che sono privati dell’educazione primaria.
Tutti questi elementi portano verso a una crisi economica profonda. E sull’economia non si può mentire».
«È la prima volta, nella storia del Paese, che centinaia di persone sono obbligate a vivere in esilio. La nostra preoccupazione è organizzarci per poter continuare a difendere libertà e democrazia, e pure continuare a sensibilizzare i partner all’estero, affinché non si dimentichi il dramma che si sta consumando a porte chiuse. Un dramma umanitario, delle libertà, ma anche di tutte le popolazioni rurali.
Un problema che abbiamo è anche il rapimento e l’imprigionamento, senza alcuna forma di processo e procedura giudiziaria di molti giornalisti (e attivisti della società civile, avvocati, ecc. ndr). Sono decine oggi in questa situazione.
Stiamo, quindi, cercando di realizzare una campagna, con le foto dei colleghi scomparsi, da far girare su internet o su altri mezzi stampa, per sensibilizzare i partner internazionali».
«Utilizzano Sankara per la propaganda. Ma Traoré non ha il livello di Sankara (il presidente visionario ucciso nel 1987, ndr) né intellettualmente, né in termini di comprensione delle questioni complesse di democrazia o regimi politici.
In secondo luogo, Sankara era antimperialista tout cour, e non “antimperialista occidentale”.
Ovvero, era anche antimperialista contro i russi, infatti disse ai sovietici che rifiutava il loro aiuto, perché “l’aiuto non aiuta a liberarsi dell’aiuto”.
Al contrario, Ibrahim Traoré lotta contro l’imperialismo occidentale, ma è un buon partner di quello russo.
Sankara era panafricano, non ha fatto uscire il Paese dalla Cedeao. Ed era per la libertà di parola. Sankara disse una cosa importante: “Sfortuna a chi imbavaglia il proprio popolo”. Ma la politica di Traoré è basata esclusivamente sul silenzio: imbavaglia il suo popolo, nessuno può parlare».
Marco Bello
Mentre stiamo per mandare in stampa, apprendiamo del sequestro, da parte di sedicenti agenti dei servizi segreti, di tre magistrati, due giornalisti, un avvocato e un doganiere, tra sabato 11 e lunedì 13 ottobre. Seguiranno aggiornamenti sul sito della rivista.