UNA STORIA AFFASCINANTE! 25 anni di presenza in Corea del Sud per gli IMC

I Missionari della Consolata celebrano 25 anni di presenza in Corea del Sud.
Arrivati in Corea del Sud il 20 gennaio 1988, i primi quattro
missionari della Consolata iniziarono l’evangelizzazione tra i ceti sociali più
poveri e l’animazione missionaria nella Chiesa locale.

Con  l’arrivo di altro personale la
loro missione si caratterizzò per
il dialogo con le grandi religioni e, da ultimo, per il lavoro tra gli
immigrati stranieri. Fiore all’occhiello sono i 6 coreani entrati nella
nostra famiglia missionaria e già operanti in altri continenti.


Per uno sciopero all’aeroporto di Roma, arrivammo a Seoul con un
giorno e mezzo di ritardo, di notte, senza nessuno che ci aspettasse. Eppure potemmo
fin dall’inizio assaggiare la gentilezza e l’organizzazione perfetta del popolo
coreano. La ragazza del Centro di Informazioni prese con un bel sorriso il
numero di telefono dei Francescani che le porgevamo, li chiamò per capire bene
la nostra destinazione, fece arrivare il taxi all’uscita dell’aeroporto e, in
meno di un’ora, eravamo alla casa dei frati in centro Seoul. Era mezzanotte. «Ben
arrivati in Corea – ci accolse padre Beitia, superiore spagnolo dei Francescani
-. Siete a casa vostra!».

Così cominciò, il 20 gennaio
1988, la storia dei missionari della Consolata in Corea. Guardandola
all’indietro, 25 anni dopo, si dimostra una storia «affascinante».

Coreano, kimchi e
fantasia

L’aria era
satura dei lacrimogeni che la polizia usava in dosi generose per fronteggiare
le dimostrazioni quasi giornaliere degli studenti contro un governo che si
dichiarava democratico, ma che della democrazia cominciava solo a balbettare le
prime sillabe; e noi, tappandoci la bocca con il fazzoletto e asciugandoci le
lacrime che ci inondavano gli occhi, raggiungevamo la nostra classe per la
lezione di coreano, all’Università Yonsei. Ci chiedevamo dove fossimo capitati.

Le speranze e le attese
dell’Istituto per l’inizio assoluto della sua missione in Asia erano grandi.
C’erano stati accesi dibattiti prima che il Capitolo Generale del 1987
decidesse l’apertura all’Asia e scegliesse la Corea del Sud.

La nostra preparazione, era stata
più spontanea che altro: due mesi nella casa generalizia a Roma per conoscerci
e frateizzare, leggere articoli sulla situazione sociale, politica, culturale
e religiosa della Corea, avviare contatti epistolari con il vescovo della
diocesi di Incheon che ci avrebbe accolti… in attesa del sospirato visto per
la Corea. Insieme alla Direzione Generale di allora, soprattutto, «sognavamo».

Sognavamo una chiara e decisa «scelta
dei poveri», per fare con loro e per loro grandi cose. Sognavamo di offrire
alla Chiesa locale la nostra bella testimonianza di vita consacrata, con uno
stile comunitario vero, intriso di comunione, preghiera e fratellanza.

Sognavamo l’incontro con le
grandi religioni dell’Asia, di cui avevamo qualche idea superficiale, ma i cui
nomi ci riempivano di misteriosa curiosità: buddismo, confucianesimo,
sciamanesimo. Sognavamo di diventare un possibile «ponte» verso la grande e, in
quel momento, inaccessibile Cina. Sognavamo, soprattutto, di dare una buona
mano alla Chiesa locale, che allora contava solo il 3% della popolazione, per
farla crescere in numero e qualità.

Sognavamo, ma ora, tra l’odore
acre dei lacrimogeni, ci chiedevamo dove fossero finiti i nostri sogni.

La lingua coreana si rivelò
subito un osso più duro del previsto; per sentirci sufficientemente a nostro
agio ci vollero 4-5 anni di sforzo costante. Anche l’adattamento a cibo, agli
usi e costumi coreani richiese molta buona volontà: dopo 25 anni posso dire che
è buono anche il kimchi (cavoli piccanti).

Il Paese era in pieno boom
economico e i poveri stavano «sparendo» velocemente dall’orizzonte. La Chiesa,
piccola ma ben strutturata e organizzata, contava già forze pastorali
sufficienti per le sue parrocchie, i laici impegnati erano numerosi e i
seminari erano strapieni di candidati. Non c’erano parrocchie da affidare a
missionari stranieri. Dove eravamo capitati? Qual era il nostro posto da
missionari in Corea? Missione in Asia sì, ma «quale» missione?

Noi siamo  per i non cristiani!

La nostra prima esperienza tra i
poveri fu a Man-sok-dong, un «villaggio della luna» di Incheon, come sono
chiamati in Corea i quartieri periferici delle città, specie di baraccopoli
dove si ammassavano i poveri; quartieri che già allora stavano sparendo,
inghiottiti dai grattacieli dei progetti di ri-costruzione delle città. Visto
che la Chiesa locale non aveva bisogno di noi come parroci (anche se aiutavamo
molto nelle parrocchie); dato che l’assistenza sociale nel paese era ben
strutturata ed efficiente (con suore in prima linea in un numero impressionante
di centri per portatori di handicap, orfanotrofi, ospedali, case per anziani) e
la società non aveva bisogno di noi per costruire scuole e ospedali, scavare
pozzi e fare opere di sviluppo… constatato che la nostra immagine tradizionale
di missione era impossibile da realizzare andammo in crisi!

Una crisi molto benefica,
peraltro; capimmo e accettammo che Qualcuno ci stava purificando, tagliando i
rami secchi: i «nostri» progetti e sogni, per renderci più liberi e disponibili
a seguire i Suoi! Privati del nostro stile classico di missione, riscoprimmo
tutta la bellezza e validità del carisma trasmessoci dal beato Giuseppe
Allamano: «Voi siete per i non cristiani».

Si trattava solo di cercare il «come»
essere per i non cristiani. E non fu facile. Lo Spirito Santo, però, al momento
opportuno ci venne in aiuto, come sempre ha fatto. Così il discernimento è
diventato il mezzo naturale per cercare di scoprire cosa e dove e come il
Signore volesse da noi nella missione. L’allora superiore generale, padre
Giuseppe Inverardi, ci offrì fino alla fine vicinanza e appoggio «affettivi»,
assieme a una preziosa libertà di pensiero e di opzione. La visita di uno dei
consiglieri di allora, padre Ramon Cazallas, ci aiutò a rompere gli indugi e a
decidere la nostra prima opzione missionaria: creare una «comunità
d’inserimento» nel quartiere di Man-sok-dong. Si trattava di «vivere assieme ai
poveri», più che fare qualcosa per loro.

Mentre Paco Lopez (spagnolo) e
Alvaro Yepes (colombiano) restavreno nella casa presa in affitto a Yok-kok,
nostro quartiere generale, Luiz Emer (brasiliano) e io ci spostammo, il
mercoledì delle ceneri del 1992, in una casetta esattamente come tutte le altre
di Man-sok-dong, dando inizio alla seconda comunità in Corea, dedita
all’evangelizzazione dei poveri urbani.

Angeli, amici e benefattori

L’arrivo nel quartiere di un
gruppo di preti stranieri (e la nostra presenza nelle parrocchie vicine) suscitò
molta curiosità nei cattolici. Le visite a casa si susseguivano: gruppi di
catechisti, donne della Legio Mariae; membri dei cori parrocchiali;
persone singole o gruppetti di amici. Quante volte dovemmo rispondere, nel
nostro coreano ancora incerto, a domande da interrogatorio di quarto grado: sì,
siamo ognuno di un paese diverso; sì, viviamo assieme e di solito non
litighiamo; sì, anche in Europa ci sono le quattro stagioni e le angurie; sì,
ci piace il kimchi (anche se allora era una bugia).

Monica, una signora della parrocchia,
si metteva spesso a nostra disposizione con la sua auto per fare le spese,
accogliere i visitatori all’aeroporto, per portarci nel luogo scelto per le
nostre vacanze comunitarie estive. Pundo, un signore che faceva il taxista, era
a nostra disposizione per i problemi tecnici concreti quotidiani. Francesca,
Sofia e tante altre catechiste, erano sempre a disposizione per correggere il
testo in coreano delle nostre omelie. E tante altre persone ci passavano
accanto: veri angeli del Signore per accompagnarci nel cammino e aiutarci a
credere che Lui non ci lasciava soli.

Tale situazione offriva una
preziosa opportunità per l’animazione missionaria. Cominciammo con un incontro
mensile di formazione per chi lo volesse; poi qualche ritiro spirituale; incontro
mensile missionario per gli alunni del catechismo delle elementari e medie.

Il «Gruppo amici» era fondato!
Quel fenomeno di Alvaro, destreggiandosi nei meandri della burocrazia locale,
riuscì a ottenere un numero di conto corrente «ufficiale», con grande sorpresa
di altre comunità religiose che non c’erano ancora riuscite. Così anche le
offerte degli amici cominciarono ad affluire costanti e generose.

Da quel momento le cose si sono
molto evolute; prima di tutto costruimmo la nostra casa-madre a Yok-kok. In
questa circostanza l’angelo inviato da Chi continuava a purificarci ma sempre
con un occhio di riguardo, rispondeva al nome di Kim Joseph. Questi, esperto di
costruzioni, si fece carico di «sorvegliare» la costruzione al posto nostro.
Essa ci pareva enorme a quei tempi, mentre adesso è diventata un nanerottolo,
schiacciato dai grattacieli nel frattempo sorti accanto.

Fin
dall’inizio ci preoccupammo di avere gli spazi necessari per l’animazione
missionaria e per altre eventuali attività non ancora previste. C’era infatti
un giovanotto che ci si era avvicinato e ci «annusava» con curiosità e
interesse, finché un giorno prese il coraggio a due mani e ci chiese se fosse
potuto anche lui «diventare come noi». Iniziò così anche il discorso del
discernimento vocazionale e quello più complesso della formazione. A quel Paolo
ne seguì un altro, poi altri giovani ancora. Purtroppo, in fasi diverse della
loro formazione, quei primi candidati coreani missionari della Consolata
uscirono tutti, ma ebbero il merito di aprire il cammino, di farci riflettere
su come agire con gli studenti coreani, quale formazione attuare con loro, come
meglio proseguire con le attività di formazione e animazione missionaria.

Il discernimento, illuminato
anche da padre Piero Trabucco, l’allora superiore generale, ci convinse a
pubblicare una rivista missionaria ad gentes per la Corea. Essa sarebbe
stata di forte aiuto per la nostra cerchia di amici, un prezioso mezzo di
animazione vocazionale, per attirare altri giovani alla bellezza della
vocazione missionaria, e un forte stimolo per la Chiesa coreana, molto attiva
nell’annunciare il Vangelo ai vicini, ma molto meno nel farlo ai lontani.

«La Consolata» in coreano

Anche questa
volta il discernimento ci spinse a lanciarci in una nuova avventura. Era il
1995. Nel frattempo erano arrivati altri missionari: Gianpaolo Lamberto,
italiano, e Antonio Domenech, spagnolo, nel 1992; Rafael, argentino, e
Benjamin, colombiano, nel 1994; per il 1996 era previsto l’arrivo di Alvaro
Pacheco, portoghese, e Juan Pablo, colombiano. Crescendo il nostro numero,
aumentava anche la capacità di lavoro. L’angelo di tuo questa volta si
chiamava Choi Marino, giornalista di professione; era seriamente ammalato, ma
ci diede ugualmente un aiuto decisivo, insieme a Shin Ki-jin, protestante, ma
amico fedelissimo, che da quasi 20 anni continua ad essere l’editore della
nostra rivista «La Consolata», naturalmente con caratteri coreani.

L’esperienza di Marino, mancato
purtroppo nel gennaio del 2000, si dimostò utile per indurci a pubblicare,
accanto alla rivista, una serie di sussidi di formazione missionaria che ebbero
il loro momento di gloria, e per riorganizzare il Gruppo degli Amici, secondo
la classica struttura coreana.

Grazie a questo, abbiamo iniziato
a organizzare «pellegrinaggi di esperienza missionaria», prima alle radici
dell’Istituto in Italia, poi alle missioni in Kenya, alle nostre presenze in
Spagna, in Portogallo e in Mongolia.

A tali iniziative si aggiungono i
problemi per trasmettere un autentico spirito missionario ad gentes alle
persone, per accrescere il numero dei benefattori, per diffondere la rivista…
ed altri ancora. Nonostante gli enormi sforzi fatti dalla nostra équipe
di Animazione missionaria vocazionale, non siamo ancora riusciti a formare un
gruppo giovanile missionario stabile. Anche in Corea le vocazioni alla vita
religiosa e missionaria sono drasticamente scese di numero. Eppure siamo
convinti che il Padrone della Vigna sia ancora al lavoro, magari sotto traccia,
per noi.

Finalmente, gli «altri»

«Mi rifugio nel santo Buddha, mi
rifugio nella santa dottrina, mi rifugio nella santa comunità dei monaci». È la
classica «professione di fede» buddista, cantilenata al ritmo del mok-tak
(un tamburello di legno concavo) dalla monaca che guida la solenne
celebrazione, mentre l’intera assemblea si profonde in rispettosi inchini a
ogni invocazione. Sono alla cerimonia pubblica per la festa della nascita di
Buddha; vi partecipo su esplicito invito del vescovo di Tae-jon, mons. Ryu
Lazzaro, che porta alla comunità buddista gli auguri della Chiesa cattolica. I
molti monaci, di vari ordini buddisti, e la grande folla ascoltano con
attenzione quando il vescovo legge loro il messaggio augurale ufficiale,
pubblicato ogni anno per l’occasione dal Pontificio consiglio per il dialogo
interreligioso.

Già ai tempi di Man-sok-dong
avevo avuto la possibilità di avvicinare qualche mu-dang (donna
sciamana) e di assistere a qualcuno dei loro rumorosissimi riti. Così pure, fin
dal nostro arrivo in Corea, avevamo visitato numerosi templi buddisti,
meravigliandoci al vedere una religione «viva» che guidava la vita di milioni
di persone.

Il grande sogno d’incontrare le
religioni non cristiane del paese, coltivato ancor prima di arrivare in Corea,
pur sempre vivo, era stato a lungo dilazionato a causa di altre necessità della
nostra missione, così come si stava sviluppando. Solo padre Antonio, arrivato
con la seconda ondata, dotato di sensibilità particolare in questo campo,
intrecciava le prime relazioni con monaci buddisti e membri di altre religioni.
Ma a dare la carica fu la visita di padre Alberto Trevisiol, allora vice
superiore generale: in un nuovo discernimento fu deciso di assumere il dialogo
interreligioso come dimensione costitutiva della nostra missione in Corea,
espressione chiara del nostro essere «per i non cristiani». Correva l’anno di
grazia 1995.

La decisione formale, però, prima
di diventare effettiva, ebbe bisogno di un lungo iter di preparazione.
Accompagnando Antonio, che aveva cominciato a studiare Religioni Comparate
all’Università cattolica di So-gang, cominciai anch’io a frequentare gli «altri»,
a partecipare a seminari di presentazione delle varie religioni per capire
meglio la loro fede e vita, a «pellegrinaggi interreligiosi» per visitare i
loro luoghi sacri, a tessere relazioni con i fedeli delle «religioni dei nostri
vicini», come si chiamano in Corea le «religioni non cristiane», espressione
molto significativa.

Fu costruito un piccolo centro
per il dialogo interreligioso a Ok-kil-dong, non lontano dalla base di Yok-kok,
completato e inaugurato nell’aprile del 1999 dal nostro vescovo, mons.
McNaughton, alla presenza del nunzio, mons. Morandini, con la partecipazione di
amici di diverse tradizioni religiose e di un buon numero di Amici Imc. Era
nata la terza presenza della nostra missione in Corea.

Dopo un primo periodo esaltante,
pieno di incontri e attività, grazie anche alla «Catena della pace», gruppo di
dialogo di candidati leaders religiosi, che aveva preso il nostro centro
come loro base di operazioni, seguì un periodo di delusione e fatica: la Catena
della pace sciolta, ci fu qualche crisi vocazionale intea… ma non abbiamo
mai mollato! Fin dal 2002 fummo chiamati dalla Conferenza episcopale coreana a
far parte della Commissione per il dialogo ecumenico e interreligioso; più
tardi entrammo nella Commissione per il Dialogo della Conferenza coreana delle
religioni per la Pace (Kcrp), partecipazioni «ufficiali» ci diedero molta
visibilità nel campo del dialogo interreligioso, anche perché ero l’unico
partecipante «straniero».

Con alcuni dei nostri cattolici
facemmo molte visite a gruppi e centri delle «religioni dei nostri vicini»;
eravamo riusciti a creare relazioni stabili con un gruppo di fedeli buddisti di
un tempio vicino (2005-2006), grazie all’interesse e accoglienza del loro
monaco guida; ma quando questi fu spostato in un eremo sulle montagne, tutto il
processo fu interrotto. Poi intervenne il Padrone della vigna, tramite il
governo coreano questa volta: per fare spazio a un complesso di case popolari,
espropriò tutti coloro che vivevano nell’area dove c’era il nostro centro.

Nuova crisi e nuovo
discernimento. Ma l’esperienza accumulata ci permise di costruire un nuovo
centro in un’altra zona, più adatto al tipo di dialogo che nel frattempo
avevamo maturato: un dialogo di base tra fedeli di varie religioni, da
prolungare nel tempo e non ridotto a qualche sporadico incontro; un dialogo
fatto attraverso lo scambio dell’esperienza religiosa, che fosse di
arricchimento per tutti.

Nella nuova zona, nella diocesi
di Tae-jon, nel centro della Corea, il vescovo ci accolse a braccia aperte,
esclamando: «Anche noi a Tae-jon abbiamo bisogno di consolazione! E in quanto
al terreno, non preoccupatevi. Dio ha già scelto il luogo adatto per voi: si
tratta solo di trovarlo!».

Era vero. Il Padrone della vigna
ci aveva riservato un bel posto, e il solito angelo delle nostre costruzioni,
il signor Kim Joseph, accompagnato dal figlio Matteo, provvide a completare la
costruzione in tempo per celebrare i 25 anni di nostra presenza in Corea.

Burroni e vette

Dopo vari
anni di presenza a Man-sok-dong, dove l’ammodeamento dell’area diventava
sempre più concreto, cominciammo a riflettere sul senso, stile e forma di presenza
in quel «quartiere della luna», finché la comunità decise che era ora di
cambiare. Nel 2001, una comunità di tre missionari, si stabilì in un altro
quartiere di poveri, a Ku-ryong-maul, nella stessa capitale Seoul. Lo spazio
della nostra abitazione era limitatissimo, ma trovammo un’altra casetta accanto
e l’adibimmo a doposcuola per i ragazzi del quartiere e per altre attività.

Della
comunità di Ku-ryong-maul faceva parte anche il keniano Joseph Otieno. Ci
viveva felice, facendo, secondo le sue stesse parole, «le piccole cose che
c’erano da fare»: riparazioni nella casa di alcune nonnine del luogo, fare la
spesa e altri servizi per le stesse nonnine, assistenza e pratica dell’inglese
per i ragazzi del doposcuola… Era anche un vero atleta, tanto da iscriversi a
un gruppo sportivo che partecipava alle corse amatoriali. Il 18 dicembre 2005,
stava partecipando con il suo gruppo sportivo a una mezza maratona, organizzata
per raccogliere fondi a favore dei bambini sofferenti di cuore… quando il suo
cuore si fermò nei primi chilometri della corsa. Aveva 31 anni. Lo shock fu
tremendo e la crisi altrettanto dura. Non ci restava che aggrapparci alla fede
con tutte le forze. Anche perché, all’inizio dello stesso anno orribile, in un
incidente d’auto, avevamo perso David, seminarista di 29 anni. Dopo questi
fatti si prospettava una nuova evoluzione: anche la nostra presenza a
Ku-ryong-maul stava perdendo un po’ di significato. Avevamo scoperto che, da
qualche anno, i «più poveri dei poveri» in Corea erano gli immigrati stranieri,
entrati nel paese, spesso illegalmente, in cerca di lavoro. Inizialmente la
Chiesa coreana stentò a rendersi conto del fenomeno, ma poi rispose con grande
generosità e organizzazione, tipiche del popolo coreano.

Anche noi decidemmo di collaborare
con la Chiesa locale nell’opera di assistenza e accoglienza dei lavoratori
stranieri. Nell’ottobre 2007 ci siamo stabiliti anche a Tong-du-cheon, città a
nord est di Seoul, diocesi di Ui-jong-bu. Ben presto la nuova casa diventò un
punto di riferimento sicuro per i molti immigrati stranieri che vivevano nella
zona. Ed è l’espressione attuale dell’evoluzione che la famosa «opzione per i
poveri» ha avuto nella nostra storia. 

Tra avvicendamenti e nuovi arrivi
di missionari il lavoro continua, grazie anche agli «angeli», moltiplicati e
diversificati, mandati dal Signore per accompagnare il nostro cammino.

«Non vi sembra un caso
straordinario che i due primi missionari della Consolata coreani ad essere
ordinati sacerdoti abbiano tutti e due lo stesso nome: Han Gyeong-ho?» proclamò
estasiato il vescovo di Incheon, all’ordinazione di Pietro e Martino, l’8
ottobre 2009; e la numerosissima assemblea rispose con un «oh!» di meraviglia,
stretta con affetto attorno ai due novelli sacerdoti. «Sono destinati uno al
Brasile e l’altro alla Spagna – proseguiva il vescovo – inviati anche dalla
nostra Chiesa coreana come missionari ad gentes».

Sì, il Padrone della vigna, oltre
a farci sperimentare la sofferenza dei «burroni», ci dava finalmente anche la
gioia di gustare l’ebbrezza delle «vette». E il dono si è ripetuto più volte.
Nel gennaio 2011 fu la volta di Kim Joseph (ora in Colombia) e nel gennaio 2012
quella di Lee Benigno (ora in Kenya). In occasione della festa della Consolata
2012 è stato ordinato diacono Kim Giuseppino, che riceverà la consacrazione
sacerdotale all’inizio del 2013, in concomitanza con il 25° della nostra
presenza in Corea.

In dirittura di arrivo c’è anche
Marco, per ora in formazione in Argentina. Intanto continuiamo a sperare che il
Padrone della vigna mandi altri giovani decisi a offrire generosamente la loro
vita per la missione ad gentes.

Conclusione

Lunga e
affascinante la nostra storia in Corea. Molte altre cose sono successe in
questi 25 anni, ma non sono state scritte, perché ci vorrebbero troppi libri
per contenerle. Posso però affermare con certezza: è affascinante scoprire che,
dietro a ogni avvenimento, grande o piccolo che sia, c’è la mano di Colui che è
«protagonista» della missione a pieno titolo. È Lui che guida la storia e le
storie, che dà significato agli eventi, che attira tutto a Sé, in maniera a
volte evidente, a volte nascosta e discreta, come sotto traccia, ma sempre
certa.

È
affascinante scoprire come la missione non la facciano gli eventi o i momenti
importanti, che pure ci sono ogni tanto, ma le piccole cose, la vita d’ogni
giorno, che sembra non dire e non fare niente di eccezionale, ma poi si scopre
essere il tessuto di una storia intera che, vista globalmente e da giusta
distanza, si rivela come un arazzo bellissimo.

È affascinante, infine, scoprire
come la missione, l’annuncio della Buona Notizia agli altri, diventi esperienza
personale di vangelo, di fede autentica nel Signore, che di giorno in giorno si
va purificando, approfondendo, diventando linfa vitale.

A risentirci per il 50°!
 
Diego Cazzolato

Diego Cazzolato

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