Medici di frontiera (1): Renzo de Stefani e «Le parole ritrovate»
Un movimento nato a Trento lotta contro la discriminazione dei malati di mente.
Organizza imprese impensabili in giro per il mondo. E promuove il «fareassieme», malati, familiari, operatori. In Kenya il gruppo scopre l’ospitalità e la gioia di vivere degli africani.
La traversata dell’Atlantico in barca a vela, il viaggio in treno da Venezia a Pechino sulle orme di Marco Polo, il coast to coast degli Stati Uniti da Boston a Los Angeles, la spedizione in Kenya per far nascere una scuola. A compiere tutte queste imprese, in pochi anni, non è stata una comitiva di turisti avventurosi, ma un gruppo di malati mentali impegnati a dimostrare che anche i «pazzi» possono vivere una vita normale e contribuire a migliorare il mondo.
Una psichiatria «democratica»
Tutto è cominciato nel 2006 su iniziativa di Renzo De Stefani, direttore del Dipartimento di salute mentale di Trento e fondatore de Le Parole Ritrovate (Pr): un movimento, diffuso in una quindicina di regioni italiane, che promuove il «fareassieme» (scritto attaccato). «La nostra filosofia consiste nel coinvolgere i pazienti e i loro familiari nei percorsi terapeutici e di reinserimento, rendendoli protagonisti alla pari degli operatori sanitari» spiega lo psichiatra. «Tutto questo in collaborazione con volontari o semplici cittadini interessati a dare una mano e a combattere i pregiudizi che, a oltre 30 anni dalla chiusura dei manicomi, continuano ad abbattersi sui malati di mente». Proprio per lottare contro lo stigma, De Stefani e Le Parole Ritrovate hanno dato vita a una serie di iniziative «extra-ordinarie» in giro per il mondo, in cui gruppi misti di utenti, familiari e operatori si sono messi alla prova, confrontandosi con altre realtà e favorendo la diffusione di una psichiatria più «democratica».
A Pechino ad esempio, grazie a un finanziamento della Provincia di Trento, hanno contribuito all’apertura del primo centro di salute mentale alternativo ai manicomi (che in Cina danno ricovero a circa 18 milioni di persone). Mentre negli Usa, presso la Veteran administration, hanno incontrato i reduci delle guerre degli ultimi 60 anni, alle prese con gravi conseguenze psichiatriche, per confrontarsi sul «fareassieme» e sulle pratiche di «auto-mutuo-aiuto».
«Ma l’esperienza africana, avviata nel 2009, ha un valore aggiunto rispetto a tutti gli altri viaggi che abbiamo intrapreso», dice De Stefani, «perché per la prima volta si è dato un contributo concreto alla vita delle popolazioni locali, attraverso la creazione di una scuola a Muyeye, in Kenya».
Turisti sui generis
Muyeye è un villaggio di polvere rossa a 15 km da Malindi, abitato da 10.000 persone che vivono in misere capanne di fango e paglia. «La scelta del Kenya è venuta un po’ per caso», spiega De Stefani, «il nostro obiettivo era fare qualcosa in aiuto alla cooperazione internazionale, e all’inizio ci eravamo rivolti all’Amref di Roma che aveva accolto con entusiasmo la nostra idea. Poi però i loro referenti in loco hanno avuto timore che un’«invasione» di 200-300 persone, per la maggior parte malati psichici, potesse portare scompiglio nelle loro attività, e abbiamo dovuto rinunciare a questa collaborazione». Alla fine il progetto è stato realizzato insieme a Itake, una piccola associazione di Frosinone specializzata nel sostegno scolastico a distanza, che aveva già alcuni contatti nella zona di Malindi. «Dalla fine del 2009, sono andati in Kenya a più riprese una decina di gruppi “misti” (malati e non) de Le Parole Ritrovate, provenienti da varie regioni italiane, per incontrarsi con la gente del posto, capire quali erano i principali bisogni e monitorare l’avanzamento dei lavori di costruzione della scuola» racconta Mario Stolf, che ha accompagnato come volontario alcuni gruppi partiti da Trento. Mario, che lavora nell’accoglienza agli immigrati, in passato era già stato in Kenya per conto dell’Ong Accri, lavorando in collaborazione con la diocesi di Nairobi e la parrocchia dei comboniani di Alex Zanotelli nella baraccopoli di Korogocho. «Perciò conoscevo già il territorio e la lingua locale, lo swahili. Prima del viaggio ho cercato di preparare i ragazzi, dando qualche informazione sul paese e qualche regola di comportamento, per evitare che agissero come i classici turisti mordi e fuggi, che fanno più danno che bene».
In effetti la presenza dei ragazzi delle Pr – documentata anche nel film «Muyeye» di Sergio Damiani e Juliane Biasi, selezionato tra i migliori documentari del 2011 da Rai Doc3 – è stata un’esperienza del tutto nuova per gli abitanti del villaggio. «Di solito i turisti arrivano da Malindi su pulmini da cui non scendono nemmeno per scattare le foto: si limitano a tirar giù i finestrini e lanciare ai ragazzini soldi e caramelle, per poi tornare subito in albergo o in spiaggia» racconta Mario Stolf. «I nostri ragazzi invece trascorrevano tutto il giorno con gli abitanti di Muyeye», dice De Stefani, «condividendo i pasti e dedicando molto tempo a parlare per conoscersi e scambiarsi esperienze a vicenda, con la traduzione simultanea di Mario».
Così diversi così uguali
Soprattutto i ragazzi e i loro familiari hanno cercato di raccontare e spiegare agli abitanti del villaggio le proprie esperienze di sofferenza e malattia. «Non è stato sempre facile» racconta il regista Sergio Damiani, «ricordo ad esempio quando Ugo, un ragazzo affetto da disturbi ossessivi e molto ansioso, ha raccontato che in passato aveva tentato di suicidarsi. La gente di Muyeye non riusciva a capire… come si può desiderare la morte quando si hanno i vestiti e la pancia piena?». In effetti per gli africani il concetto di morte volontaria è abbastanza incomprensibile: basti pensare che da nessun paese del continente arrivano all’Organizzazione Mondiale della Sanità dati statistici sui casi di suicidio, che in realtà sono molto rari e limitati alle grandi città, dov’è più forte l’imitazione dei modelli occidentali. «Tuttavia non sono mancati momenti di condivisione molto forti ed emozionanti – continua Damiani – in particolare quando il nostro gruppo ha incontrato la famiglia di Nebat Jumba, uno spaccatore di pietre. La sua prima moglie Riziki, dopo aver dato alla luce quattro figli, è uscita di senno, ha iniziato ad avere allucinazioni e sentire le voci, e lui ha dovuto rimandarla dai suoceri, affidando i bimbi alla seconda moglie». Tra i ragazzi italiani e questa famiglia si è creato un legame stretto, e adesso il gruppo di Trento continua a spedire a Riziki, ogni due mesi, alcuni farmaci. «Attraverso Riziki abbiamo conosciuto meglio la realtà della salute mentale in Kenya», dice De Stefani. «I malati meno gravi sono ben tollerati dalla comunità, ma se il wazimu, il matto, diventa aggressivo viene chiuso in casa, tenuto alla catena o spedito al manicomio di Mombasa». A Malindi c’è un ambulatorio dove le persone possono andare una volta al mese a prendere dei farmaci, soprattutto antipsicotici; ma non esiste nessun tipo di assistenza a domicilio. «Inoltre gli interventi farmacologici o di contenzione convivono pacificamente con i riti animistici. Di tanto in tanto, com’è accaduto anche per Riziki, si sgozza un agnello o un capretto, sperando che lo “spirito cattivo” abbandoni la persona. Quanto alla psicoterapia, non sanno cosa significhi».
Non terapie, ma botte di vita!
L’incontro tra le due realtà di esclusi – i bianchi matti e i neri poveri – è stata per molti partecipanti al viaggio una «rivelazione».
«Ho scoperto che l’Africa non è come ce la fanno vedere nelle pubblicità, un’Africa triste, ma invece è piena di gioia e colori» dice Egidio di Bologna. «Loro, pur nel bisogno, vivono molto più semplicemente e autenticamente di noi» dice Gilberto di Modena. Enzo di Trento è rimasto colpito da tre cose: «Il caldo, l’acqua non potabile, la miseria. Nel villaggio avevano 10 noci di cocco con 3.000 bambini: è significativo che quelle noci le abbiano date a noi». «A me dell’Africa hanno colpito la sporcizia, i bambini e la tanta voglia di vivere» osserva invece Umberto di Sondrio. E Mirella di Trento aggiunge: «Ricordo le case con le candele accese, il mangiare con le mani tutti assieme. Io ceno con forchetta, coltello e tovagliolo, ma sicuramente la solitudine come la sentiamo noi in un condominio, là non la sentono».
Ma oltre alla scoperta di «un’altra Africa», più autentica, più dignitosa e solare, un’esperienza come quella di Muyeye può avere un valore terapeutico per le persone affette da patologie mentali? «Non facciamoci illusioni – avverte il dottor De Stefani – questi viaggi non hanno un potere taumaturgico! Per alcuni non è cambiato un bel nulla; qualcuno, vedendo le condizioni di vita di Muyeye, si è depresso ancora di più; per qualcun altro invece il viaggio è stato la grande occasione della sua vita… In generale queste esperienze sono una botta di vita per i ragazzi. Tenete conto che i malati psichici raramente fanno una vita molto attiva: queste avventure sono un modo per dirsi «anch’io posso fare cose positive e interessanti, anch’io posso vivere», e questo crea benessere. Anche perché tutte queste dinamiche le viviamo in gruppo, stando insieme, condividendo ogni momento, rompendo l’isolamento». Inoltre, come spiega Anna di Bologna: «Andando in Africa le differenze si annullano. Noi bianchi eravamo diversi ai loro occhi, e proprio questo ha portato un senso di uguaglianza nel nostro gruppo facendoci vivere una dimensione di normalità. Eravamo così, diversi per il colore della pelle, ma paradossalmente tutti uguali, non c’erano più sani e malati…».
Una scuola per dare futuro
I ragazzi delle Pr, pur non partecipando direttamente alla costruzione della scuola di Muyeye, si sono mobilitati per una raccolta fondi in tutta Italia. Dalla vendita di mattoncini, cartoline e segnalibri dipinti a mano, alla realizzazione di spettacoli e concerti, ognuno ci ha messo del suo e alla fine si sono raccolti 60.000 euro che – con l’aggiunta di una cifra uguale messa dall’associazione Itake – hanno permesso di edificare la scuola, «tutta costruita manualmente, perché la manodopera costa meno dei mezzi meccanici» spiega Egidio di Bologna.
La scelta è ricaduta su una scuola professionale perché in Kenya, spiega Mario Stolf, «dopo la scuola primaria di otto anni, obbligatoria e gratuita, gli istituti secondari e professionali sono a pagamento, e solo una ristretta élite può permetterseli; mentre i figli dei poveri (la maggior parte) vanno a lavorare nel settore del turismo, fanno i beach boys o finiscono in giri poco puliti».
La scuola di Muyeye, inaugurata ufficialmente a inizio 2011, offre una sessantina di corsi di meccanica, elettronica, informatica, edilizia, sartoria, ecc. Senza contare i corsi di italiano, visto che a Malindi non solo i turisti, ma anche molti residenti e titolari di aziende – possibili datori di lavoro dei futuri artigiani – sono nostri connazionali. La scuola, che ha già creato posti di lavoro (7 insegnanti, di cui 4 stipendiati dal ministero della Gioventù e dello Sport), è affidata a un Comitato di gestione formato da alcuni enti locali e dalle famiglie del villaggio. Spetta a esso definire le linee politiche e reperire i finanziamenti. «In Kenya le scuole non vengono sovvenzionate dallo Stato», spiega infatti Mario, «ma sono a tutti gli effetti piccole imprese, che cercano di sostenersi tramite gli sponsor, le tasse scolastiche, la vendita di prodotti realizzati al loro interno».
E non finisce qui…
Il giorno dell’inaugurazione della Muyeye Polytechnic School erano presenti le autorità locali (rappresentanti del comune, della prefettura, del ministero dell’Istruzione e di quello di Gioventù e Sport) oltre a una cinquantina di persone delle Pr e a un gruppo di studentesse e docenti del liceo Rosmini di Trento, che vanta «una lunga tradizione di rapporti con il Servizio di salute mentale della città» come spiega la preside, Matilde Carollo. «Nelle classi si tengono incontri di sensibilizzazione sui temi dello stereotipo e dei pregiudizi legati alla malattia mentale, con la partecipazione degli utenti del servizio. Gli studenti partecipano periodicamente agli stage nel centro vacanze Casa del Sole, e anche l’esperienza africana è stata un modo per sperimentarsi “sul campo”». Una studentessa racconta che, giunta a Muyeye, all’inizio non sapeva come rapportarsi agli altri: «Sono molto timida e fatico a rompere il ghiaccio. Ma il primo giorno un ragazzo si è presentato come un amico di mio fratello ed è nata un’amicizia. Una sera le persone si sono presentate più a fondo e ho scoperto che quel ragazzo non era un operatore, come credevo, ma un utente. Questo mi ha sbalordito, perché era proprio come noi…».
Adesso, a distanza di tempo, oltre a sostenere la scuola il gruppo delle Pr mantiene rapporti di vario tipo con gli abitanti del villaggio: chi si tiene in contatto via sms, chi ha attivato forme di adozione a distanza, chi – semplicemente – ha deciso che, in un modo o nell’altro, in Africa ci toerà ancora.
Stefania Garini